Il leone marino
In quel momento Maurits Lammertink si sentiva felice. In giro con la sua famiglia per le strade di Hengelo e poi una pausa per prendere un gelato con Marion, sua moglie, e con Seb e Fer i suoi figli.
Hengelo non era mai sembrata così bella ai loro occhi e in quel momento Maurits Lammertink si gettava ogni pensiero alle spalle. Ed era felice davvero, nonostante tutto. Nonostante proprio quel mattino la notizia che non pensava di ricevere: “Ci dispiace Maurits, non correrai il Tour de France” un messaggio che sarà suonato più o meno così da parte della sua squadra, la Intermarché-Wanty-Gobert Matériaux, che lo avvertiva dell'esclusione dalla corsa più importante del mondo. Lui si sentiva pronto, ma tant'è.
Ha quasi 31 anni Maurits, capelli di un biondo tendente al giallo, la barba leggermente incolta e il passaporto olandese. È il 22 giugno del 2021 e il sole sta tramontando. Ha quasi 31 anni Maurits e ha appena consegnato nelle mani di moglie e figli i tre gelati. Un sorriso, un “arrivo subito”, sta tornando verso il bar per prendere il suo gelato e pagare il conto. Attraversa la pista ciclabile e succede. Succede che in quel momento uno scooter che non doveva essere lì passa a tutta velocità e lo colpisce in pieno. Maurits vola in aria, atterra sbattendo violentemente la testa, perde conoscenza, mentre il sangue sgorga dalle sue orecchie. Sua moglie pensa sia morto. Uno dei suoi figli assiste a tutta la scena e resta sotto shock per quello che ha visto tanto da iniziare a soffrire nei mesi successivi di attacchi d'ansia, tanto da credere di essere rifiutato dal padre perché oggi Lammertink fa fatica a giocare con lui.
Lammertink entra in coma, viene operato d'urgenza al cervello: tre emorragie celebrali e frattura della base cranica; rischia di rimanere sordo e ha dolori ovunque, dopo un po' di settimane prova a ricominciare a vivere seguendo un programma di riabilitazione.
Ralph Blijlevens, giornalista olandese che ne ha raccontato la sua storia, spiega come Maurits faccia fatica sei mesi dopo anche in quell'attività di base studiata con il fisioterapista: qualche tiro a badminton. Quando entra nel palazzetto dello sport è letteralmente travolto dalle luci e dai suoni da doversi prendere diverse pause, e sedersi al silenzio lontano da tutto e tutti.
La sua mente si stanca facilmente e Marion è sempre al suo fianco perché «la mia presenza gli dà qualche certezza in più. La memoria va e viene e ancora fa fatica a elaborare alcune informazioni: spesso mi tocca spiegargli le cose da capo». Racconta, sua moglie, di come, durante un incontro con il logopedista, ha scambiato un cavalluccio marino mostratogli in foto, per un leone marino.
«Non so se potrò mai tornare a essere un ciclista professionista» afferma Lammertink, nove stagioni e mezzo in mezzo al gruppo dei grandi e 3 vittorie, in risposta a quelle voci che lo volevano pronto al rinnovo con la sua squadra.
Testardo come Warren Barguil
Warren Barguil è nato nel dipartimento di Morbihan, in Francia, e i francesi sostengono che chi nasce da quelle parti sia decisamente testardo. Di certo, i medici che lo hanno curato dopo la caduta in allenamento e la frattura al bacino dello scorso settembre hanno saggiato la sua testa dura. Il suo corpo sembra un puzzle, tante sono le cadute che lo hanno martoriato e questa volta l’avviso è stato perentorio: «Ci vorrà tempo e pazienza. Per sei settimane non puoi mettere piede a terra». Barguil ne ha aspettate cinque, alla sesta, senza dire nulla al chirurgo, ha ripreso a camminare per casa.
Non è stata la prima volta che faceva di testa propria. A Carcassonne, al Tour di quest’anno, era messo talmente male che chiunque avrebbe mollato. I suoi direttori sportivi, in Arkéa-Samsic, l’hanno dovuto minacciare per farlo fermare: «Devi ritirarti. O lo fai di tua spontanea volontà o ti escludiamo noi dalla squadra». Così testardo da far quasi arrabbiare; persino sfacciato a tratti. Come al Tour de France 2017 quando, dopo due tappe vinte alla francese, ovvero con tutto l’orgoglio, la sofferenza e forse anche la drammaticità di cui i blues sono capaci, disse apertamente, rivolgendosi alle tattiche delle altre squadre: «Ho attaccato, ci ho provato. Per attaccare non è necessario controllare i watt tuoi o dei rivali».
Probabilmente Wawa, così lo chiamano in patria, è sempre stato testardo. Più probabilmente lo è diventato. Quando gli dicevano di aspettare, di lasciare che fossero gli altri “a fare la corsa” per poi attaccare all’ultimo e lui non capiva più perché, allora, corresse in bicicletta se doveva «farsi portare in giro dal gruppo». Non c’è attendismo nel suo modo di essere e se insegue la vittoria come ognuno, per essere soddisfatto di se stesso gli basta vivere la corsa, farla, non subirla. Fino a quando l’ha subita, si è ritrovato in camera, distrutto, con la voglia di tornare a casa. Come ha iniziato a disegnarla, a casa non ci è più voluto tornare, nemmeno fatto a pezzi dalla strada.
Ora pensa al 2022. Dopo il Tour de France e la Vuelta, vorrebbe essere al Giro d’Italia. L’Italia lo affascina, il Giro lo attrae. Con Nairo Quintana, in squadra, per quest’anno punterà anche alle brevi corse a tappe e alle corse da un giorno. Intanto attende che Arkéa-Samsic diventi una squadra World Tour e a “L’Équipe” confida: «Se non sarà per il 2022, sarà per il 2023. Ma se il passaggio non dovesse esserci, di certo qualcosa cambierà per me. Mi trovo bene, ma sarà inevitabile guardare altrove a quel punto». Inevitabile come la testa dura di Warren Barguil.