Kévin Vauquelin: un neopro sulla Montagna Verde

Se nel ciclismo esistesse il premio dedicato al corridore migliorato maggiormente (una sorta di "Most Improved Player" che assegnano nell'NBA, per dire), non avremmo alcun dubbio su chi puntare dopo questo primo mesetto di gare.
È bastata una manciata di chilometri, un pugno di corse, per farci sobbalzare dalla sedia. Al Tour of Oman, infatti, negli ordini d'arrivo delle ultime tre tappe è spuntata la sagoma di un giovane francese; è spuntato il nome di Kévin Vauquelin che ricorda "Voeckler" ma solo per l'assonanza del cognome. Classe 2001, buon talento, sicuramente, ma non di certo quel corridore che una volta passato professionista lascerebbe a bocca aperta gli osservatori, eppure...
Siamo a febbraio, qualcuno avvicina questo periodo dell'anno ciclistico al calcio d'agosto, quindi verità da prendere con le pinze, menzogne da smascherare, eppure...
Eppure quel Vauquelin in cima a Green Mountain è andato forte, stupendo e stupendosi. Non conosce ancora i suoi limiti, ma come potrebbe: «Ho corso pochissimo in montagna tra i dilettanti in Francia nelle ultime stagioni: sinceramente non pensavo di riuscire a ottenere risultati del genere tra i professionisti» ha raccontato a fine gara.
Normanno di Bayeux, Vauquelin; normanno, come quelli a cui piace attaccare col vento in faccia, che hanno indole da guerrafondai, che se potessero si porterebbero dietro la bandiera da pirata, una benda sull'occhio, un coltello nella tasca. Un normanno di vento in faccia se ne intende.
Forte soprattutto a cronometro: lo scorso anno campione nazionale under 23, due anni prima stesso titolo, ma tra gli juniores. Forte sul passo, vien da sé immaginarlo, valido o qualcosa in più anche quando l'aria viene incanalata nei velodromi: le sue azioni hanno il loro perché anche sul parquet dove ha conquistato medaglie mondiali a livello giovanile, ma è il suo passo in salita che ha meravigliato. Compreso se stesso e i suoi tecnici.
Da quando ha smesso di studiare si è messo in testa seriamente di fare il ciclista e lo fa da un paio di stagioni, per lui passare professionista non è un punto d'arrivo, «ma un primo passo verso quello che potrò diventare».
Sostiene (ma sarà vero?) che la “Montagna Verde” potrebbe aver favorito il suo rapporto peso potenza, con quei tratti che parevano un'autostrada in salita, pur con pendenze in doppia cifra: «Un tipo di salita da gestire un po' come si gestisce una cronometro» ha detto proprio così. Così come non ci sono alcun dubbi sulla partenza a cannone dell'Arkéa, complice pure la lotta per una manciata di punti tra alcune squadre con lo scopo di entrare o di restare nel World Tour. A fine stagione si rinnovano le licenze.
È vero tutto quello che volete, ma la parabola di Kévin Vauquelin è una di quelle da scoprire, per capire fino a dove porterà. Non un predestinato, ma intanto, sicuramente, fra le sorprese di questo inizio 2022.


Domenico Pozzovivo avrebbe anche potuto essere stanco...

Diciamoci la verità: Domenico Pozzovivo avrebbe anche potuto essere stanco. Sarebbe stato anche umano, troppo umano per dirla con Nietzsche. Non sono, invece, così umane quelle undici viti e quella placca che i medici usarono per sistemargli la gamba dopo l'incidente allo Stelvio, nel 2014, quando un gatto gli attraversò la strada in allenamento. Non sono umani tutti gli incidenti che ne hanno martoriato il corpo, spesso prima dei grandi appuntamenti, talvolta all'interno degli stessi. E nonostante tutto Pozzovivo è finito per ben sei volte fra i primi dieci del Giro d'Italia, per due volte quinto. Ha vinto a Lago Laceno, quella montagna sfuggita al Pirata nel 1998.

Quando Qhubeka ha annunciato la chiusura, Domenico Pozzovivo, senza, avrebbe potuto essere stanco, a trentanove anni, di tutto ciò che era già successo. Dei momenti di paura che il ciclismo gli ha lasciato addosso: al Giro d'Italia 2015, con quel volto sbattuto a terra, quegli attimi di terrore. Solo tre anni fa quando sembrava che un'auto in allenamento avesse messo fine a tutto. Persino lo scorso anno, quando ad Ascoli, al Giro d'Italia, si è dovuto fermare perché quelle ossa, quei muscoli, ne avevano già viste troppe e una caduta lo aveva ancora messo in ginocchio.

Avrebbe potuto e invece ha continuato ad allenarsi come se la squadra l'avesse e non era sicuro di trovarla. Sapeva solo che un ciclista vuole essere libero di concludere la carriera quando decide lui, uno sberleffo dritto in faccia alla sfortuna. Tempo fa, un tifoso ci disse che amava Pozzovivo perché "non sembra un ciclista". Abbiamo capito che parlava della sua semplicità, del suo essere sempre contento o del suo mostrarsi contento per poi risolvere da solo i problemi, anche quelli che sembrano troppo grossi. Come essere senza squadra a quasi quarant'anni.

Poi è arrivata l’Intermarché e Pozzovivo era pronto. A trentanove anni potrebbe ancora prendersi sulle spalle la squadra al Giro d'Italia. Non sono promesse vane, basta aver guardato la seconda tappa della Vuelta a Andalucia, quella vinta da Alessandro Covi davanti a Miguel Ángel López e Iván Ramiro Sosa, sul primo arrivo in salita. Domenico Pozzovivo "ha la gamba" come si dice in gergo. Ottavo, ottavo dopo l'inverno che ha trascorso, ottavo sul suo terreno. Aveva sempre detto di crederci, dopo quasi ogni incidente e anche dopo essere rimasto senza squadra. Ma dirlo è anche facile. Pozzovivo lo ha fatto e ieri è stato un antipasto, il cui significato si vede bene guardando indietro, per una volta. Quando Pozzovivo avrebbe potuto essere stanco, invece non lo era. Questo è il punto.


Le paure di un ciclista

Accadono molte cose all'inizio di una discesa. Mantelline, fogli di giornale e posizioni aerodinamiche sono visibili a tutti, poi c'è quel che non si vede. Cosa pensa un ciclista mentre inizia a scendere? In gruppo dicono che, in realtà, la discesa è qualcosa di irrazionale e per questo può incutere timore. Irrazionale perché normalmente è l'uomo ad avere il controllo del mezzo, della bicicletta, in quel caso invece quel controllo è fragile. Normalmente l'uomo accelera, spinge anche a fatica per far girare quelle ruote, quei pedali, in discesa bisogna frenare per rallentare una rincorsa automatica della bicicletta. Le discese possono fare paura e serve molto lavoro per risalire la china di quel blocco, di quando il corridore frena solo, non vuole più andare avanti, ha paura di lasciarsi andare.
Pierre Latour sta facendo questo lavoro perché dopo la caduta in discesa del 2019, in allenamento, quella che gli costò la frattura di entrambi gli arti superiori, le discese sono diventate un problema. Tra l'altro, nel suo caso, il problema fu causato da una buca del manto stradale e questo essere senza controllo lo terrorizza ancor più: «Come si fa a fidarsi nel mollare i freni quando non sai cosa c'è dietro la curva?». Anche perché, in discesa, non puoi frenare di colpo e in ogni caso la frenata ha un tempo prima di bloccare il mezzo. Quando parla di discese, Latour non è più lo stesso e noi possiamo solo immaginare cosa gli si smuova dentro mentre vede video di downhill che dovrebbero aiutarlo a migliorarsi. Alla fine ha capito che la sua paura è in parte lì, sulla strada che scende e in parte altrove. Perché le cadute in discesa sono rovinose, si rischia di perdere la stagione e lui, a fine stagione, quando non ha più nulla da perdere va meglio, si sente più libero.
In TotalEnergies stanno provando a invertire il meccanismo classico attraverso cui Latour ha affrontato le discese, ovvero quello di mettersi davanti al gruppo, per fare in modo di poter frenare senza staccarsi del tutto. Negli anni scorsi, Latour aveva anche i compagni a proteggerlo in discesa perché lo spaventava anche lo spostamento d'aria causato dal passaggio di un atleta che ti sorpassa a tutta. Perché nelle paure fa tanto il ricordo del male, del dolore fisico e psicologico, e quel ricordo esaspera tutto, anche se il corridore che ti sorpassa è distante: tu lo vedi vicino, attaccato, addosso. Perdi lucidità e, alla fine, realizzi ciò che temi: o ti fermi o cadi davvero.
E gli altri? Cosa fanno gli altri? Le persone che hai vicino, lo staff, anche i compagni, forse. Da lì iniziano ad arrivare i consigli, tutti in buona fede, assolutamente. Ma è anche questa la difficoltà di un corridore, quella che, nel caso di Latour si innesca all'inizio di una discesa: «Chi ascolto? Qual è il consiglio giusto?». Ci sono regole generali, poi c'è la soggettività, ciò che è giusto per te, per la tua singola paura, per il corridore che sei.
A Calpe, negli scorsi giorni, Latour ha ripetuto varie volte la stessa discesa, con i compagni a controllare che non passassero auto e l'allenatore a "dirigerlo". Poche persone a dargli consigli, perché è meglio così. Una tranquillità simulata che gli ha permesso di essere sereno conoscendo ciò che c'era dietro la curva, che gli ha permesso di trovare calma e serenità da affiancare al ricordo negativo e poi di passare oltre. Già, perché sarà questo il prossimo passo: evitare di anticipare il plotone in testa, stare lì in mezzo, correndo anche il rischio, sentendo anche la paura, evitando però di tirare i freni perché non è vero che un ciclista non può avere paura delle discese. È, però, vero che un ciclista non può permettersi di non affrontare discese e da quando prende coscienza della paura ha il dovere di lavorarci. Per arrivare a valle.
C'è anche questo in un ciclista in vetta a una montagna, c'è anche questo nella posizione di un ciclista mentre si butta in discesa. Ci si può chiedere quale paura o quale coraggio lo porti lì, perché in lui ci sono le paure di un corridore, di ogni corridore.