Top&Flop - alvento weekly #2

TOP

Jonas Gregaard

Il ragazzo danese cerca di rilanciarsi, ha lasciato l'Astana due anni fa sposando il progetto UNO-X Pro Cycling. Il ragazzo danese va in fuga quasi tutti i giorni alla Parigi-Nizza. Il ragazzo danese ha tre meriti:

1) Conquista la maglia a pois della celebre corsa a tappe di marzo rendendo orgogliosa la sua squadra che a luglio tornerà sulle strade francesi per il primo Tour della propria giovane storia.

2) "Costringe" un capitano consumato come Alexander Kristoff ad aiutarlo in fuga a conquistare punti decisivi alla conquista del primato.

3) Evita che Tadej Pogačar vada a casa con tutte, ma davvero tutte, le maglia di leader della Corsa verso il Sole.

Lorena Wiebes

Se ci fermassimo ai numeri, basterebbe dire che, per Lorena Wiebes, la vittoria alla Miron Ronde van Drenthe è la terza da inizio stagione, l’ultima solo una decina di giorni prima. Magari aggiungendo che è anche la terza consecutiva nell’albo d’oro della gara e solo Marianne Vos aveva fatto qualcosa di simile. Ma c’è di più, molto di più, in realtà.
Lorena Wiebes è fra i top di questa settimana per il modo di sprintare, per la netta sensazione di superiorità che ha, fino ad ora, offerto, per il tempismo che con cui parte e la capacità di levarsi quasi di ruota le avversarie. Tutto questo a soli 23 anni, con la maglia di campionessa europea addosso.

Giulio Ciccone

Del salvataggio geniale in diretta RAI ne abbiamo già parlato, ma il corridore abruzzese in queste prime settimane di corsa non è solo quello. È un corridore attivo che cerca il successo, battaglia con i migliori, si è già sbloccato e punta forte a qualche tappa al Giro. Con questa forma vogliamo vederlo anche sulle Ardenne perché può farci divertire.

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FLOP

Arnaud De Lie

Oneri e onori dell' essere considerato una sorta di ragazzo prodigio del ciclismo mondiale. La facilità con cui ha raggiunto diversi successi nei primi quindici mesi tra i professionisti si scontra con la dura realtà di una Parigi-Nizza nella quale si è perso in mezzo alle sgomitate degli altri sprinter (puri) e dei treni più collaudati. Attenzione però: Arnaud De Lie in testa e nelle gambe ha ben altro che le volate di gruppo e lo vuole dimostrare già da questa primavera.

Mikel Landa

Ma quello zigzag in salita alla Tirreno per le vie di Osimo, tra paletti e marciapiede, era proprio necessario caro Mikel? Hai fatto dei rifili che ci hanno fatto spaventare, ma a parte questo: ti rendi conto che continui a giocare con il nostro cuore quando scatti e poi non affondi? Ti prego Landa, vinci qualcosa! altrimenti non riusciamo a trovare pace.

La Ineos di Classifica

Può una squadra che presenta tra Parigi-Nizza e Tirreno-Adriatico, Dani Martinez, Pavel Sivakov, Thymen Arensman, Tom Pidcock e Tao Geogheghan Hart (quest'ultimo ha iniziato bene, lui non è un flop della settimana, anzi!) chiudere come miglior risultato con il 3° posto di THG in Italia e col 9° di Sivakov in Francia? Evidentemente sì, ma evidentemente non basta. Ci rivediamo al Catalunya, signori.

Foto: ASO/Aurelien Vialatte


Vittoria Bussi: quando sull'Etna si fa sera

Appena sull'Etna si fa sera, Vittoria Bussi, dopo una giornata di lavoro in bicicletta per preparare il record dell'ora, telefona a sua madre, poi a Rocco, il suo compagno, e la prima domanda è sempre quella: «Quanti problemi hai risolto oggi?». Se lo chiedono reciprocamente, da due settimane a questa parte, da quando lei è lassù, in altura. Bussi spiega che ogni giorno incontra un problema in ciascun ambito: l'allenamento, l'equipaggio, il meteo, i contatti da tenere, le preoccupazioni di casa, talvolta il fisico messo a dura prova. A questo si aggiungono gli imprevisti: la neve, la volpe sul vialetto d'ingresso dei locali in cui soggiorna, il vento, la corrente che salta e lo scantinato in cui si cerca di ripristinarla per continuare a rispondere alle mail, a programmare viaggi e a prenotare voli. Il tutto da sola, nel silenzio, non vedendo nessuno per ore ed ore: «Starò qui ventuno giorni, perché so che mi fa bene, che serve per il traguardo che voglio raggiungere, ma l'altura, almeno durante la prima settimana, mi causa un vero e proprio malessere fisico. Confesso che, quando torno a casa, passo il primo giorno a piangere, a liberarmi della corazza che devo portarmi addosso: di donna forte, sicura, come si chiede ad una atleta».

Qui mancano i rumori di Roma, quel caos che diventa parte di chi ci vive, un suono da ricercare ovunque, ma anche Torino, dove Bussi abita, pare difficile da immaginare. Vittoria, in realtà, ha dovuto abituarsi a Torino, che sembrava una "città silenziata" rispetto a Roma: «Ho scoperto che mi piace guardare l'arco alpino. Che passo minuti a osservarlo e, se la quotidianità non incombesse, resterei ore così. Quei monti sono un punto fermo». Un punto da cui, col passare del tempo, è sempre più difficile staccarsi, andare via perché, a trentacinque anni, si è già viaggiato molto, si sono già visti molti luoghi e si sente necessità di fermarsi da qualche parte, di un ambiente familiare.

«Me ne sono andata lontana già da ragazza, per il dottorato, in Inghilterra: era necessario, ma comunque difficile. E oggi, dopo molti anni, anche quando non sono in altura, devo ancora andare altrove per trovare un velodromo in cui allenarmi: in Svizzera, in Norvegia o chissà dove. Forse per questo sento così tanto bisogno di casa. Per questo, dal giorno in cui sono arrivata, conto i giorni che mancano per tornare». Qualche settimana fa, alla dogana con la Francia, l'hanno fermata delle motostaffette della polizia francese: le hanno fatto smontare tutto, mostrare la bicicletta e i materiali che aveva. Minuti e minuti: «Non credevano che fossi una ciclista perché sostenevano che i ciclisti hanno una squadra e non fanno tutto da soli. Non credevano neppure che fossi lì per allenarmi: "Perché non si allena in Italia?". Dal loro punto di vista, avevano pienamente ragione: probabilmente quello è stato uno dei giorni in cui ho avvertito maggiormente il senso di ingiustizia per queste lontananze che devo sempre impormi».

Una lunga traversata in traghetto, poi la macchina e si sale. Avrebbe voluto chiedere a sua madre di accompagnarla, non l'ha fatto perché ha pensato che quella solitudine non le avrebbe fatto bene, ha portato solo i suoi gatti, «l'unico legame con casa che c'è qui», e, al mattino e alla sera, passa tempo a spazzolarli: «Sai che, quando parti in solitaria, tutti ti chiedono se davvero sarai solo e perché hai scelto di fare un viaggio da solo? Perché è difficile, come essere indipendenti, come diventare grandi. La prima volta in cui mi è accaduto è stato quando è mancato mio padre: non c'era più nessuna coperta a proteggermi, dovevo essere adulta e imparare io stessa a proteggere gli altri. Anche mia madre. Probabilmente impari in quei momenti a mostrarti più forte di quella che sei, a lasciarti andare quando nessuno ti vede». Spiega Vittoria Bussi che la solitudine dell'altura è fra le più difficili, quasi straniante.

Qualche sera fa, è scesa dall'Etna per andare a prendere Edoardo Frezet, fotografo del progetto, che resterà con lei per diversi giorni, e ritrovare la città, le persone nei bar e nei ristoranti, le ha lasciato una sensazione particolare addosso, nonostante la sua romanità si nutra dello stare assieme agli altri. Si è quasi sentita in imbarazzo: «Devi imparare a stare con te stesso ed è un apprendimento difficile perché ti conosci e vedi anche parti di te che non ti piacciono. Quassù non ho molte convenzioni sociali da seguire, ma quando ritrovo le persone mi chiedo se sarò a posto, se andrò bene». Sorride e racconta di quando Edoardo stava iniziando a fotografarla sui rulli, in una giornata di brutto tempo: «È stato un flash: "Aspetta, io non mi sono depilata". Sembrava un problema, non lo era e voglio che le foto di questo record siano vere, restituiscano l'immagine di una donna nella quotidianità e dei giorni in cui non c'è tempo, dei giorni in cui facciamo tutto di corsa e a sera siamo stanche e spettinate. La realtà di una donna e di un'atleta è anche questa».

 

Le giornate di Bussi iniziano alle otto e mezza: riscaldamento, attivazione e verso le dieci si esce a pedalare. Non sopporta la neve e quando la trova ghiacciata, sul vialetto che percorre con la bici in spalla. Si sfoga, parlando da sola in romanesco e quasi si vergogna, quando qualcuno la sente: «Anche questo, forse, molti non lo direbbero. Lo dico perché sono casereccia, sono così, e mi piacciono le cose naturali. Sto detestando questa neve, la cancellerei se potessi, e gliene dico di tutti i colori, come con le cose che non sopporto». In camera ci sono sempre libri e fogli perché sull'Etna si scopre il proprio corpo, i propri muscoli, come reagiscono. Il primo ritiro non va mai bene, il secondo meglio, il terzo, di solito, è quasi perfetto. Complicato, però, spiega Bussi, essere una sportiva ha anche questo significato: «Non accettare ciò che altri ti dicono passivamente, voler scoprire perché le tue gambe fanno più male oggi di ieri, sapere perché hai dolore, sapere come variare l'allenamento in base all'altitudine. Essere ciclista significa esplorare quell'indipendenza a cui le circostanze, talvolta, ti obbligano e vederne il lato buono, quello che ti fa andare avanti e ti cambia. Se diventa questo, essere ciclista è un atto estremo di libertà».

Come crescono le persone, anche se già adulte, così fanno i progetti. Ora c'è un periodo preciso per tentare il record, l'autunno, e anche il velodromo in cui si proverà si sta definendo. La prima opzione è in Argentina, la seconda in Norvegia, in un velodromo di nuova costruzione che vorrebbe iniziare la sua storia con il record dell'ora di Bussi, la terza in Svizzera, a Grenchen, ma, per quest'ultima, il costo è eccessivo, quindi è necessario pensare ad altro.

Nel bar, in città, in cui Vittoria ed Edoardo si sono collegati per questa intervista, inizia ad arrivare gente, le voci si mescolano e Bussi, guardando l'ora, progetta le prossime cose da fare, i prossimi problemi da risolvere in vista di quel giorno. Sì, in realtà, il record dell'ora inizia molto prima di quell'ora.

Foto: Edoardo Frezet


La gioia che garantisce il talento

Non sappiamo di chi sia stata l'idea di questa foto. Forse di Annemiek van Vleuten, probabilmente di Puck Pieterse, magari, semplicemente, di qualcuno che, vedendole vicine, in Piazza del Campo, ha pensato che in un'immagine così potessero essere racchiuse molte cose. Semplici quasi quanto il gesto dello Shaka che fa la mano di Pieterse: un gesto tipico della cultura hawaiana, che è un saluto, una forma di gratitudine, un modo di vivere il momento e trasmettere felicità, anche un poco rock, se vogliamo. Il loro modo di correre in bicicletta, alla fine, è tutto questo e avere la stessa visione (intesa non solo come ciò che si vede, ma come quello che si pensa) in fatto di bici e in ogni altro campo, permette di riconoscersi e di parlare un linguaggio comune, oltre ogni altra differenza.

Vogliamo dire che Van Vleuten e Pieterse, in quella Piazza, sarebbero state vicine anche se nessuno le avesse fotografate, anche se non si fossero fermate a parlare. Pieterse avrebbe potuto dire, e forse lo ha detto, a van Vleuten: "Sai che, quando scatto, non penso a nulla? Sento qualcosa dentro di me e vado" e van Vleuten avrebbe potuto rispondere solo che anche a lei accade lo stesso. Allora Annemiek avrebbe potuto raccontare, e forse ha raccontato, a Puck che, per andare forte in bicicletta, lei ha sempre spinto, a tutta, senza paura e Puck avrebbe potuto rispondere che per lei è proprio così. Forse Puck Pieterse, allora, avrebbe chiesto se, con il passare del tempo, non cambiano queste sensazioni. Sì, perché van Vleuten ha quarant'anni, Pieterse solo ventuno. La Campionessa del Mondo avrebbe forse risposto che il ciclismo la affascina ancora come a vent'anni e nella sua mente è lo stesso, raffinato dalle esperienze: il passare degli anni cambia solo il tempo che serve per allenarsi e per ottenere risultati, la fatica che si fa, ma lo spirito del ciclismo è sempre quello. Avrebbero potuto dire e forse hanno detto molte altre cose, compreso il fatto di essere entrambe olandesi, di essere entrambe dotate di un talento importante e di come si affronta la quotidianità con questo talento fuori dal comune. Forse van Vleuten è più abituata a questo, Pieterse si abituerà.

Poi c'è la cosa più importante di cui avrebbero potuto discutere: di come si fa ciò che si fa e del perché si decide di farlo. Pieterse ha saputo che avrebbe potuto correre sulle strade sterrate della Toscana solo pochi giorni prima della gara: ha accettato perché era un'opportunità da non lasciarsi scappare. Sarebbe stata contenta di arrivare nelle prime trenta, è arrivata sesta e ha corso con padronanza, con attenzione, incarnando l'istinto che la contraddistingue. Anche van Vleuten ha sempre posto particolare attenzione all'opportunità, al piacere di essere in corsa, anche quando non ha vinto: è tornata a lavorare, a potenziare, perché vuole vincere come d'abitudine, ma sabato, nel dopo gara, ha continuato a focalizzarsi sul piacere di aver corso e, ancor di più, sul piacere del gesto atletico di altri, quello di Puck Pieterse ad esempio.

In quella foto, in quel gesto dello Shaka, è racchiuso il racconto di come arrivano, il più delle volte, le cose belle, le più grandi vittorie, di come si fa qualcosa di grande. Certo attraverso l'impegno, la dedizione, la fatica, il sacrificio ma pure attraverso il piacere, la gioia, che è, poi, la molla affinché ci siano tutti gli altri comportamenti di cui abbiamo parlato. Per Pieterse era una prova su strada importante, perché era una gara importante e perché il talento si manifesta nel mettersi alla prova, si scopre, si disvela, trova nuove forme. Più di tutto era importante perché era una possibilità di divertirsi, di improvvisare sul tema, e di quel divertimento porta traccia ogni muscolo. Lei è legata al fango, alla terra del ciclocross, al pensiero di una medaglia olimpica in Mountain Bike: non sa se e quando ci sarà una continuazione su strada.

Nonostante spesso si dimentichi, il punto è proprio che non sempre c'è un motivo, un disegno nel proprio procedere, e il bello, tante volte, si fa solo perché piace. Per fortuna. Probabilmente è così che si vive un talento come quello di Pieterse e van Vleuten nella vita di tutti i giorni. Certamente è così che in quella Piazza sarebbero state vicine, anche lontane.