Il proprio posto nel mondo

Il concetto di completezza è uno di quei concetti di cui si parla molto nel ciclismo. Il corridore completo è colui che si esprime al meglio su tutti i terreni, che, anche quando non ci riesce, limita i danni, colui che, spesso, vince una corsa a tappe. A Cesena, sotto la pioggia, vogliamo parlare anche noi di completezza: non nel senso fisico o matematico del termine. Forse nemmeno in quello strettamente ciclistico. La completezza di cui vogliamo parlare non ha a che vedere con una parte mancante, con un'abilità non sviluppata, con la contrapposizione pieno-vuoto, perché crediamo che gli uomini e le donne siano già completi da questo punto di vista. Ognuno a proprio modo, ma completi, perché la completezza degli esseri umani è altro fatto rispetto a quella delle cose, dove sì si può applicare la matematica o la fisica.

Altro è il proprio posto nel mondo, quel qualcosa che è al di fuori di ciascuno e che è in grado di fare luce su quella completezza, di renderla visibile, di far capire che non ti manca proprio nulla. Il proprio posto nel mondo non è detto sia un luogo o un posto vero e proprio, può essere un'abitudine, una persona, un modo, un tempo. Può essere anche una bicicletta.

Abbiamo guardato Geraint Thomas e abbiamo avuto la sensazione di questa completezza. Che, almeno per oggi, il suo posto nel mondo fosse in quella posizione, apparentemente scomoda, da cronometro, in cui pareva completamente a proprio agio. Nove centesimi, solo nove centesimi, tanto lo ha separato dalla vittoria di tappa. Ma il proprio posto nel mondo non è questione di calcoli: è questione di quella tranquillità nello sguardo e nei modi. Di quel sentirsi a posto, consapevoli di quella completezza. Certamente il proprio posto nel mondo è uno di quei posti che, nonostante l'idea di stabilità, di fissità, è in realtà un luogo in cui è necessario camminare per restare. Anzi, pedalare, correre. Da cui ci si allontana con poco, in quei giorni, se si è fortunati, spesso in quelle settimane, oppure in quei mesi, in cui ci si perde, non si trova più la perfezione delle cose, che prima, chissà perché, si vedeva. Non si è incompleti, manca solo quel posto a mostrarci la completezza. Geraint Thomas, nel tempo, da quel posto si è allontanato ed in quel posto è tornato. "Ritrovarsi", un verbo che Thomas ha usato alcune volte, è esattamente questo.

Il proprio posto nel mondo è questione di sensazioni, quelle di Caruso, autore di una prova degna di nota, che su quelle fa affidamento, quelle ascolta, perché quelle indicano un passo, una rincorsa, talvolta. Di certo, sono le sensazioni a conoscerlo meglio della razionalità e una cronometro è questione di sensazioni, come il proprio posto nel mondo da cui, talvolta, ci si allontana, raccontandosi qualche assurda bugia. Prendete Remco Evenepoel: tutti pronosticavano una prova ampiamente dominata, ha vinto, non ha dominato. A tratti è sembrato semplicemente perfetto, il ritratto della potenza e dell'efficacia, poi ha perso qualcosa e con quella, pur vincendo la tappa, anche parte delle sensazioni trasmesse, una luce che illumina altro. Lo si intuisce dalle persone che dicono: «Ha vinto Evenepoel, ma sarebbe stato bello vedere Geraint Thomas vincitore».

Eppure Evenepoel su quella bicicletta da cronometro rasenta la perfezione, non c'è dubbio: è solo uno di quei giorni in cui il proprio posto nel mondo è un poco più nella nebbia. Nulla di tragico, tanto più che è proprio lui a tornare in rosa ai danni di Andreas Leknessund, succede. Lo scatto di ieri di Roglič è stata una rincorsa verso quel luogo, qualcosa che ha pagato ieri e meno oggi, però ha limitato i danni. Qualcosa da inseguire nei prossimi giorni per il Giro e non solo. Perché, quando sbiadisce il proprio posto nel mondo, iniziano i dubbi e la difficoltà di pedalare fra i dubbi non è misurabile in pendenze, come la salita.

Il proprio posto nel mondo lo si trova per caso o per scelta, può essere anche scomodo, fradicio, come quello di quel signore con i piedi in un campo e un ombrello minuscolo, che sembrava il ritratto della felicità mentre guardava i corridori. Lo si trova e se non lo si è ancora trovato si continua a cercarlo. Basta un giorno di riposo, una notte più lunga, e si può ripartire.

Giornata perfetta al Giro

È stata una giornata perfetta, al Giro d’Italia. Perfetta per il disegno: un finale mosso, con splendidi muri, in posti da urlo, come le selvagge e verdissime gole del Furlo. Perfetta per la logistica: per i tifosi che si sono assiepati sui Cappuccini per vedere due passaggi della corsa, per i tifosi che a Fossombrone hanno potuto vederne fino a quattro, per i giornalisti che hanno goduto di una rara vicinanza tra sala stampa, arrivo e bus delle squadre. Perfetta perché a Pontedazzo di Cantiano abbiamo incontrato tante persone: alcune ci hanno offerto un’amatriciana, altre ci hanno invitato davanti al loro camino. Tutte erano lì, assieme alle altre, per il Giro d’Italia.

È stata una giornata perfetta perché - l’elenco non è finito, anzi dura ancora un po’ - dopo sei partenze consecutive stamattina l’abbiamo presa su dolce, come si dice dalle mie parti, evitando la partenza di Terni. Non siamo, però, andati dritti all’arrivo: ci siamo immessi nel percorso in località Osteria del Gatto (PG), attraverso una stradina sterrata con buche grosse come piccoli laghi.

È stata una giornata perfetta perché, sulla salita dei Cappuccini, abbiamo incontrato un gruppo di amici di vecchia data. Si sono radunati per passare assieme il weekend: sia per pedalare loro che per veder pedalare altri. Il loro sorriso e la loro eccitazione, siccome di questo Giro vedranno solo una tappa, è stata spontanea e contagiosa.

In ultima istanza, ecco, è stata una giornata perfetta al Giro perché non ho nemmeno le parole per descriverla meglio di così, per ricordare chi ha guadagnato su chi, chi si è staccato, chi ha vinto e chi ha perso. Mi ha solo reso felice, e tanto basta.