Maschere

Maschere. Perché Viareggio ed il suo Carnevale sono maschere. Perché sotto la pioggia battente ed il freddo, ogni volto è maschera: la pelle è modellata dal freddo e scolpita dalla pioggia. Gli occhi sono più occhi, gli zigomi diventano appigli, le sopracciglia scolpite, persino i baffi appaiono immobilizzati e gonfi. Ogni linea del volto è tratteggiata: così appare il viso di Magnus Cort Nielsen, che vince nel giorno della fuga, del Passo delle Radici, della nebbia, di un presagio di novembre. Maschere perché anche essere ciclista è una maschera, come ogni lavoro, dentro e dietro a quella maschera, desideri umani: quelli di Nielsen che vorrebbe scalare il Kilimangiaro e vedere un film sotto le stelle, accanto a una tenda.

Dietro a quella maschera, un bicchiere di buon vino a Natale ed i bambini che giocano su un tappeto: è Alessandro De Marchi, che, a trentasei anni, riesce ancora a cogliere alcune prime volte nelle fughe- lo ha fatto alla Strade Bianche ed a Napoli- seppure le sue fughe siano innumerevoli, il fatto però che, ogni volta, vi trovi qualcosa di nuovo, racconta la sua capacità di viverle quelle fughe, di guardarle e di coglierne un significato altro dalla vittoria a fine corsa. Così ha attaccato anche oggi, ha portato via la fuga, ha fatto le discese in testa, stanco, così stanco, dopo più di 190 chilometri, da perdere per un attimo le ruote di Gee e Cort Nielsen sul rettilineo d'arrivo e, poi, da ritrovare energie chissà dove e sprintare. Terzo. Chissà dove? Nella strada che ancora c'è, rifugio della paura e del coraggio. De Marchi, da tempo, ha scelto il coraggio.

Maschere come una maschera è la fuga: quasi una catarsi, una purificazione, per chi la compie e per chi la guarda. Nella società, per gli uomini e le donne fuggire, lontani da tutto e tutti, può essere un desiderio di qualche tempo, poi diventa terrore, perché degli altri si sente necessità, anche solo della possibilità degli altri, di cercarli, di sentirli, di guardarli. Vedere un uomo in fuga è come vedere un cinema, affrontare quel brivido attraverso un gesto che è realtà e metafora. Una particolare forma di teatro.

Maschere di dolore, con un braccio alzato e i denti stretti: Warren Barguil, che non riusciva neppure ad appoggiare la mano al manubrio eppure è ripartito. È arrivato centotrentanovesimo, dopo più di 23 minuti. Ovvero 23 minuti in più di pioggia e dolore. Quel tempo in più che vorrebbe chi è felice, lo ha chi patisce. Una volata vincente dura pochissimo, una caduta dura da lì a chissà quando. Le maschere più difficili da togliersi, perché non si possono levare, devono andarsene da sole. Non c'è trucco. Non è un carnevale.

Maschere di fatica: quella di Milan e di quella linguaccia a dire "sono a tutta", in salita e poi in volata. Mentre sta dando tutto e dopo averlo dato. Questo dare tutto è qualcosa che riappacifica con chi si è, con quello in cui si crede. Potrebbe scrivere molto sul tema Pasqualon, che, in una maschera sempre più disegnata dalla pioggia, è tornato in testa al gruppo per aiutare Milan. Credono in questo i ciclisti, crede in questo chiunque si sforzi di andare avanti anche quando fermarsi sembra semplice, persino ovvio, anche quando la maschera è di delusione, di freddo che ha fatto il nido nelle ossa: chiedetelo a Dainese, a Groves, a Gaviria, a Matthews e a tanti altri.
Maschere per provare a partire anche se non si è stati bene: così ha fatto Aleksandr Vlasov, maschere per tranquillizzare chi chiama da casa dopo un infortunio, una madre, un padre, una moglie, un figlio, ancora maschere di scalatori come Davide Bais che, a sera, in camera, pensa alla baita di montagna che sta ristrutturando.

Proprio in quelle camere, in un momento di solitudine, le maschere cadono: resta tutto quello che non si dice, che non si mostra, ma che si ha dentro. La delusione più profonda, il timore di sentire male, di arrendersi, di deludere. Perché, alla fine, solo di uomini si tratta. Ed è proprio questo quel che più vale.


Sulla forza mentale (di Remco)

Meteorologicamente parlando, certo, quella di domenica è stata una giornata del cavolo. Dal punto di vista degli orari, certo, è stata una giornata del cavolo, perché le cronometro iniziano tardi e finiscono tardissimo. Logisticamente parlando, certo, è stata una giornata del cavolo: dopo la tappa ci siamo sorbiti più di un’ora di viaggio verso la sede del giorno di riposo, San Giovanni in Persiceto. Eppure, ho potuto ascoltare - e tanto è bastato per ribaltare completamente la giornata - due persone che amano e studiano le questioni di cui si occupano. Non c’è niente di meglio di chi ha passione per il proprio lavoro e decide, per grazia, di offrire al pubblico spicchi della propria mente.

Paolo Zanfini, da un anno direttore scientifico, ha cominciato a lavorare nella Biblioteca malatestiana di Cesena molti anni fa, come apprendista. Ogni libro che ci mostra, e solo nell’Aula del Nuti ce ne sono 343, sembra un suo figlio. Con lo stesso spirito entusiasta e propositivo ci parla di una rarissima copia miniata del De Civitate Dei di Sant’Agostino conservato nella Biblioteca e di una mostra temporanea che affronta una pagina più moderna della storia dei libri, quella dei pop-up.

La seconda persona in questione è Remco Evenepoel. Poche ore prima dell’annuncio del suo abbandono al Giro d’Italia, il campione del mondo è arrivato sorridente nel truck della conferenza stampa dove lo aspettavamo io e uno scarno contingente di giornalisti. Rotto il ghiaccio con una domanda sui watt che ha spinto nella prima parte di cronometro, Remco è stato un fiume in piena: ha parlato della crono che aveva appena percorso in lungo e in largo, dilungandosi oltremodo, soddisfacendo curiosità e suscitando ulteriori domande. Soprattutto, dando la netta impressione che fosse una persona perfettamente consapevole, in controllo. Uno sportivo che ha craccato la disciplina che pratica. La sua primissima risposta ha compreso discorsi su planimetria, fondo stradale, vento, scelta di traiettorie, riflessioni circa sé stesso e il ciclismo moderno e altre cose che non ho neanche avuto il tempo di appuntarmi.

Questa incredibile lectio magistralis di Remco mi ha ricordato una cosa che si dice di Michael Jordan e del suo Flu Game, Gara 5 delle NBA Finals 1997. La serie tra Chicago e Utah è sul 2-2 e a Salt Lake City si gioca una partita dal peso enorme. Jordan è fortemente debilitato (forse causa pizza avvelenata, forse altro), ma gestisce le proprie energie talmente bene, esercitando un controllo sulla partita mentale prima che fisico, che riesce comunque a segnare 38 punti. Alla sirena finale si lascia andare sfinito tra le braccia di Scottie Pippen.

Secondo Federico Buffa, addirittura, mentre cercava di riprendersi dall’intossicazione alimentare prima della partita, Jordan immaginò ogni possesso della partita stessa, prevedendo i movimenti suoi, dei compagni e degli avversari. Avete mai visto gli occhi di Remco - a proposito di menti che visualizzano qualcosa di diverso - quando si prepara per una cronometro, basso sulle appendici e con la testa vicinissima alle mani? Non sono occhi che si dimenticano.

Nonostante il loro corpo non fosse al massimo, insomma, la loro mente ha sopperito, e anzi la prestazione è bastata per mettere il muso davanti al fotofinish: Remco di un secondo, Jordan di due miseri punti. Non sono contesti paragonabili, l’importanza del palcoscenico è del tutto diversa e mille altri fattori differiscono. Ma la forza mentale di Remco a Cesena ha avuto, scoperta a posteriori la malattia, un che di jordaniano. Mi si perdoni il riferimento divino, giuro non l’ho letto nel De Civitate Dei di cui sopra.