La storia dell'acqua
Caorle, le sue case dai colori vivaci, le sue acque, il suo eco e l'eco di Venezia, è il luogo ideale per tornare a stare bene. Caorle e il colore della sua acqua è il posto ideale per essere attesi eppure sorprendere. Lo diciamo a noi stessi, lo diciamo a voi che ci leggete, lo diciamo ad Alberto Dainese e alla sua volata, a una linea del traguardo che speravamo arrivasse in fretta e allo stesso tempo avrebbe ritardato il suo arrivo solo per continuare a guardarlo lanciato a tutta, solo per gustare ancora lo spasmo dell'incertezza e lo sfogo della felicità. Dainese, Matthews e Milan, Milan, Matthews e Dainese, Matthews, Milan e Dainese: nomi girati, rimescolati, come l'emozione prima del verdetto, qualcosa che si rigira nello stomaco. Matthews al centro, la velocità di Dainese da una parte, la potenza di Milan dall'altra. Primo Alberto Dainese, dopo una bronchite, dopo un virus intestinale, dopo aver stretto i denti, sopportato le salite, i muscoli che sono leggerezza e peso se non si sta bene. Dainese che ha rischiato di perdere ed invece no. Dainese, acqua corrente, torrente scosso dal vento, marea impetuosa.
A Caorle, in questo borgo marinaro, in questa "piccola Venezia", ci siamo resi conto che, alla fine, i ciclisti hanno molto in comune con l'acqua che oggi è l'elemento della tappa, un sottofondo, una scia. Perché i ciclisti scendono dalle discese, come le sorgenti dai monti, risalgono le montagne come fontanili. Partono e ritornano, anche se vanno lontano, molto lontano: il ciclo dell'acqua che evapora con il caldo e torna con la pioggia. Le visite a parenti di Marco Frigo e Andrea Pasqualon paiono un fiume che torna nell'alveo, che viene accolto dalle sponde, che si sente a casa e ha sul volto quel "sorriso da italiano in gita" di cui parlava Paolo Conte, raccontando di Bartali. Ci sono le gocce, ribelli, anarchiche, le fughe, quella di oggi, di Champion, Leysen, Quarterman e Sevilla, i rivoli, coloro che non tengono il passo e si staccano ma continuano a correre, cercano un'altra terra. I ciclisti hanno un loro suono, una loro musicalità che, in fondo, somiglia a un sibilo, a uno sciabordio. Le maree risentono della luna, i ciclisti del cielo e qualcosa in comune c'è: del sole che segna sulla pelle il contorno degli occhiali, della pioggia che inzuppa maglie e pantaloncini.
Un velocista potrebbe essere una risorgiva, un fontanile, uno zampillo d'acqua che trova un varco e risale, fruscia e guizza. Guardate Dainese e Milan lanciati in questo sforzo, diteci se non è così. E se un velocista è una risorgiva, la volata è un'onda, in un mare mosso, dove la spuma delle acque è il movimento frenetico di uno sprint: ogni spostamento, ogni danza impazzita sui pedali, ogni volta in cui il velocista pare quasi prendere a sberle la bicicletta, ogni urlo per dire all'ultimo uomo di aspettare, ogni gesto dell'ultimo uomo, con la mano o con la testa per indicare dove passare.
La felicità di Alberto Dainese è la felicità dell'acqua: trasparente, semplice, incredula, genuina. Dell'acqua di una terra che conosce bene, dell'acqua di casa, di quella che disseta, rinfresca, talvolta riscalda. Cara, fresca e dolce, direbbe Petrarca. Orgoglioso, fiero, perché c'è fierezza. "Com'è triste Venezia se nella barca c'è soltanto un gondoliere", risuona Aznavour. Un velocista è sempre un gondoliere solo in barca, anche se ha un treno, importantissimo, anche se vince per pochi centimetri, anche se vive nel caos e lo domina, lo interiorizza. È sempre solo, perché l'ultimo passo, l'ultima onda deve metterla in solitudine. Un velocista è solo, come Dainese, primo su quel podio. Nella piccola Venezia che oggi non è per nulla triste.
Tutto ciò che chiediamo al Giro
Oggi - così iniziamo la partita a carte scoperte - non so proprio che scrivere. La giornata di ieri è cominciata in un luogo inatteso: casa mia. Ero lì perché la sera del giorno di riposo ho partecipato al rosario di un amico, un vecchio compagno di squadra. La sua morte, inattesa e tragica, ha gettato nello sconforto me e tutti coloro - davvero tantissime persone - che gli volevano bene.
Già il giorno di riposo stranisce, ma eventi del genere srotolano dai veli in cui la Corsa rosa avvolge chiunque la frequenti. Ho dunque chiesto ai miei compagni di viaggio di raggiungere autonomamente il Bondone: io sarei arrivato nel primo pomeriggio. Sono arrivato in cima che non sapevo nulla o quasi della tappa, né mi interessava granché. Avevo la testa da un’altra parte.
Guidando per le rampe del Bondone, osservavo gli occhi delle persone che, felici, pedalavano sull’ultima asperità di giornata in attesa dei corridori. Vorrei essere chiunque di loro, pensavo. Che non fossi esattamente centrato me lo fa capire con sonore suonate di clacson il furgoncino della Bardiani dietro di me: in un paio di tornanti ho rallentato fino a far spegnere il motore e il plotoncino di ammiraglie alle mie spalle non ha gradito.
Quando sono arrivato in cima, ho sbagliato direzione per dirigermi al quartier tappa e, in un attimo, mi sono trovato a due chilometri dalla sala stampa e dal suo buffet. Poco dopo si è messo a piovere. No dai, non è possibile. La prendo tutta, afferro due panini al volo, doppia cipolla, uno lo mangio l’altro si bagna. Arrivo finalmente davanti ad un televisore che mancano dieci chilometri.
Sono stati, finora, i dieci chilometri più belli del Giro d’Italia. Senza accorgermene, la Corsa rosa mi ha portato via, tra i lupi e gli orsi del Bondone, sotto le acque del Garda, tra gli amici miei a Traversetolo. E forse è questo, tutto ciò che chiediamo al Giro: di prenderci per mano, ogni tanto, e di condurci in una delle ultime città della fantasia.