Ultimi appunti sul Tour de France
Ultime impressioni dalla Corsa Gialla, seppure quasi fuori tempo massimo, ma va così: Vingegaard contro Pogačar e poco da aggiungere a quello che è stato detto nelle ultime settimane. Perfette le parole del danese, piuttosto: «Tadej è il corridore più forte e completo al mondo, io sono il corridore più forte al Tour de France». Vingegaard che proverà a vincere anche la Vuelta, ed è uno spunto interessante per capire il livello che potrà avere il danese dopo un Tour corso a questi ritmi, facendo certi numeri e rifilando distacchi notevoli, quasi d'antan. Banalmente: ripetendo le cose fatte al Tour non ci sarà spazio per nessuno, ma vedremo che storia racconteremo. Attendiamo su quelle strade la risposta di Evenepoel, l'apporto alla forza di Vingegaard di una seconda punta come Roglič, la loro convivenza sarà un tema, una coppia che sulla carta pare fatta apposta per portare a casa tutto il possibile, ma di Vuelta ne parleremo più avanti così come della presenza di un altro ragazzo che scrive un libro dal titolo: "giovani fenomeni", e parliamo di Ayuso, spalle solide e guardate a vista da Matxin e San Millan. Ci sarà da divertirsi anche in Spagna.
Tornando al Tour: il danese è superiore allo sloveno e lo sarebbe stato anche se quest’ultimo non fosse incappato in quell'intoppo alla Liegi che gli ha fatto perdere settimane di preparazione. Questa è l’impressione, magari non avrebbe vinto con questo distacco, ecco. Lo scorso anno Pogačar è stato dominato da un punto di vista tattico: nella tappa del Granon gli si sono consumate tutte le... energie nervose dopo essere scattato decine e decine di volte su quasi ogni salita. Quest’anno è stato surclassato anche da un punto di vista atletico. Cosa può fare in futuro per battere Vingegaard? Chi lo sa! Forse gestirsi meglio, imparerà anche questo. Al momento Vingegaard è più forte praticamente in tutto quello che conta per vincere il Tour. Quest’anno sembra ulteriormente migliorato: ha ancora margini? Tema interessante per il futuro, per tenere aperta la fiammella dell'interesse, per uno scontro equilibrato, chiaramente si spera che quello visto al Tour sia il massimo per uno dei due e che siano state solo le conseguenze di una preparazione non ottimale per l’altro.
Il danese ha ulteriormente migliorato la sua posizione in bici - la sua aerodinamica è un fattore nelle prove contro il tempo -, in salita va più forte di Pogačar, tappe con più montagne o salita secca che siano, ed è mentalmente attrezzato - leggasi: freddo come il ghiaccio nelle situazioni di corsa - per gestire Pogačar che gli ronza attorno e cerca di innervosirlo con la sua tattica a volte spregiudicata, ma che tutti noi amiamo. Si nasconde meglio, spesso alla ruota dell'avversario, ha una squadra forte che lo supporta e contro la quale è difficile inventarsi qualcosa. L’impressione è che fino a quando manterrà questo standard per Tadej sarà difficile. Lo sloveno - più veloce, con uno scatto devastante per tutti, ma non sempre per Vingegaard, a parte quella manciata di secondi guadagnata su un paio di arrivi e che aveva illuso chi sperava che si arrivasse all’ultimo sabato di Tour con una classifica ancora aperta - forse è già al suo livello massimo in una corsa di tre settimane? Una domanda che resta in sospeso e alla quale eventualmente risponderemo nel 2024.
Questa stagione lo abbiamo visto ulteriormente migliorato nelle corse di un giorno, il modo in cui ha staccato tutti al Fiandre, il modo in cui ha tenuto lontano il corridore più da Fiandre che ci sia lo dimostra, e se fosse arrivato al Tour senza intoppi sarebbe andata diversamente? Non siamo pazzi, non vogliano contraddirci, abbiamo detto come probabilmente il Tour lo avrebbe perso lo stesso, ma il 2024 segnerà un altro capitolo della loro rivalità, un’altra storia da raccontare senza dimenticare come nel 2019 credevamo iniziasse il regno di Bernal, nel 2020 quello di Pogačar e oggi quello di Vingegaard. Tutto cambia alla velocità della luce e chissà fra dodici mesi al Tour cosa potrà succedere. Intanto speriamo che lo sloveno non si snaturi (ovvero puntare tutto solo sul Tour lasciando ad altri momenti l’assalto alle grandi classiche) e magari il danese si faccia vedere competitivo anche sulle Ardenne - ha i numeri per giocarsi anche quelle corse contro Tadej e pure contro Evenepoel con il quale si dà appuntamento per una Vuelta che ci pare già da leccarsi i baffi.
IL TOUR DEGLI ALTRI
Quello dei tanti vincitori di tappa: ben diciotto diversi dove solo Philipsen con quattro successi e Pogačar con due sono riusciti a vincerne più di una. È stato - ancora una volta - il Tour delle fughe a segno, della Spagna che torna alla ribalta e lo fa con diverse generazioni. Il vecchietto - si fa per dire - Ion Izagirre capace di vincere a sette anni dalla sua prima vittoria sulle strade francesi; lo fa con Pello Bilbao che a inizio stagione diceva di non essersi mai sentito così forte e il piazzamento finale (sesto) lo dimostra, così come la tappa vinta in maniera chirurgica: voluta, arrivata. (La Spagna) lo fa con uno dei giovani più interessanti in assoluto, Carlos Rodriguez, 21 anni e già 7° alla Vuelta e 5° al Tour, entrambe le corse chiuse da caduto e ammaccato e purtroppo al momento questo è un suo grosso limite, anche se quando va in discesa lo fa con personalità e tecnica. Pensare che uno che ottiene un risultato del genere a quell'età lo si considera forte, sì, ma probabilmente dietro ad altri 3/4 corridori non troppo più vecchi di lui ci fa capire il momento particolare che stiamo vivendo nel ciclismo, un momento di ritorno a una forte competitività nelle corse a tappe - arriverà il giorno in cui a sfidarsi per un grande Giro troveremo contemporaneamente Vingegaard, Pogacar, Evenepoel, Ayuso, Rodriguez, e quel momento sarà epocale, chissà che non accada già al prossimo Tour.
È stato il Tour degli Yates: Adam mai così forte, Simon così solido, dei francesi che si tolgono la soddisfazione di vincere con Victor Lafay, ma in classifica arrancano. Per David Gaudu le cose non sono mai andate per il verso giusto e visto che da un po’ di anni lo chiamiamo al Giro d’Italia, il 2024 - vedremo poi che disegno ci sarà - potrebbe essere una buona occasione per salire sul podio in un grande giro e scrollarsi di dosso l’ossessione Tour de France. È stato un Tour che ha messo a nudo i limiti di Jai Hindley, partito forte, gran bella vittoria di tappa e un giorno in maglia gialla, chiude in calo, se la caduta al termine della seconda settimana non ha inciso, significa che anche per lui la coperta è corta. Potrebbe aver anche pagato un Tour che, rispetto ai giri d'Italia chiusi in crescendo, si è corso con un ritmo completamente diverso, più alto, che ne ha consumato il motore.
È stato il Tour che ha evidenziato la stagione della consacrazione definitiva di Mads Pedersen, ormai una garanzia assoluta come punta e uomo squadra, e Jasper Philipsen che, molti se ne sono accorti solo ora, ha confermato di essere il velocista più forte dell’ultimo biennio. Tutte (o quasi, almeno quelle che mi ricordo, a memoria) le altre vittorie di tappa meritano una citazione: Matej Mohorič, per Gino, confermando la sua capacità di tirare fuori dal taschino pezzi pregiati quando conta e quando è in giornata: la tappa vinta a Poligny, a parte il post gara che verrà ricordato per le sue belle parole, è come una classica del nord in scena al diciannovesimo giorno di gara: staccare e battere certi corridori non fa che certificare status e classe. Kasper Asgreen salva il Tour della Quick Step (Alaphilippe in fase calante, evidente, ma secondo me un paio di cartucce ce le ha ancora, Jakobsen in difficoltà nelle volate), Michael Woods vince una delle tappe simbolo (Puy de Dome), con una scalata folle (recuperati due minuti e mezzo a Jorgenson in fuga) e poi Felix Gall, a mio parere la grande sorpresa di questo Tour per come ha vinto la tappa regina - Courchevel - per come è rimasto in classifica - 7° posto finale - per come ha saputo interpetrare il Tour riuscendo persino a chiudere in crescendo mostrandosi nella terza settimana come il più forte in salita dopo i due dominatori. Potrei scrivere ancora per ore e ore, perché è stato un Tour ricco di spunti, ma invece taglio corto e vi invito ad ascoltare il podcast di 53x11 dove è stato fatto un approfondito riepilogo sul Tour.
UN MESTO TRICOLORE A MEZZ'ASTA
Chiudiamo con l’Italia e lo sguardo di Ciccone nella foto dice tutto. Non ci si poteva aspettare di più francamente. Il livello del ciclismo è alto e quello che abbiamo visto è ciò che noi possiamo offrire nella corsa più importante al mondo soprattutto se i vari Ganna (il nostro numero uno), Milan (il nostro migliore velocista) e alcuni corridori che hanno dimostrato di stare molto bene (vedi Bagioli al Vallonia), vengono messi fuori per scelte tattiche o perché dopo il Giro hanno - giustamente - staccato. È stato molto bravo, Ciccone, a sfruttare l’occasione che gli si è presentata vincendo una maglia a pois che mancava all'Italia da un po’ di anni - l’ultimo Pellizotti nel 2009, maglia poi revocata, ma a Parigi c’era lui sul podio -, ma non è di certo il successo che cambia un movimento, anche se fa guadagnare tifo e affetto per l'ottimo corridore della Lidl-Trek, e, stavolta, non serve nemmeno a nascondere la polvere sotto il tappeto come altre volte.
Otto piazzamenti di tappa nei primi dieci. Il miglior risultato è il 2° posto di Ciccone a Laruns, - sempre lui, ampiamente promosso e aumenta il rammarico di non averlo visto al Giro - Mozzato chiude con un 4°, un 7° e due decimi posti, compreso quello a Parigi, Trentin ha un 8° e un 9° posto, Bettiol un 8°. Non vinciamo una tappa al Tour dal 2019, Nibali a Val Thorens e dopo di noi ben diciannove nazioni hanno conquistato almeno una tappa al Tour de France, peggio fanno solo: Sudafrica, Slovacchia, Russia, Repubblica Ceca, Lituania, Portogallo, Ucraina, Estonia, Svezia, Uzbekistan, Lettonia, Brasile e Messico. I numeri, come sempre, hanno bisogno di essere interpretati ma mai come stavolta dicono molto senza bisogno di didascalie sul nostro movimento, e tocca al massimo accennare e ripetere quello che si diceva dopo le classiche, prima e dopo il Giro, sia quello dei grandi che quello Under 23, e pure prima del Tour.
I corridori sono buoni, anzi, ottimi, abbiamo in casa un vero e proprio fuoriclasse (Ganna), e un altro che potrebbe farci divertire in volata (e chissà anche in alcune classiche del nord) ma i corridori appartenenti alla classe media per vincere corse importanti o una tappa al Tour devono sperare che succedano cose particolari. E attenzione: non sto facendo di certo una colpa a chi pedala! Piuttosto vorrei continuare a piangermi addosso perché non rimarrebbe altro da fare considerando un numero esiguo di corridori al via del Tour da far venire l’orticaria (solo 7), chissà se qualcuno in alto se n'è accorto, si interroga e si cercano soluzioni - quali non lo so. A questo punto mi resta solo la speranza, scomodando Abatantuono in Mediterraneo "chi vive sperando...", ecco, speriamo che qualcuno salvi il movimento, non essere al passo di questo ciclismo che è tornato a intrattenere come si deve, è davvero un peccato.
Foto in evidenza: ASO/Charly Lopez
Il questionario cicloproustiano di Katia Ragusa
Il tratto principale del tuo carattere?
Testardaggine
Qual è la qualità che apprezzi in un uomo?
Fedeltà
Qual è la qualità che apprezzi in una donna?
Autostima
Cosa apprezzi di più dei tuoi amici?
Sincerità
Il tuo peggior difetto?
Testardaggine
Il tuo hobby o passatempo preferito?
La possibilità di stare a contatto con animali e natura
Cosa sogni per la tua felicità?
Sentirmi realizzata
Quale sarebbe, per te, la più grande disgrazia?
Perdere qualcosa che mi è veramente caro
Cosa vorresti essere?
Vorrei diventare una atleta olimpica
In che paese/nazione vorresti vivere?
In Italia
Il tuo colore preferito?
Verde marino
Il tuo animale preferito?
Cavallo
Il tuo scrittore preferito?
Elena Ferrante
Il tuo film preferito?
No Time to Die-007
Il tuo musicista o gruppo preferito?
Maneskin
Il tuo corridore preferito?
Fabian Cancellara
Un eroe e un'eroina nella tua vita reale?
Penso di non avere eroi o eroine nella quotidianità
Il tuo nome preferito?
Dafne
Cosa detesti?
Fallire
Un personaggio della storia che odi più di tutti?
Adolf Hitler
L’impresa storica che ammiri di più?
L'impresa dei Mille
L’impresa ciclistica che ricordi di più?
Peter Sagan che vince il Mondiale per tre anni consecutivi
Da quale corsa non vorresti mai ritirarti?
Mondiale
Un dono che vorresti avere?
Talento
Come ti senti attualmente?
Determinata
Lascia scritto il tuo motto della vita
Vai bestia!
La TransAm di Omar Di Felice
Mentre parlava con un amico, qualche giorno fa, Omar Di Felice si è chiesto se fosse davvero successo, se davvero avesse conquistato la Trans America. Anche mentre ce lo racconta, in realtà, sembra chiederselo, tanto che, ad un certo punto, chiosa: «In fondo, già solo il fatto che ne stiamo parlando vuol dire che qualcosa di vero c'è. Probabilmente ho bisogno di restare a casa qualche giorno e pensarci da solo: lì capirò quel che è accaduto». Quel che è accaduto lo riepiloghiamo anche noi: Di Felice ha percorso 7000 chilometri e circa 55000 metri di dislivello, da Astoria, in Oregon, a Yorktown, in Virginia, in 18 giorni, 10 ore e 13 minuti. La Trans America era questo "viaggio" e Di Felice è stato il più veloce a compierlo. Ha vinto, il primo italiano a farlo. Nel restare a casa qualche giorno, c'è parte della sua festa per il traguardo conquistato, una festa che, però, ha caratteri particolari: «Ho quarantuno anni e quando ho iniziato non pensavo minimamente di poter fare quel che poi ho fatto: ho partecipato a 46 gare, 17 le ho vinte, in altre 17 o 18 volte ho raggiunto il podio. All'inizio credevo di dovermi tuffare sempre nel passo successivo, senza mai celebrare, senza mai festeggiare. Vivo di concretezza e continuo a pensare che non ci si possa cullare sugli allori, che sia necessario guardare avanti, fare altro, non vivere di racconti passati. Non mi piace chi lo fa. Ma una pizza con amici è una festa piccola, in fondo, che serve solo a ricordarsi quel che è stato. A ricordarsi che, nella vita, bisogna anche saper celebrare le piccole e le grandi cose. Io ho imparato». In quell'età, che Omar ripete più volte nella nostra intervista, c'è anche tutta la consapevolezza che si ha dopo più di quaranta gare, ma anche quella che si ha a quarant'anni e magari non a venti: una tranquillità nei problemi che, riflettendoci ora e guardandola dall'esterno, al di fuori dalle situazioni che l'hanno sfidata, meraviglia anche Di Felice stesso.
Si parla di quando una bomba d'acqua, con grandine a non finire, l'ha sorpreso in Colorado e fermandosi a dormire, per circa quattro ore, in attesa che le condizioni meteorologiche migliorassero, ha perso tutto il vantaggio accumulato fino a quel momento. In quegli istanti, con la stanchezza, può sopraggiungere il panico, invece no: «Ero in assoluto controllo, una sorta di pace dei sensi che mi portava a fare quel che era necessario, inevitabile in casi come questi, senza prendermela». Qualcosa di simile è accaduto anche in Virginia, dove un maltempo eccezionale, ha rovesciato al suolo acqua a non finire: Di Felice non ha più nulla di invernale, ha già spedito tutto a casa, fa freddo ed inizia a manifestarsi un principio di ipotermia. Nessuno apre alla porta del Bed and Breakfast che ha prenotato, sono le tre di notte, deve chiamare la proprietaria: entra grazie ad un codice fornitogli al telefono, si cambia, asciuga tutto e riparte. «Nel frattempo le ottanta miglia che avevo di vantaggio erano diventate venticinque. Pazienza, serve solo questo. Certo, quando riparti, riparti a tutta perché vuoi vincere, battagli per prendere il traghetto in tempo, perché vuoi vincere, ma devi accettare gli inconvenienti. Il ragazzo canadese che è arrivato terzo ha raccontato di aver vissuto molto male le forature, di essersi innervosito: umanamente lo capisco benissimo, ma bisogna pensare al fatto che in un viaggio di settemila chilometri è inevitabile forare ed in un viaggio attraverso quattro stagioni, perché questa è la Trans America, è impossibile non incappare nelle piogge forti o nel caldo asfissiante». Così, sorridendo, ci confessa di aver capito quel detto che afferma che "dopo i quaranta, arriva il bello", perché i suoi risultati migliori sono arrivati proprio dopo i quaranta e, soprattutto, perché, dopo i quaranta, è arrivata la capacità di focalizzarsi solo sulla propria persona.
«Quante volte mi sono preoccupato dei miei avversari in carriera? Ora non più. La prima notte ho dormito, anche se tutti i miei rivali non lo hanno fatto: non ho battuto ciglio, perché sentivo di averne bisogno. Ascolto il mio corpo e capisco ciò che mi chiede. Forse i risultati migliori sono anche dovuti al fatto che mi adatto maggiormente, i trentenni della mia epoca non erano così bravi a farlo. I trentenni di oggi sono diversi: vincono di più, hanno esperienza e capacità, arrivano prima, però si stancano anche prima. Le carriere credo si accorceranno anche nell'ultracycling, non solo nel professionismo. Ma, per quanto mi riguarda, i miei quarant'anni sono meglio dei miei trenta». Anni che, a tratti, forse, sono come quei drittoni che Omar Di Felice si è trovato di fronte in Kansas, lunghi, infiniti, strade che paiono finire direttamente nel cielo, mentre il vento soffia forte contro: strade che, per quanto difficili lo esaltano e, praticamente, non gli fanno sentire la fatica. Capita che la via che si percorre sia quasi un premio, questo sono stati gli ultimi quindici, forse venti, chilometri, sotto un sole meraviglioso, verso il traguardo. Se certe strade sono un premio, di certo una gara così è un viaggio, in cui si interagisce con le persone, per mangiare, per dormire, in cui si attraversano piccoli e grandi paesi, in cui si attraversa l'America: «Sono partito pensando al sogno americano, pedalando ho toccato con mano tutte le contraddizioni di una terra, di grandi e piccole città. Da un lato, nelle città, cartelli contro l'aborto, dall'altro fucili e armi vendute al supermercato, in autentici banconi, vicino al cibo. Un paese in cui gli uffici postali sono sempre aperti e chiunque può entrarvi, per dormire o cambiarsi: mi è capitato e mi sono sentito accolto. Un paese in cui le strade restituiscono l'idea della sicurezza. Non solo le auto sorpassano i ciclisti ad una adeguata distanza, ma mantengono anche una giusta distanza nel procedere in modo da riuscire a reagire in tempo in caso di cadute. C'è questo e c'è il junk food, il cibo spazzatura, di cui, comunque, ho dovuto nutrirmi in quei giorni: uova, bacon, polletti fritti, haribo, hamburger». Di Felice racconta di non essere assolutamente schizzinoso sul fattore alimentazione e spiega che, anche in questo caso, la parola chiave è adattamento: «Se hai bisogno di sali e non li hai devi mangiare cibi salati, lo stesso vale per gli aminoacidi e le fonti proteiche. Talvolta un Mars in una stazione di servizio può essere una buona soluzione. Adattarsi significa abituarsi e abituarsi significa tenersi allenato a digerire in ogni situazione e condizione, anche in allenamenti lunghi o situazioni sfavorevoli. Io provo tutto questo già in preparazione. Quello a cui bisogna fare attenzione sono sempre le condizioni igieniche dei posti in cui si va. Questo è essenziale».
Due giornate difficili, probabilmente le più difficili, arrivano proprio in Kansas: circa ottanta chilometri senza potersi rifornire di acqua, mal di testa, giramenti di testa, in una giornata che non finiva più. Omar Di Felice la gestisce e la supera, soprattutto, non raccontando nulla sui social, non lascia modo ai suoi avversari di capire questa difficoltà e di attaccarlo: «La strategia è tutto. Io mi ci focalizzo molto e penso che anche i miei avversari lo facciano. L'ultimo giorno, quando ho avuto un principio di ipotermia, non ho detto il motivo: di qualcosa si saranno accorti, perché il vantaggio calava, ma non potevano averne la certezza. Forse anche per questo non mi hanno attaccato, forse semplicemente perché non avevano le gambe». Quando arriva a Yorktown, Omar Di Felice è molto provato fisicamente, oggi ammette che, se ci fossero stati cento chilometri in più, avrebbe fatto fatica a farli, e che, gli ultimi chilometri, li ha percorsi solo con la testa. Per giorni, dopo il ritorno, ha avvertito dolore a fare le scale, a causa di una spossatezza che non lo lasciava; ha ripreso a pedalare, lo fa "dignitosamente" ma senza alcuna possibilità di fare performance, per quello servirà ancora un mese e mezzo, forse due. Una valutazione che è, comunque, sempre soggettiva e dipende da quanto si è raschiato il fondo del barile.
C'è stato un attimo, durante la Trans America, mentre era in testa da solo, in cui Omar Di Felice si è detto: «Se vincessi, perché non chiudere così? Perché non terminare qui la tua carriera? Potresti chiudere alla grande». La domanda vera era un'altra: qual è il momento giusto per smettere? «Di certo smetterò quando sentirò di essere ad un buon livello, non vorrei trascinarmi lungo gli ultimi anni di carriera, ma non è ancora il momento. Fare quello che faccio non mi pesa, non mi pesano i sacrifici. Riesco a bilanciare i momenti gara e di sforzo e quelli di stacco, godendomeli entrambi. Sono convinto che sia giusto riempire la vita anche di altro, non solo del ciclismo, e provo a farlo. Così mi sono risposto che non è ancora il momento di smettere. Che, poi, smettere è sempre tra virgolette perché alla bicicletta mi dedicherò sempre lo stesso». Sì, Omar Di Felice continuerà a gareggiare e molto probabilmente a vincere. Da qui nasce l'ultima domanda. Ma se Di Felice non avesse vinto tutto quello che ha vinto, se fosse stato un onesto pedalatore, senza acuti, avrebbe continuato lo stesso in questo percorso in sella?
«Sì, credo proprio di sì. Ho sempre voluto far parte di questo mondo, ho fatto tante rinunce, tanti sacrifici e alle prime gare, quando le cose non andavano così bene e arrivavo al traguardo con fatica, ricordo che provavo la stessa soddisfazione di oggi che vinco. Per essere soddisfatti non serve per forza vincere, sebbene la vittoria sia quello per cui tutti gareggiamo, si trova soddisfazione in tanti piccoli miglioramenti, si trova soddisfazione nell'insistere, nel tenere duro e nel dimostrare, a te stesso prima che agli altri, che quel traguardo per cui tanto hai lavorato puoi raggiungerlo. Ancor di più se non nasci con un particolare talento. Non sembri falsa umiltà, non lo è. Io non sono nato per questo, ne sono abbastanza convinto. Da giovane, quando l'ho capito, ci sono rimasto male, perché avrei voluto avere quel talento cristallino di quelli a cui riesce tutto semplice. A me non è mai riuscito semplice nulla. Poi ho capito che il talento da solo non basta, che se non si lavora sodo, ci si perde anche con il talento. Così sono orgoglioso della mia fatica e di tutto quello che ha comportato. Tempo fa, leggevo che Javier Zanetti, il capitano dell'Inter, per molti anni, si allenava persino in aeroporto, prima dei voli per le partite. Mi sono rivisto in quelle parole, perché mi è capitato e mi capiterà ancora, anche se, guardandomi vincere, magari non ci si pensa». Succede agli atleti e Omar Di Felice si sente solo questo: un uomo e un atleta.
Foto: di Elisa Raney e Rand Milam