Correre a testa in giù: il racconto del Tour of Southland 2023
Nel vecchio continente i mesi autunnali sono sinonimo di ciclocross e ciclismo su pista, ma dall’altra parte del mondo, dove in questo periodo le temperature sorridono all’attività su strada, la stagione è appena entrata nel vivo. Infatti, nella regione più meridionale della Nuova Zelanda si è appena conclusa la sessantasettesima edizione di una delle corse più belle del calendario non-UCI e non solo: il Tour of Southland.
Dal 1956, a cavallo tra ottobre e novembre, nella regione neozelandese del Southland, si snoda una gara ciclistica di più giorni tra i fiordi, i laghi e le aspre montagne del Te Wahipounamu - il più grande parco nazionale della Nuova Zelanda - e le strade cittadine di Invercargill - capoluogo della regione -, considerata dai locals come il Tour de France neozelandese: il Tour of Southland. Nell’albo d’oro della corsa, dove le Croci del Sud appaiono a perdita d’occhio, si susseguono nomi di maggiore e minore fama: da pionieri del pedale māori in Europa come Warwick Dalton e Tino Tabak, il primo modesto pistard ed il secondo addirittura campione nazionale neerlandese nel 1972 (Tabak godeva infatti della doppia cittadinanza essendo nato proprio in Olanda), a vecchie e nuove conoscenze del Pro Tour e del World Tour come James Oram, Aaron Gate, James Piccoli, Michael Vink e Josh Burnett, passando per lo straordinario Brian Fowler, plurivittorioso con otto successi tra anni ‘80 e ‘90 che però non trovò grande fortuna in Europa. Dalton e Tabak, ormai più di sessant’anni fa, hanno aperto la strada ai Kiwis nel ciclismo europeo, che nella stagione appena conclusasi erano ben diciassette a livello World Tour (sei nel Women’s World Tour e undici in quello maschile) e diciannove a livello Pro Continental, di cui sedici tra le file della Bolton Equities Black Spoke, la prima - e, vista la sua imminente chiusura, speriamo non l’ultima - compagine professionistica neozelandese.
Quest’anno ha corso con la maglia giallo-viola dei neozelandesi anche il campione uscente del Tour of Southland 2022, ovvero il ventitreenne Josh Burnett, il quale alla terza uscita da pro’ aveva già centrato il successo, vincendo la tappa regina della New Zealand Cycle Classic. Tuttavia lo scorso 29 ottobre Burnett non era presente al Queen’s Park di Invercargill per difendere il titolo, lasciando il trono del Southland a nuovi pretendenti. La prima delle sei giornate di gara consisteva in un cronoprologo a squadre di 4,2 chilometri, seguito da uno dei più classici Criterium oceanici. La prima semitappa di giornata ha visto prevalere i body, chiaramente ispirati alle fantasie anni ‘90 della Mapei, della Quality Food Services Southland di Boris Clark, uno dei favoriti in ottica classifica generale, il quale però è riuscito a racimolare solo una manciata di secondi sui suoi principali rivali. Nel pomeriggio, invece, ad imporsi è stato il classe 2005 James Gardner, fresco vincitore del Tour of Southland Juniors ad inizio ottobre con quasi cinque minuti di vantaggio sul primo inseguitore, ovvero Carter Guichard del vivaio dell’AG2R. Il diciottenne di Dunedin è evaso dal gruppo con un’azione da finisseur al suono della campana, quando mancavano poco più di quattro chilometri alla conclusione, ed è riuscito a contenere la rimonta del gruppo fino alla volata finale grazie alle sue doti da pistard ed a una posizione super aerodinamica per un ragazzo di oltre un metro e novanta. Gardner ha quindi anticipato sul traguardo un altro pistard della nazionale neozelandese, Nicholas Kergozou, che grazie agli abbuoni ha vestito la maglia arancione di leader della classifica generale.
Il menù della seconda tappa in linea presentava vari settori di gravel, molti dei quali in salita, che hanno premiato l’australiano Samuel Jenner, il quale sulla salitella sterrata di Glenure Hill si è lanciato in una fuga solitaria di poco più di dieci chilometri. Dopo un lungo braccio di ferro, Jenner ha avuto la meglio sugli inseguitori, anticipando per un solo secondo un gruppo di una ventina di elementi sul traguardo di Lumsden. Grazie al secondo posto di giornata e al tesoretto guadagnato nella cronosquadre, Regan Gough ha strappato la maglia di leader a Kergozou, suo compagno di nazionale di ciclismo su pista. Dopo due colpi di mano nelle prime due frazioni, la terza tappa, da Riverton a Te Anau, si è finalmente conclusa in volata, con Zakk Patterson che ha bissato il successo dello scorso anno ottenuto proprio sul traguardo di Te Anau.
Il giorno seguente la carovana al seguito del Tour of Southland è ripartita alla volta di Queenstown, da dove ha inizio l’ascesa più dura di tutta la gara: quella alla stazione sciistica di The Remarkables. La salita, che domina la città e i fiordi del Lago Wakatipo ai suoi piedi, misura 7 chilometri e presenta quasi 600 metri di dislivello e quest’anno ha sorriso all’azione della fuga, da cui è emerso Eliot Crowther. Crowther, un ragazzino di 36 anni che il primo Tour of Southland lo ha corso nel 2005, dopo il traguardo ha affermato: “Questa è, secondo me, la miglior corsa dilettantistica del mondo. In che altro luogo puoi correre a questo livello senza essere un pro’?”. La salita tuttavia non è terminata con la tappa di The Remarkables, infatti nella frazione successiva i corridori hanno scalato Bluff Hill, un vero e proprio trampolino nebbioso verso il Mar di Tasmania, dove nel 2020 ha vinto l’allora campione del mondo di corsa a punti, e oggi professionista con la Israel Premier-Tech, Corbin Strong. Ad imporsi in cima a Bluff Hill è stata una certezza del ciclismo locale neozelandese, ovvero l’inglese Dan Gardner, che da due anni a questa parte vive in terra māori. Il britannico della PRV - Pista Corsa ha preceduto sul traguardo il gruppo inseguitore guidato da Craig Oliver e Hayden Strong - fratello maggiore di Corbin -, ottenendo la testa della classifica a generale con 35” di vantaggio su Arthur Meyer, 43” su Joseph Cooper, 51” sullo stesso Oliver e 56” su Boris Clark.
Nella sesta tappa, i principali avversari di Gardner hanno fatto temere il peggio alla maglia arancio, che tuttavia, dopo una frazione di attacchi e contrattacchi corsa a 47 chilometri orari di media, è riuscito a chiudere con il gruppo dei big, a 20” dal vincitore di giornata Kane Richardson. L’ultima giornata di gare, proprio come la prima, presentava due appuntamenti decisivi per chiudere i giochi della classifica generale: una cronometro individuale di 13 chilometri al mattino e un’ultima tappa pianeggiante verso Invercargill nel pomeriggio. Nella prima semitappa, le lancette del cronometro hanno sorriso al biker Ben Oliver, il quale per qualche centesimo ha ottenuto la vittoria sull’esperto Joseph Oliver, che però è balzato in seconda piazza in classifica generale a soli 15” da Gardner. Nell’ultima semitappa, tuttavia, la squadra della maglia arancione, composta da soli giovani di Auckland e Cambridge oltre all’esperto britannico, è riuscita a tenere chiusa la corsa fino alla volata conclusiva, vinta da Kergozou su Josh Rivett e sull’argento mondiale dello scratch Kazushige Kuboki, regalando così la classifica generale al suo capitano. Assieme a Gardner sono saliti sul podio finale Joseph Cooper (Central Benchmakers - Willbike) e Boris Clarke (Quality Food Services Southland).
“Fino all’ultima pedalata non credevamo che sarebbe potuto succedere. Sono molto felice e fiero e grato verso i miei compagni, lo staff, tutta la mia famiglia e i miei amici. Qualche anno fa lavoravo in un negozio di biciclette quando Tim, il proprietario di PRV (lo sponsor della squadra di Gardner, ndr), mi ha proposto di fare da chioccia a questi giovani ragazzi e alla fine si è tutto capovolto e loro hanno aiutato me”. Ha commentato il neo campione del Tour of Southland, che tra poco si ricongiungerà con la sua fidanzata, l’ex ciclista Kate Wightman, nel cammino del Te Araroa Trail per raccogliere fondi per la ricerca contro il cancro uterino. Il Te Araroa Trail è un percorso escursionistico di 3000 chilometri che taglia in due la Nuova Zelanda, dal punto più settentrionale dell’Isola del Nord - Capo Reinga - al punto più meridionale del Paese, ovvero Bluff Hill, dove Dan Gardner ha appena conquistato il successo più importante della sua carriera e presto farà ritorno assieme alla sua dolce metà.
A cura di Tommaso Fontana.
Race Against Cancer: fino in vetta al monte Grappa
L'hanno chiamata RAC, è sostenuta da LILT, significa Race Against Cancer e nasce da quel che un essere umano e una bicicletta possono fare: partire. Partono gli amici, assieme, partono così, da Massa, ad inizio ottobre, Andrea Pepe, Marco Della Maggiora e Massimiliano Frascati diretti verso le pendici del Monte Grappa, verso il sacrario dei caduti, per sensibilizzare alla lotta contro i tumori e promuovere uno stile di vita sano. Si tratta della terza edizione dell'evento ed il vissuto dei due precedenti resta nel racconto: «Potrei parlarti del mio babbo, della mia esperienza personale- narra Andrea- in realtà ognuno di noi potrebbe aggiungere qualcosa perché purtroppo tutti o quasi abbiamo conosciuto almeno un pezzetto di quel dolore, di quella sofferenza. In questi giorni in bicicletta ne abbiamo avuto la conferma».
Quel giorno nei dintorni di Modena, ad esempio, quando, da una strada sbagliata, è nato un incontro con un gruppo di vecchietti: qualcuno raccontava di aver corso con Moser, altri, appena conosciuto il progetto, si sono prodigati in indicazioni stradali per arrivare più velocemente ed in sicurezza da un luogo all'altro, da una città all'altra, magari anche ammirando un paesaggio mai visto prima. Oppure quando una signora, a Bassano del Grappa, vedendoli pedalare e, poi, sentendo raccontare, si è commossa, proprio a colazione, iniziando a sua volta a parlare, a spiegare. Marco prende la parola: «L'idea è quella di portare un momento di leggerezza anche alle famiglie delle persone malate, perché la loro vita cambia ed è difficile, molto difficile. Talvolta basta una boccata d'aria, un giro dell'isolato, qualche parola nuova, per riprendere fiato ed essere pronti ad affrontare una nuova giornata. Noi cercavamo sempre di avere un sorriso per chi incontravamo e quel sorriso ci tornava sempre indietro». Ognuno con le proprie caratteristiche, di regione in regione, di paese in paese.
Il Monte Grappa non è una destinazione casuale: si pensa ai caduti della guerra mondiale, si pensa alla parola "combattere". «L'unica via contro queste malattie è la scienza, la medicina, gli ospedali ed i medici. Spesso la sanità è sacrificata, anche su questo è necessario accendere un riflettore. Noi proviamo a farlo tramite lo sport». Andrea è anche il fotografo di questo viaggio e l'istantanea fotografica del progetto ce la fornisce proprio lui, mentre ci dice che gli piacerebbe che questa avventura fosse ricordata come quei tramonti in cui, assieme agli amici, chiacchierando, si percorre un lungo viale, magari con una birretta in mano ed i colori tenui della sera: «Quei momenti in cui ti dici: “Vorrei essere anche io lì. Semplicemente stare in gruppo, in compagnia, senza frizioni, con piacere». Sì, perché serve talento anche per stare in gruppo, per tenere le ruote: «Non è una gara, non c'è il primo e non c'è l'ultimo, noi aspettiamo tutti, andiamo assieme. Certo, ognuno ha messo la propria fatica, per innescare la pedalata, per scalare una salita o disegnare una curva in discesa, ma accanto ci siamo tutti, ci sono tutte le persone che ci vogliono bene, gli amici. Nella malattia dovrebbe succedere lo stesso». Ogni giorno qualcuno gli dice: "Bravi, bisogna parlarne, continuate così, fatelo anche per noi". La soddisfazione di fare qualcosa di utile, qualcosa che può aiutare, in questo caso va di pari passo con una riflessione importante che Marco e Andrea condividono: «A volte sembra ci sia una sorta di timore nel fare il primo passo, nel parlare di queste cose. Certamente è comprensibile, ed ascoltare è già un passo fondamentale per non sentirsi soli, allo stesso tempo però è necessario farlo, perché la strada è iniziata ma è lunga».
Sì, lunga come la salita al Monte Grappa, al sacrario, con tutte le volte in cui alla mente si potrebbe affacciare l'idea di lasciare perdere, perché, in fondo, è così che talvolta si reagisce di fronte alle difficoltà: «La nostra, in fondo, era solo una salita in bicicletta ma a mollare, a tornare, prima di essere arrivati lassù, non ci abbiamo mai pensato. Vorremmo spronare chi sta soffrendo per una malattia a non farlo mai. Intorno avrà sempre il suo gruppo, a sostenerlo». E si torna un poco indietro nel tempo, attraverso la lentezza della bicicletta, nel muoversi, nell'attraversare il paese, «come facevano i nostri nonni, senza tutta la velocità in cui siamo immersi, che ingloba anche i sogni di ciascuno di noi»: fino al silenzio da cui si resta avvolti al sacrario, soli con i propri pensieri. Tra le foto di Andrea Pepe, una mostra una mucca, tranquilla, in un paesaggio montano. e Andrea, tra tutto quello che ha visto, questo non riesce proprio a toglierselo dalla testa: «Un apparente contrasto con quello che viviamo noi come esseri umani, un elemento di relax a cui provare a guardare in certi istanti». Così Marco Della Maggiora, Andrea Pepe e Massimiliano Frascati, tornati a casa, sono ancor più sicuri che questo progetto vada preservato, rinnovato, anche nei momenti in cui sarà più complesso. Allora bisognerà aspettare quella voce che grida «non mollare», anche quando non si vede la fine: «Non mollare, insisti, è l'unica possibilità che hai».
Foto: Andrea Pepe
Questionario cicloproustiano di Federica Venturelli
Il tratto principale del tuo carattere?
La determinazione
Qual è la qualità che apprezzi in un uomo?
La simpatia
Qual è la qualità che apprezzi in una donna?
La sincerità
Cosa apprezzi di più dei tuoi amici?
La lealtà
Il tuo peggior difetto?
La pignoleria
Il tuo hobby o passatempo preferito?
La lettura
Cosa sogni per la tua felicità?
Vincere un Campionato del Mondo élite
Quale sarebbe, per te, la più grande disgrazia?
Dover abbandonare il ciclismo a causa di un infortunio
Cosa vorresti essere?
Ciò che sono, sono soddisfatta di quello che ho
In che paese/nazione vorresti vivere?
In Italia
Il tuo colore preferito?
Verde
Il tuo animale preferito?
Il pinguino
Il tuo scrittore preferito?
Non saprei scegliere tra Gianrico Carofiglio, Dan Brown e Giacomo Leopardi
Il tuo film preferito?
Nickname: enigmista
Il tuo musicista o gruppo preferito?
Pinguini Tattici Nucleari
Il tuo corridore preferito?
Mathieu van der Poel
Un eroe nella tua vita reale?
Giovanni Falcone
Una tua eroina nella vita reale?
Mary Wollstonecraft
Il tuo nome preferito?
Ilaria
Cosa detesti?
La vanità
Un personaggio della storia che odi più di tutti?
Bruto
L’impresa storica che ammiri di più?
La circumnavigazione del globo
L’impresa ciclistica che ricordi di più?
Vittoria di van der Poel all'Amstel Gold Race 2019
Da quale corsa non vorresti mai ritirarti?
Parigi-Roubaix
Un dono che vorresti avere?
Essere brava a cantare
Come ti senti attualmente?
Stressata
Lascia scritto il tuo motto della vita
“Se tu segui tua stella, non puoi fallire a glorioso porto” (Dante, canto XV Inferno)
Nairoman - Il ritorno
22 anni compiuti da meno di un mese: poco più che teenager. Preparato mentalmente sin dalla vigilia a quel finale di gara: «Sapevo di dover dare tutto in discesa». Uno scalatore così convinto dei propri mezzi, da sembrare spavaldo, temerario. Generoso. Convinto di ciò che c’è da sapere per emergere, corridore che da lì in poi avrebbe lasciato una traccia importante “quando la strada s’impenna”, verrebbe da dire. Vinse la tappa con arrivo sulla Sierra de Espuña, Vuelta a Murcia: era il suo primo successo da professionista. Staccò Tiernan-Locke (lo ricordate?) in salita, si difese in discesa, precedette sul traguardo Wouter Poels di una manciata di secondi, vinse poi anche la classifica finale della breve corsa a tappe spagnola. Da lì in poi avrebbe ottenuto tanti successi, non troppo diversi tra loro: il filo conduttore sarebbe stata la salita come mezzo per arrivare anche alle classifiche generali; salita, ma non per forza altissima montagna - chiuse proprio quel 2012 vincendo al Giro dell’Emilia, un traguardo durissimo per pendenze ma non di certo altitudine in stile Everest, dimostrando al mondo come uno scalatore colombiano avrebbe potuto fare altro, non solo vincere lì, dove osano le aquile.
Proseguì facendo incetta di traguardi di un certo peso: prima del Giro dell'Emilia, siamo sempre nel 2012, si sbloccò nel circuito World Tour: tappa al Delfinato. Uno stile che ancora doveva affinarsi, rapporto duro come piace ai puristi, seduto a macinare dopo essersi alzato per un attimo sulla sella, leggermente barcollante di spalle e con le ginocchia larghe, quel giovane colombiano iniziò a fare breccia nel cuore dei tifosi e in quello dei suoi dirigenti. La maglia della Movistar, così diversa da un punto di vista cromatico da quella che vediamo oggi, portata quasi svolazzante sulla schiena magra, di quella magrezza non malata, leggermente tisico, sì, ma come chi ancora doveva formarsi del tutto fisicamente. Unzue, storico team manager della squadra spagnola, dopo quel successo, ai microfoni non nascondeva come l’obiettivo dell’imperscrutabile giovane scalatore fosse già la Vuelta, nonostante la poca esperienza maturata tra i professionisti. Andò bene, non in maniera eccezionale in realtà, alla fine si tenne a galla per Valverde, alla fine chiuse 36° in classifica generale facendo 6° nella tappa di Cuitu Negro, manifesto al ciclogaragismo spagnolo. Una rampa con punte al 24% ottenuta asfaltando una vecchia pista da sci. Doveva essere una sfida Contador contro Purito Rodriguez, ma Valverde riuscì a tenere duro perdendo pochissimo dai due grandi favoriti di quella Vuelta, grazie soprattutto all’aiuto «di un giovane e promettente colombiano che gli pedalò di fianco per quasi tutta la giornata».
Nel 2013 la prima promessa fatta al Tour de France venne mantenuta e si racconta come quella prestazione «fece addolcire il tono di voce di Eusebio Unzue»; la promessa venne mantenuta salendo verso Annecy: vittoria di tappa al Tour de France e su di lui Unzue si sbilanciò: «La cosa che mi colpisce di più di questo corridore è la capacità di leggere la corsa. In questo mi ricorda Indurain. Ha carattere anche se a vederlo potrebbe non sembrare. Non teme nemmeno i belgi di due metri che gli corrono di fianco. Una volta ha tirato una borraccia in testa a uno perché questo rischiò di prenderlo in pieno, c’è anche un episodio in cui è andato a parlare a quattrocchi fino al pullman con un altro corridore». In quel Tour, oltre alla tappa vinta sull’inedito arrivo di Semnoz, Quintana vestirà la maglia bianca e quella a pois, salendo sul podio finale dietro a Chris Froome, al suo primo dei quattro Tour vinti, davanti a Purito Rodriguez e Contador. A soli 23 anni. Si sciolse, lui che a dispetto del suo sguardo impenetrabile è sempre stato definito uno dei più scherzosi in squadra. Pianse a fine tappa dedicando la vittoria all’ultimo colombiano a pois prima di lui: Mauricio Soler. « Ho al collo una medaglia che mi ha regalato come portafortuna», le sue parole.
Vinse il Giro d’Italia nel 2014, la Vuelta nel 2016, salì ancora sul podio al Tour de France, vestendo anche la maglia bianca di miglior giovane che appariva, addosso a quel colombiano con la faccia da vecchio, quasi un ossimoro ciclistico. Podi, tappe, maglie bianche oppure a pois, ma spesso sacrificato dalla sua squadra, la Movistar, in nome di quel Totem che portava il nome di Alejandro Valverde. Ogni qualvolta si muoveva divideva, e per anni la sua carriera è stata tutta un’etichetta. Se per Unzue era “come Indurain”, per Greg Lemond era “il nuovo Merckx”; “un incompiuto” da una parte i detrattori, i traditi, quelli che pensavano che Nairo Quintana potesse diventare il primo colombiano a vincere il Tour de France, dopo essere stato il primo a vincere il Giro, il secondo a vincere la Vuelta. Come se poi arrivarci così vicino fosse un’onta.
Il peso delle etichette difficilmente hanno scalfito il corridore. Nomignoli come “la sfinge” non gli sono mai dispiaciuti, come il tentativo di vedere in lui un supereroe costruito e poi destrutturato come in una sceneggiatura di Alan Moore: “Nairoman” lo chiamano ancora anche in Colombia dove resta un’autentica superstar.
“Il più forte colombiano della storia”: tifosi, ma non solo, tutto sommato numeri alla mano non ci siamo andati troppo lontano. Passato professionista nel 2012, due anni dopo aver portato la Colombia, a distanza di 25 anni dall’ultimo successo, al primo posto del Tour de l’Avenir, fino al 2022 ha vinto 51 volte: che dite? mica male per uno scalatore? Certo, ma bisognerebbe forse sottolinearlo di più. Lui che semplice scalatore non è mai stato. Vincere un grande giro è roba per corridori completi: lui nelle corse a tappe ha sempre dimostrato di essere attento anche quando davanti si battagliava tra i ventagli o si attaccava in discesa. Al suo apice è stato capace anche di difendersi a cronometro. Fino al 2022, dicevamo, perché poi all’improvviso la sua storia ha una brusca frenata. Si torna nel campo della controversia quando al Tour del 2022 viene trovato positivo al tramadolo e quel suo sesto posto finale viene cancellato. Licenziato dalla squadra, ha subito un anno di stop forzato, un ban silente, si direbbe. Fra pochi mesi lo rivedremo in azione, di nuovo in maglia Movistar «principalmente per aiutare Mas nei Grandi Giri» afferma sempre Unzue. Lui intanto appare in forma, si è allenato come non mai, dice, e in un ciclismo sempre più fatto da giovinastri esplosivi, non dispiace rivedere di nuovo il suo nome al via, che giovinastro che marcava differenza in salita lo è stato e forse lo vuole essere ancora. Anche a voi è mancato?
Foto in evidenza: ASO/PAuline Ballet