Il questionario cicloproustiano di Sara Casasola
Il tratto principale del tuo carattere?
Testardaggine.
Qual è la qualità che apprezzi in un uomo?
Sensibilità.
Qual è la qualità che apprezzi in una donna?
Sincerità.
Cosa apprezzi di più dei tuoi amici?
La fiducia reciproca.
Il tuo peggior difetto?
Impazienza.
Il tuo hobby o passatempo preferito?
Camminare in montagna.
Cosa sogni per la tua felicità?
Una bella famiglia e potermi realizzare in ambito ciclistico.
Quale sarebbe, per te, la più grande disgrazia?
Gravi problemi di salute per qualcuno a cui tengo.
Cosa vorresti essere?
Una persona migliore ogni giorno.
In che paese/nazione vorresti vivere?
Italia, in Friuli, nella zona collinare o sotto i monti.
Il tuo colore preferito?
Verde acqua.
Il tuo animale preferito?
Cane.
Il tuo scrittore preferito?
John Green.
Il tuo film preferito?
Hunger Games.
Il tuo musicista o gruppo preferito?
The Script.
Il tuo corridore preferito?
Elizabeth Stannard.
Un eroe nella tua vita reale?
Mio padre.
Una tua eroina nella vita reale?
Mia madre.
Il tuo nome preferito?
Lara.
Cosa detesti?
Le ingiustizie e la scorrettezza/ mancanza di rispetto da parte di altre persone.
Un personaggio della storia che odi più di tutti?
Adolf Hitler.
L’impresa storica che ammiri di più?
L’unificazione d’Italia.
L’impresa ciclistica che ricordi di più?
Ce ne sono tante, una tra tutte la Parigi-Roubaix vinta da Elisa Longo Borghini.
Da quale corsa non vorresti mai ritirarti?
In generale nessuna.
Un dono che vorresti avere?
La capacità di disinteressarmi e di non dar peso alle cose negative.
Come ti senti attualmente?
Serena, felice di quello che ho e delle persone che ho accanto.
Lascia scritto il tuo motto della vita
Da ogni cosa negativa si può sempre trarre qualcosa di buono per migliorarsi.
Trek Store Bergamo, Lallio
Non fate nulla, limitatevi ad immaginare e ad ascoltare. Lo sentite? C’è un televisore acceso, sono circa le tre del pomeriggio, fa caldo, molto caldo, è luglio, persino la leggera brezza che, ogni tanto, arriva dal mare, è calda, quasi un asciugacapelli puntato addosso. Serve appena appena a smuovere qualche fronda degli alberi e le tende di quelle finestre aperte che, passeggiando, si intravedono nei centri abitati. Sui tavoli dei bar, dell’aranciata fresca, della limonata, un bicchiere con dello sciroppo di menta, canotte e pantaloncini corti, anche qui la televisione è accesa. Ma torniamo alle case, dove, all’esterno o poco più in là, in un campo, i ragazzini, a scuole terminate, giocano a calcio. Avviciniamoci per sentire meglio quella voce che risuona da più parti: è Adriano De Zan, impegnato nell’ennesima telecronaca di una tappa del Tour de France, mentre i campi di girasoli scorrono in video, assieme alla lotta per la maglia a pois, tra gli uomini in fuga, su una cima alpina o pirenaica, quando al traguardo mancano ancora molti chilometri. Fabio Sinatra è lì, in uno di quei salotti, su uno di quei divani, accanto ai nonni, tutto occhi. Siamo in Sicilia, ad Avola e Fabio è arrivato qui da circa un mese, giusto appena finite le lezioni, resterà fino a settembre. Una classica estate italiana, una classica estate da adolescenti, di quelle in cui, a sera, si va sul lungomare a mangiare un gelato, a vedere i fuochi d’artificio, oppure, da qualche parte, a vedere altre ruote girare, altre biciclette sfidare il vento, nella gara notturna che tutte le estati si fa in città, l’ultima settimana di luglio.
Bergamo era distante in quei giorni siciliani, Avola, invece, è vicinissima in questi giorni lombardi, bergamaschi, perché appena chiediamo a Fabio Sinatra, direttore dello Store Trek di Bergamo, di parlarci del suo rapporto con la bicicletta, la memoria pesca là: «La bicicletta l’ho conosciuta per nonno, grazie a lui ed attraverso di lui. Certo non pensavo che sarebbe diventata parte del mio mestiere, ma che mi sarei sempre ricordato di quei giorni lo sapevo. Del resto, chi non si ricorda le estati da giovani? Chi dimentica le prime passioni o i discorsi fatti con i nonni a compiti finiti?». Una bicicletta Trek c’era già, era rossa e Fabio la condivideva con il fratello, c’era anche una Bianchi, dai nonni. Quella Trek rossa era stata acquistata in un piccolo negozio, saranno stati venticinque metri, accanto al palazzo dove vive e guardando dalle finestre ce lo si raffigura ancora, anche se, ormai da qualche anno, quel negozio non c’è più. Le biciclette, invece, a Bergamo ci sono sempre: fanno parte dei risvegli della domenica mattina , dei velodromi, della “Tre sere di Dalmine”, e delle gare dei più giovani. «In città, sono tantissimi i volontari che si impegnano affinchè le gare dei ragazzini siano possibili, aiutano le società a pensarle, a crearle, ed è interessante osservare i loro gesti, la dedizione che ci mettono ed il tempo che dedicano. Vedere correre quei ragazzi accresce la passione, la voglia di fare un altro giro in bici, uno in più, ma anche fermarsi ad osservare i volontari fa lo stesso effetto. Mi è capitato, lo consiglio». Sinatra parla di piccole attenzioni, le stesse che lui da sempre applica alle biciclette, racconta che il primo tipo di approccio è tattile: toccare la bici, conoscerla in questo modo, esplorarla, starci a contatto. All’inizio era tutto più semplice: la passione per il ciclismo, per il basket, il lavoro in Decathlon e sempre le mani “fisicamente” sulla bicicletta, appena ne aveva la possibilità. Poi una telefonata, la carica di direttore, soddisfazioni e responsabilità che devono coesistere perché le biciclette del suo negozio, una volta uscite di lì, vanno a percorrere i viaggi ed i giri di altre persone e chi pedala sa cosa vuol dire: «Un viaggio in bici è un’esperienza ed a noi quell’esperienza interessa in ogni dettaglio. Chiunque pedali, sa che possono esserci tante cose, minime ma fastidiose, che rovinano il momento: un rumore, una scomodità. Noi vorremmo che la pedalata fosse immersiva, che permettesse di non pensare ad altro se non che al ruotare dei pedali ed alle istantanee di paesaggio da ricercare, da portare a casa, da raccontare. Credo sia una bella responsabilità provare a garantire tutto questo, molto difficile, ma stimolante. Tra l’altro, a me le responsabilità sono sempre piaciute».
Per meglio raccontare questa sensazione, Sinatra ci accompagna, grazie al racconto, in uno dei suoi tragitti preferiti, in città, verso Monte di Nese: sono otto chilometri di salita abbastanza impegnativa, in mezzo al bosco, in estate si sta bene ed in autunno è un fiorire di colori: lassù, in cima, c’è il paese. Lo Stelvio è lontano da qui, ma un cartello, nello store, lo ricorda, insieme a un’immagine enorme, sulla parete sinistra dello store: «Tre settimane prima che tutto questo arrivasse in negozio, ero andato a scalare lo Stelvio: ho voluto metterlo qui per ricordare quell’esperienza, per tenere a mente la fatica bella, la sofferenza tremenda e piacevole allo stesso tempo, del pedalare, quella che piace a me». La prima cosa che colpisce del negozio sono le dimensioni, ben ottocento metri quadrati, in stile moderno, al secondo piano c’è l’officina in cui ci si occupa di sistemare le bici, i loro ingranaggi, e di restituirle come nuove, quaggiù, invece, un’autentica distesa di biciclette, circa duecento. Impattante, senza dubbi: «Le persone sono spesso abituate ai piccoli negozi, qui possono letteralmente perdersi fra le biciclette, da scegliere, da guardare, anche solo su cui fantasticare. Quel televisore è sempre acceso su qualche corsa: le persone si siedono al tavolo, bevono qualcosa, commentano. Qualcosa di simile a quello che avveniva a me, nelle mie estati siciliane».
Sinatra ci sta presentando la zona di accoglienza del cliente, quella dove si può guardare la tv, ma anche leggere un libro, una rivista o lavorare qualche istante al computer. Si fa un passo indietro, quando il negozio era appena stato aperto: «Era una nuova realtà, certamente il nome Trek ha aiutato, ma chiunque entrasse era nuovo qui e noi eravamo nuovi ai suoi occhi, non ci conosceva e non lo conoscevamo. Allora si inizia a parlare, a presentarsi, bisogna trovare un punto d’incontro e, nel nostro caso, il punto d’incontro è facile: la bici. Credo sia difficilmente descrivibile il potere che hanno quelle ruote, quel manubrio, la sella, l’insieme degli ingranaggi, l’epica che ha trasmesso ed il divertimento che lascia quotidianamente. Non è facile descriverlo perché va oltre e si traduce nella capacità che questo mezzo ha di far aprire le persone, talvolta di alleggerirle o di liberale da un peso che portano addosso». L’esperienza accomuna molti e Fabio Sinatra resta stupito ogni volta che ci riflette: «Il giro in bici non si fa solo con amici di lunga data, magari è un cliente, qualcuno che hai appena conosciuto: glielo proponi e ti dice di sì, spesso senza alcun dubbio: è uno degli inviti che le persone accettano senza chiedere nulla, se non la destinazione. Non finisce qui. Inizi a pedalare e parli di bicicletta, magari del meteo o del luogo in cui ci si fermerà per un panino ed una birra, passa qualche chilometro e ti ritrovi a confidarti. Qualcuno diceva che la bicicletta è amicizia, è vero».
Dentro e fuori, in negozio e sulle strade. Ora torniamo fra quelle duecento biciclette, precisamente alle mattine in cui Sinatra arriva qui e si mette a lavorare: «Potrei muovermi ad occhi chiusi qui dentro, conosco ogni angolo di questo posto. Sento l’odore delle ruote e dei copertoni, anche quando sono via, mi basta pensarci e quel profumo arriva, assieme all’orgoglio». L’eccellenza di Trek, di cui parla Sinatra, alla fine, è ricondotta alle cose semplici: la conoscenza di un luogo, il fare casa, il non essere solo un lavoro, «sebbene sia un lavoro e non avrei potuto chiedere di più: biciclette e persone assieme, conoscere le une attraverso le altre e viceversa». Si nota dallo sguardo che Fabio Sinatra rivolge ai clienti, non appena escono: «A me interessa che siano soddisfatti, e non parlo solo o tanto del prezzo, parlo piuttosto del sentirsi bene per la bici su cui pedalano, dell’essere felici di un problema risolto e tutti sappiamo cosa si prova quando la propria bici torna apposto». Quelle persone, in molti casi, erano sulle strade del Giro d’Italia 2023, quando il Giro ha fatto tappa a Bergamo.
«Conosco le vie della città, ma ti giuro che mi chiedevo come facessero a starci, come potessero essere così tante, in Città Alta quasi non si riusciva a passare. Un gruppo di amici ha fatto le salite di quella giornata, attraverso strade secondarie, per trovare i corridori, per guardarli ed incitarli, a voce alta, decisa, al mondo della gente di queste strade: gente testarda, tenace, dura ed attenta alle cose più importanti a cui dare rilevanza». A Fabio Sinatra piace questa dimensione del ciclismo: racconta dei tre professionisti di Avola e dei tanti atleti di Bergamo e dintorni, oltre a “Il Lombardia”, la gara di casa, in un certo senso. Ripensa a Marco Pantani, a Mario Cipollini, a Paolo Bettini, «a tanti campioni che basta averli visti una volta e non te li scordi più, nemmeno se ti allontani dal ciclismo».
Ed, in effetti, almeno per qualche anno, Sinatra, il ciclismo, lo ha seguito da casa, giocava a basket a livello agonistico, uno sport molto diverso, con, però, in comune l’elemento “persone”: «Senza gli altri, non vai da nessuna parte. Nel ciclismo, come nel basket, conta la squadra, in ogni sfaccettatura. Anche se non si è professionisti, ma si parte per un viaggio, anche se si è soli, contano le persone. Quelle che incontri, che saluti o che ti salutano, quelle con cui fai un tratto di strada. A Pasqua ho fatto un viaggio in bici verso Montpellier, partendo da Ventimiglia: era la prima volta, so che ce ne saranno molte altre. In primavera vorrei andare in Toscana, in mente ho anche i paesi del Nord, in cui la bicicletta è al centro della quotidianità». Da come ce lo racconta, siamo certi che di viaggi ne farà molti e anche molto presto, nel frattempo, ogni mattina, Sinatra torna in negozio, dove si orienta anche a luci spente, dove si siede per un caffè e ascolta le persone chiedere, raccontare, parlare di biciclette. Quel ragazzino, ad Avola, in un pomeriggio afoso d’estate, qualche anno fa, davanti ad una telecronaca del Tour de France, non l’avrebbe mai detto.
Ma davvero i fenomeni uccidono il piacere dell'incertezza?
Guardavo scendere Marco Odermatt dalla Gran Risa. Era lunedì mattina, era il 18 dicembre. Lo ammiravo mentre lui annichiliva gli avversari. Più lo osservavo e più nella mia testa si faceva spazio una domanda, mi chiedevo fino a quale punto si potesse ritenere spettacolare l’ennesima impresa di uno sciatore che a tutti gli effetti può ritenersi, già oggi, uno dei più grandi di sempre. Il più forte della sua generazione, senza ombra di dubbio.
Pensando a Marco Odermatt, al modo in cui vince e chiude la pratica in (quasi) ogni Slalom Gigante, soprattutto, mi è venuto istintivo il parallelismo con Tadej Pogačar, non fosse altro poi che, proprio qualche ora dopo la vittoria di Odermatt nel Gigante della Val Badia 2023, vittoria in entrambi gli slalom giganti, arrivava la notizia della partecipazione di Pogačar al Giro d’Italia 2024.
L’annuncio della sua presenza ha, prima di tutto, regalato entusiasmo ai tifosi, ma in generale a tutto il mondo che ruota attorno al ciclismo. A coloro i quali a dicembre possono consolarsi solo con il ciclocross o con le prime foto - e giri su strava - dai ritiri. La notizia ha aperto il dibattito, che, personalmente, si è sviluppato in maniera definitiva quando un amico e collega mi ha scritto in privato - mi perdonerà se riporto il suo messaggio, e mi perdonerà, almeno spero, se lo faccio più o meno fedelmente, al netto di qualche omissis:
“Pogačar è un bel colpo per il Giro. La mia paura è che venga, schianti tutti subito e il Giro diventi noioso. È già successo? Sì, non sarebbe la prima volta, ma che palle. Speriamo si inventi modi diversi di vincere, se no è veramente un corteo. Io spero di sbagliarmi, ma che Quintana, van Aert e Ciccone, faccio tre nomi a caso, lottino alla pari o anche poco sotto con lui non ci credo nemmeno se lo vedo e non lo dico perché è Pogačar eh, avrei detto uguale se fosse venuto Vingegaard. Pogačar, più un altro big, sarebbe uno spettacolo davvero; Pogačar e basta in questa mediocrità, secondo me, rischia di dar vita allo spettacolo più noioso degli ultimi anni. E tu dirai: ma Merckx è diventato Merckx perché dominava. Sì, infatti a volte doveva essere di una noia mortale.”
Lo trovo un punto di vista necessario, anche se diametralmente opposto al mio. Uno spunto di riflessione da cui partire.
Ma davvero “i grandi campioni ammazzano lo spettacolo”? Sono convinto valga un discorso opposto e non lo dico per il debole nei confronti del corridore sloveno. Il gesto tecnico o, nel caso di un corridore in salita o allo sprint, perlopiù il gesto atletico, agonistico, che i primi della classe sanno imprimere e di conseguenza riescono poi a trasmettere, restano unici. Sono quelli che fanno la differenza e ti fanno innamorare dello sport - a me basta pensare agli anni di formazione da appassionato di sport e tornando a sci e ciclismo, penso a Tomba e Pantani, è vero, due modi diversi di concepire vittorie e domini, quello di Tomba spesso arrivava dopo seconde manche in rimonta, la poetica pantanesca spinge verso tutto un altro tipo di significato. Restano comunque i gesti di atleti, di corridori sopra tutti gli altri. Gesti che catturano, che si infilano direttamente nella testa e restano vivi nella memoria.
Pogačar fa parte proprio di questa categoria: di quelli che trascinano un movimento, che fanno innamorare di uno sport, che fanno parlare di sé, travolgono. Di questi tempi sono pure parte di un meccanismo che sarei ipocrita se definissi deprecabile, per quanto possa essere moralmente discutibile: è una perfetta operazione di marketing. Nei giorni dell'annuncio e di Pogačar al Giro non si è parlato di altro nel mondo del ciclismo, mica male, eh? Altro che Tour con il suo tratto in sterrato, la partenza dall’Italia, il finale a Nizza oppure altro che Vuelta - presentata abbastanza in sordina un paio di giorni dopo, e un paio di giorni dopo si parlava ancora della presenza di Pogačar al Giro. E immagino anche cosa sarà sulle strade il coinvolgimento ancora più emotivo che ci sarà in attesa di veder passare Pogačar anche solo per una frazione di secondo. Ecco, quello per me, che ancora conservo qualche languido atteggiamento non privo di sentimentalismo, è spettacolo.
Importa davvero se Pogačar dovesse ammazzare il Giro il secondo giorno a Oropa? Anzi, tifo per lui, e per la ricerca della storica doppietta - vien da sé nuovamente il paragone Pogačar-Pantani, con il filo conduttore non solo della superiorità in salita, ma anche unito da un luogo, Oropa. Questo per me sarà spettacolo.
Lo scorso anno abbiamo assistito a un Giro noioso, corso col braccino da tutti i pretendenti alla maglia rosa finale, in attesa della penultima tappa. Eppure quei pretendenti erano vicini l’un l’altro. Dove stava lo spettacolo? Meglio quello visto lo scorso anno, giocato sul filo dell’incertezza, ma senza attacchi, senza verve, senza un vero e proprio slancio, senza che qualcuno spiccasse su un altro o un possibile dominio dal secondo all’ultimo giorno dello sloveno? Io non ho dubbi su cosa sceglierei. D’altra parte pure nel Giro 2023, dopo il ritiro di Evenepoel, è un po’ calato l’interesse. Perché, dominatori o meno, abbiamo bisogno di certi grandi nomi.
Del Giro di due anni fa ricordate di una sfida accesa tra i pretendenti alla maglia rosa finale? Ma quando mai. A parte Torino e gli ultimi due chilometri del Fedaia, calma piatta, ciò che resta più impressa è la presenza, ingombrante, di van der Poel, in fuga quasi tutti i giorni - persino nelle tappe di montagna. Lo spettacolo risponde ai nomi di van der Poel, di Pogačar (e al Giro 2024, per fortuna, anche quello di van Aert, mi sento di dire: grazie Vegni); lo spettacolo, concetto forse più soggettivo di quello che pensassi, lo trasmette quel gruppo di corridori che stanno facendo la storia di questo sport; e pazienza se ce ne sarà soltanto uno, forse due, ben venga lo sloveno al Giro, pur con il piglio del cannibale, ben venga a scrivere la storia di questo sport, passando per le strade italiane. Io mi accontento così. Anzi, che dico mi accontento, bramo già quelle tre settimane di Giro.