Non stare nella pelle
Nei giorni scorsi, i giornali locali scrivevano dell'arrivo delle mondine a Novara, negli anni cinquanta, per lavorare in risaia, mentre maggio volgeva al termine. Erano donne che partivano dall'Emilia, da Rio Saliceto, da Bibbiano o da San Polo d'Enza, si maritavano a Garbagna e in altri piccoli paesi della Bassa e lavoravano nei campi senza attrezzi agricoli, solo con le loro mani. Ne parlavano perché stamani, proprio da Novara, partiva la terza tappa del Giro d'Italia 2024 e quelle risaie, quelle del vercellese, sarebbero state per molti chilometri i vetri d'acqua in cui il gruppo allungato si rifletteva, in un labirinto di specchi a tratti riflettenti a tratti deformanti. Si arriva così ad una strada serpentesca e stretta che si arrampica, compressa tra muri, muretti, balconi, ringhiere e tettoie, sino a Lu, unico Gran Premio della Montagna di giornata. In quel frangente, dopo chilometri e chilometri di nulla, dal punto di vista agonistico si intende, provavano la fuga e la sorte Davide Ballerini e Liliane Calmejane e noi pensavamo che solo loro (e pochi altri) avrebbero potuto inventare qualcosa in una situazione così a mollo nella noia. Il primo con la sua stazza, la sua bellezza in bicicletta, quasi perfetto, il secondo "dinamitardo" di ogni situazione, corridore francese di carta d'identità e di spirito, d'anima. Del resto, Alfonso Gatto aveva ragione: a chiunque non sia capo di stato o di governo, generale o cardinale, non capiterà forse mai di ritrovarsi fra tanti uomini, donne e bambini a fare da ala ad un passaggio di pochi secondi, quasi un frammento di un film, quasi un inganno dal tanto è veloce. Non capita a nessuno, se non a chi non è temuto, ma solo invidiato perché così felice di correre dietro ad un sogno: i ciclisti. Verso Lu, quella gente, probabilmente anche per il vicolo che la ospitava, era davvero sempre più e spuntava in ogni dove, ovunque si volgesse lo sguardo. Anche Calmejane e Ballerini non se la sono sentita: hanno rallentato, fino a farsi riprendere.
Sì, pure chi vive la corsa come un cavallo pazzo ha giorni in cui non riesce a credere; talvolta per timore, altre solo perché, per quanto la si possa riempire di romanticismo, la fatica è inutile in certe circostanze. E la fatica di una giornata come oggi in fuga è davvero tanta: tra strade infinite e simili, solitudini e pensieri. Non solo fatica di gambe, anche di mente, di idee. Ma, in pomeriggi come questi, la follia diventa ordinaria e il sangue, da un momento all'altro, lascia la quiete stantia in cui circola ed inizia a zampillare, a saltare, a muoversi in mille peripezie. Dapprima l'improbabile, l'illogico: i velocisti che fuggono dal plotone in una giornata in cui proprio il gruppo è la casa, il fiume, con cui possono andare al traguardo e giocarsi la vittoria, in potenza e watt. Poi il gruppo che si sfalda, si sgrana, perde pezzi, sparso su lunghi viali, tra vento e qualche goccia di pioggia. Raschi sosteneva che il ciclismo fosse fatto per accettare solo coloro con lo stesso sangue: sì, altrimenti se ne esce pazzi, privi di comprensione in certi istanti. Tadej Pogačar ha lo stesso sangue del ciclismo, per questo si sente così a proprio agio su una bicicletta: è un genio, un altro cavallo pazzo, di razza, uno di quelli che «sentono l’ora del gran premio prima che arrivi, dalle vibrazioni del vento». Per questo fa la volata ad un traguardo volante, dietro a Ben Swift, davanti a Geraint Thomas. Il fatto che si continui a vederlo sulla testa del gruppo, pimpante, "allegro andante", potrebbe far presumere altri colpi di scena? Certo, soprattutto in una giornata in cui è già successo tutto ed il contrario di tutto. Risolviamo presto il dubbio con la constatazione che è buona regola correre davanti, per tutti e per la maglia rosa in particolare. Calmiamo in questo modo ogni pazza idea. Sbagliamo, ma dirlo ora è facile.
Avevamo parlato di un finale in cui si sarebbe potuto ballare, avevamo pensato ad un liscio, in quanto la strada, pur se in pendenza, non sarebbe stata un ostacolo per lo sviluppo della potenza di Jonathan Milan e degli altri velocisti.
Le immagini non mentono: è esattamente come sembrava. Non fosse che Mikkel Honoré accelera in testa al gruppo e a saltargli sulla ruota è lo sloveno, la maglia rosa: un lupo che ha affinato l'istinto e non può trattenersi. Non si accontenta di braccare il rivale, no, rilancia, in senso metaforico e anche fisico perché la forza dell'azione riprende vigore. All'ultimo chilometro, con qualche decina di metri sul treno dei velocisti, non c'è un giovane inesperto che non sa che il gruppo può divorare alla velocità in cui è lanciato, c'è Tadej Pogačar con alla ruota Geraint Thomas e la gente a bordo strada che impazzisce perché aspettava tutto, non questo, tra le vie di Fossano, dove i ragazzi vanno in bicicletta a scuola e qualche professore si prodiga affinché il numero delle biciclette cresca di anno in anno. Pogačar non sta nella pelle, questa è la realtà. Verrà ripreso e si alzerà sui pedali, accanto alla volata già innescata e vinta da Tim Merlier, su Jonathan Milan, per nemmeno molto. Merlier che tutti chiamano "il Mago", per la sua abilità, per la sua astuzia, per il suo talento. Non è magia, è ciclismo. Quella strana faccenda che risveglia la noia e la sconquassa, quando meno te lo aspetti.
Foto: SprintCyclingAgency
Sforzo d'immaginazione
Com’è andata l’abbiamo visto, lo avete letto negli altri due pezzi che aprono questa newsletter, ed è stato bellissimo. Immaginiamoci per un momento che Ben O’Connor sia riuscito nel suo disperato tentativo di seguire Pogačar: ci ha provato, ma come ha ammesso lui stesso a GCN dopo la tappa «quando navighi troppo vicino al sole, vieni punto» (questo modo di dire a metà tra il marinaresco e l’apistico sarà famoso in Australia, non saprei). Fatto sta che O’Connor si è definito «il corridore più scemo della corsa» per essere andato «molto oltre la mia capacità di lattato».
Ecco, facciamo finta che tutto questo non sia successo e che O’Connor sia riuscito a seguire Pogačar. Se il giorno prima abbiamo visto Jhonatan Narváez tenere la scia dello sloveno su un muretto nella collina torinese, non è impossibile immaginarselo là Ben O’Connor, con la sua andatura sgraziata ma efficace, quasi 190 centimetri di cristiano da Subiaco, cittadina dell’area metropolitana di Perth. Pesa solo 67 chili Ben O’Connor e anche per questo è un buon uomo da classifica generale: il suo miglior risultato è un quarto posto al Tour de France 2021, dieci minuti e due secondi dietro Tadej Pogačar.
A ogni accelerazione di Pogačar, O’Connor sembra potersi spezzare da un momento all’altro, ma – non si capisce come – l’australiano non molla. È tignoso, sta digrignando i denti storti, dà di spalle. Forse veramente da un momento all’altro cederà di schianto, e invece no. Mancano due chilometri e tiene duro. Pogačar si spazientisce: dammi un cambio che andiamo via entrambi, tu anche potresti guadagnarne, sembra dire con la mano. Si apre la maglia, sbuffa, è l’ombra di Pogačar. Quando lo sloveno si alza sui pedali anche Ben O’Connor lo fa, quando si siede anch’egli si siede. Forse a fine tappa, quando Pogi andrà in zona mista per le interviste, anche O’Connor andrà alle interviste. Gli chiederanno "O’Connor ma lei non ha mai vinto nulla?", lui risponderà che "magari è vero, ma oggi gli sono rimasto incollato come un francobollo".
Quando entrano negli ultimi 250 metri, col santuario di Oropa lì, O’Connor ha l’apice dei polmoni in fiamme. Le nuvole coprono il cupolone blu della basilica, l’ultima rampa sul ciottolato non è tale da impensierirlo. Vince la tappa e prende la maglia Pogačar, va bene, ma anche oggi non è riuscito a staccare nessuno. Anche oggi è sembrato umano.
No, occorre uno sforzo d’immaginazione troppo intenso per pensare a tutto questo.