In ogni modo
Maglietta lievemente slacciata all'altezza del petto, segno di un caldo che inizia a stringere, di una sofferenza lieve, sapore della pedalata, una danza sui pedali che rimanda alla montagna perché sono i suoi uomini ad arrampicarsi in questo modo, a prendere queste movenze, la bicicletta, dall'alto, ondeggia, alleggerita del peso dello scalatore che si libra nell'aria: è l'immagine di Romain Bardet che si infila in una fuga che non è solo una fuga, è la ricerca del tempo perduto, un viaggio che è un sentimento e non soltanto un fatto, ci avrebbe suggerito Mario Soldati. Nairo Quintana e Julian Alaphilippe a scalpitare insieme al francese e ad altri undici uomini, dopo che il filo dei fuggitivi si è spezzato e ricongiunto più volte. Potrebbe essere solo un'illusione, con il senno di poi lo sarà, ma Romain Bardet, per quel che trasmette nel suo viaggio, inteso come parabola, in sella, merita che si guardi in quell'illusione come in un caleidoscopio e che ci si creda. È l'intensità la chiave per interpretare l'atleta di Brioude: lui che scrive e parla di tracce da lasciare in quel che si fa, prima delle vittorie o dell'esaltazione del campione e per confortare, dopo un dispiacere, crede nei pensieri sinceri, limpidi.
Si dispiace per il ritiro di Thibaut Pinot, per il suo ciclismo. Pensa e legge molto, Bardet, poi scrive come chi ha lasciato maturare quei pensieri: non serve un pezzo, non un racconto, ovunque restino le parole. Guarda lassù, dove c'è la vetta, perché c'è il traguardo e perché «è sempre bello», vuole rompere confini, allargare le possibilità, contemplare, scappare: una sorta di dichiarazione d'intenti. Non gli è servito per vincere quell'atto di solitudine, ma gli è servito ed è servito a noi, mentre il plotone si addentrava nel verde di alberi «simili a cani che ringhiano al cielo» e tutti aspettavano un solo uomo: Tadej Pogačar, maglia rosa, come i pantaloncini, i guanti, il casco, persino la scritta sulla bicicletta.
Il Corno Grande del Gran Sasso in alto, in fondo. Tadej Pogačar a ruota della sua squadra, gli altri a ruota di Tadej Pogačar, in attesa della mossa del fenomeno. Non è facile aspettare e non è facile nemmeno scattare, scappare, perché "quello lì" è in grado di prendere la ruota e partire in contropiede, lasciando sul posto chiunque, ribaltando la situazione e per un ciclista è una delle cose peggiori essere staccati mentre si sta attaccando, la frustrazione quando, all'improvviso, la bicicletta dell'attaccato va troppo più veloce, le sue gambe sono troppo più agili, la frequenza di pedalata superiore per riuscire a mettersi in scia. Valentin Paret-Peintre è l'unico fuggitivo rimasto in testa, mentre questi pensieri si addensano nelle menti, mentre Aurelien, suo fratello, perde contatto con il gruppo: cognome evocativo il loro, a sensazione ricorda una parete dipinta, una parete e un pittore, qui le pietre ci sono, i costoni di roccia ci sono, a Pietracamela, si notano ancora le pitture rupestri del maestro Guido Montauti. Non c'è posto migliore per tentare la sorte per uno con un cognome simile.
L'andatura dell'UAE sbarra la strada ad altre acrobazie fra le lettere, la strada sale, gli occhi cercano lo sloveno. A rompere lo stallo, è Antonio Tiberi, per ben due volte; non va lontano e non potrebbe andarci, ma in tre settimane di gara contano i segnali e questi sono bei segnali, per gli altri, certo, ma anche per la propria convinzione. Contano i segnali come conta la memoria, quella dei muscoli e degli sforzi compiuti: ieri una buona cronometro, oggi lì con i migliori, non un brutto modo per andare verso Napoli e, poi, verso il giorno di riposo di lunedì. Non è certamente una salita impossibile, ma faticano tutti, mentre la maglia rosa pare «con la pipa in bocca», come si dice in questi casi, a ruota di Rafal Majka. Si sposta giusto quando partono gli scatti, Majka, ma resta nei dintorni, fra gli altri. Rimonta il gruppetto stringendo i denti, con il suo solito ghigno sulle pendenze, regala gli ultimi metri di servizio, di fedeltà, di gregariato.
Nessuno poteva fare niente prima, nessuno può fare niente quando Pogačar lancia la sua "volata", ustionante, bruciante, tanto da dargli il tempo per voltarsi ed esultare con sollievo mentre la linea bianca non è ancora arrivata. Un altro modo di vincere, un altro modo per vincere. Un enigma complicato per i suoi avversari, come affrontare la polivalenza, quel che è multiforme, che gioca con la fatica. Il ciuffo dal casco non è più solo uno, da tempo ormai, «la Majella ed il Gran Sasso continuano il loro dialogo» quassù a Prati di Tivo, la carovana, intanto, si dirige verso sud.
Foto: SprintCyclingAgency
La medicina più sicura
Un uomo evidentemente più saggio di me, Vasco Pratolini, nel 1955 decise di tornare al Giro d’Italia dopo diversi anni per prendersi una «vacanza di girino». Era inviato per un paio di giornali dell’epoca, scriveva gran bei pezzi di colore, niente più. Un lavoro da sogno, potremmo pensare oggi. Pratolini vedeva la sua partecipazione al Giro come una sorta di liberazione: «Da sei mesi, fino all’altro ieri, sono stato in cura. Avevo dei disturbi, leggeri ma noiosi, soprattutto perché non si capiva di che si trattava. [...] La diagnosi è balzata davanti agli occhi con l'evidenza delle cose di natura. Ero ammalato di sedia e di scrittoio. Andar dietro al Giro è la medicina più sicura. Già al solo pensiero, mi è passato come d’incanto il mal di capo. Non sono un veterano del Giro, ma nemmeno una recluta, mi considero diciamo un richiamato».
Ma il Pratolini del ’55 non è più l’ingenuo osservatore di otto anni prima, quando partecipò al suo primo Giro. «Ero io ragazzo quando mi presentai alla punzonatura» scriveva all’epoca, ma uno scrittore ultra-quarantenne che ricorda come sia coetaneo di certi vecchi campioni e vuole rivivere «la baldanza di quando eravamo ragazzi». Dopo tanti anni e/o tanti Giri d’Italia, insomma, ci si fa l’abitudine.
Ecco, similmente a Pratolini la mia medicina si trova durante il Giro d’Italia, ma non è il Giro d’Italia: si tratta dello scoprire posti, zone, salite e discese, piccoli pezzi di mondo insomma, in sella alla bici mia. Al mattino presto, alle volte prestissimo, quando i corridori ancora si stanno svegliando e pochissimi degli addetti ai lavori hanno la mia stessa patologia (tra questi lo scrittore e podcaster Daniel Friebe, correndo, e un meccanico della DSM), inforco la bici e vado in giro. Spesso a caso, ieri no. Ieri ho voluto percorrere prima dei corridori il finale della crono, da Ponte San Giovanni al centro di Perugia, per capire in anticipo e meglio cosa avrebbe atteso i corridori.
Se ne vedono molte, di cose, passando sul percorso di gara prima dei corridori. Già appostata a bordo strada c’è la fotografa Simona, c’è qualcuno che scrive il nome dei corridori sull’asfalto, ci sono coppie di tifosi che a malapena sanno cos’è il ciclismo. Di sicuro non lo sa un anziano che, appena entrato a Perugia città, mi chiede se sono un corridore del Giro. Però ecco, questa è la mia medicina: vedere una città rosa per ore, attesa trepidante per il passaggio dei corridori, rispondere al saluto di pazzi furiosi che incoraggiano un amatore qualsiasi come se fosse Van der Poel, farsi passare un bicchiere di vino sul tratto più duro di salita.
E poi tornare in fretta a fare la doccia, recuperare le cose, andare verso la sala stampa. Nel mentre, qualcuno ti ferma chiedendo: «Scusi, lei sa quand’è che passa il Giro?». È la risposta a questa domanda, «a breve», la mia medicina più sicura.