Spazzare via la noia

Il ciclismo, magari a differenza di altri sport o di altre situazioni, conosce la noia. Non solo la conosce, nel senso che, in taluni giorni, può viverla, ma permette di studiarla, di addentrarvisi, per scavarla, scrutarla. Questo per un motivo tanto semplice quanto profondo: il ciclismo segue il ritmo degli uomini, la bicicletta non ha altro modo di funzionare, se non attraverso le gambe degli esseri umani. Una corsa, qualunque corsa, percorre un "viaggio" da un punto ad un altro e, comunque vada, qualunque cosa accada, lo fa solo sulla spinta di muscoli umani. I tempi degli uomini sono anche tempi lenti (tra virgolette perché la tappa odierna tutto è stata tranne che una tappa corsa a ritmo blando), tempi in cui nulla accade, tempi in cui, perché qualcosa cambi, devono trascorrere molti minuti, talvolta molte ore.

Nella quotidianità, quell'attesa si cerca di ingannarla, con quel che velocizza, con la tecnologia, con la diversificazione più svariata, pur nella routine. In bicicletta, un ciclista non ha questa possibilità, può scattare, alzarsi sui pedali, cambiare posizione, parlare con un compagno, ma nulla più. Allora anche chi osserva deve imparare a fare i conti con la noia, che altro non è se non un pretesto per fare altre cose, mentre la tappa è in corso. Le voci dei telecronisti restano in sottofondo, le immagini sullo sfondo. Ricordiamo quando da ragazzi, da bambini magari, lo spazio della noia era lo spazio dedicato ai compiti di scuola per il giorno seguente, per, poi, poter tornare ad alzare il volume, in vista del traguardo. Risentiamo le voci di una radio, in una vecchia officina, nel rumore e la manopola del volume ruotata, verso le cinque del pomeriggio, l'orario dell'arrivo. Qualche libro di lettura preso in mano e richiuso nel momento in cui uno sguardo veloce al televisore coglieva una frenesia improvvisa in gruppo. Qualche sbadiglio? In certe giornate può succedere, non è un male. La noia lontana dal gruppo, quando nulla cambia per chilometri e chilometri, è questa.

In gruppo, invece, i giorni "piatti" hanno un altro volto. Soprattutto oggi, probabilmente. Da giorni si parla di un virus che ha già costretto al ritiro alcuni atleti, l'ultimo è stato Cian Uijtdebroeks, che non è partito proprio stamani. Le tappe simili a quella da Foiano di Val Fortore a Francavilla al Mare sono le frazioni dei pensieri di chi non sta bene e di chi, invece, pur stando bene inizia a domandarsi se fra qualche giorno il malessere possa toccare anche a lui. Il dubbio, l'incertezza: il pane quotidiano di ogni corridore. Sono persone che costruiscono "lentamente", gli atleti, sempre per lo stesso motivo, perché "lavorano" con il proprio corpo, allenano il proprio corpo e non c'è altro modo se non "il tempo che ci vuole". Sono allo stesso tempo, però, persone che possono distruggere velocemente, in frazioni di secondi: le cadute. Chi sta male, in fondo, "a fare l'elastico", per 207 chilometri, non conosce la noia, perché la noia è una sorta di vuoto da riempire, il dolore, invece, è già pieno di cose. Pensiamo a Martin Marcellusi e a Giulio Pellizzari che, per motivi diversi, hanno patito in coda al gruppo: ad ogni accelerazione, ad ogni rilancio. Sono arrivati, sì, sono 207 chilometri in meno: si conta così, quando non si sta bene. I giorni piatti, i giorni della noia, sono anche i giorni delle fughe più irrazionali: Thomas Champion, cognome pieno di epica per chi pedala, Edoardo Affini e Tim van Dijke, i fuggiaschi di oggi. Il loro segreto è cogliere l'istante e lo colgono anche in giornate in cui pare impossibile, proprio perché sanno quanto un ciclista sia in bilico, quanto la tappa del giorno dopo potrebbe non esserci. Qualche città racconta lo stesso segreto: Buca, sommersa dalle acque e svanita nel nulla.

Poi arriva la volata, la noia pare lontana anni luce. I secondi in cui si ferma il mondo di chi osserva, e trema, vibra, viene scosso l'universo dei ciclisti. Tanti anni fa si girava la manopola di una vecchia radio alzando il volume, si faceva lo stesso con la televisione, oggi magari è un cellulare, talvolta un computer, ma sono dettagli. Arriva la volata e quello scalpitare di biciclette lanciate a tutta velocità in certi momenti spaventa anche chi osserva; pare non ci siano spazi, non ci sia aria sufficiente, pur essendo all'aperto, sembra che, da un attimo all'altro, qualcuno debba sbandare e cadere. Anche di cadute e sbandate sono fatte le volate: abbiamo rivisto dall'alto quella che ha coinvolto Jakobsen e Mihkels, fa effetto, come sempre. Fa sobbalzare. La noia è spazzata via dalla volata, certo e, soprattutto, dal suo vincitore, Jonathan Milan che, durante la tappa, aveva pensato alla responsabilità del lavoro di tutta la sua squadra in un giorno così, a quanto questa vittoria ci volesse. Se l'è presa, scatenato nella velocità di uno sprint. Ora la radio e la televisione sono un insieme di voci che commentano e di suoni che si intuiscono dal lungomare di Francavilla e, guardando dentro la noia dell'inizio, forse, qualche bambino appassionato di ciclismo sarà cresciuto ancora un poco.

Foto: SprintCyclingAgency


Ultimo uomo: intervista a Max Walscheid

Uno dei corridori più alti e pesanti del gruppo, Max Walscheid, del Team Jayco AlUla, è uno di quelli che non appaiono con costanza nelle top-10. A Prati di Tivo, Napoli e Bocca della Selva è arrivato sempre tra la 135a e la 140a posizione. A stamattina ha accumulato un ritardo di quasi due ore e mezza dalla maglia rosa di Tadej Pogačar. Walscheid, però, è l’ultimo uomo di Caleb Ewan e in questa intervista ci parla di volate, di lauree, di problemi coi letti e di tanto altro.

Buongiorno Max, o dovrei chiamarti Dottor Walscheid?

Sicuramente Max.

Quanti esami ti mancano alla laurea?

Un po’ meno di un anno per finire l’università, poi dovrò svolgere un anno di tirocinio.

Stai studiando medicina, giusto?

Corretto. Beh, a dire il vero per il 99% del mio tempo sono un ciclista professionista, ma cerco di trovare un po’ di spazio anche per gli studi.

Dove studi?

Ad Heidelberg, l’università più antica di Germania!

Il tuo prossimo esame qual è e quando sarà?

Eh, bella domanda! Non lo so ancora, al momento non mi sono iscritto a nessun esame. Durante l’estate penserò a cosa fare a ottobre, novembre.

Stai pensando a una specializzazione?

No, non per il momento. Avrebbe senso fare qualcosa collegata allo sport, perché sarei affidabile come medico dello sport essendo stato un atleta professionista. Per un atleta è importante che il medico capisca bene la sua professione. Considera ad esempio la riabilitazione dopo un infortunio: l’atleta non deve tornare in ufficio, ma a competere a livello professionistico. Se come dottore comprendi tutto questo, è un grande vantaggio.

C’è qualcosa sul tuo corpo che hai imparato studiando anatomia?

No (ride). Non mi sovviene nulla di particolare… diciamo che mi sarebbe piaciuto essere un ciclista più piccolo, più basso; mi avrebbe reso la vita più semplice, ma a parte questo no.

Com’è la vita da corridore più alto del Giro, con i tuoi 199 centimetri di altezza? So che hai spesso problemi con i letti.

Al primo albergo in cui siamo stati ho dovuto cambiare camera, perché dei due letti che c’erano, uno era un divano letto. E un divano letto non va affatto bene per le mie dimensioni, quindi mi hanno dato un’altra stanza. Ma, a parte questo caso, cerco di adattarmi. Inoltre la squadra si porta dietro materassi e cuscini per ciascuno, cercano di renderci la vita più comoda possibile.

In gioventù non hai mai pensato a fare altri sport, più adatti alla tua stazza, come pallavolo o pallacanestro?

Sì, ho cominciato con l’atletica, poi sono passato al decathlon, e a 16 anni ho cominciato con il ciclismo. Probabilmente uno sport come il canottaggio sarebbe stato più adatto a me, ma non mi ci sono mai dedicato. La verità è che amo il ciclismo.

Non ti sei mai pentito di questa scelta, quindi.

No, assolutamente no. Questo è di gran lunga lo sport più bello che ci sia.

A quanto pare, con 90 chili sei anche il corridore più pesante.

A inizio carriera avevo qualche problema nello stare nel tempo massimo o nel trovare il gruppetto, ma oggi va molto meglio. Incrociamo le dita, ma adesso mi capita meno spesso di avere giornate no.

Al Giro hai un ruolo importante, come ultimo uomo del treno di Caleb Ewan, che è uno dei velocisti più minuti. Siete una coppia assortita in modo particolare, sia dal punto di vista fisico che da quello caratteriale.

Penso che la cosa più importante nella nostra relazione sia la fiducia reciproca. Ovviamente, è un aspetto sempre necessario tra un velocista e i suoi apripista, ma tra noi due è ancora più importante perché Caleb dietro di me non riesce a vedere granché. Prima della nostra prima volata insieme, al Giro dell’Oman, mi ha specificamente detto che devo tenere gli occhi due passi più avanti rispetto a dove guarderei se stessi facendo la volata per me, perché se c’è un imprevisto che lo costringe a rallentare, lui non può vederlo, la sua faccia è praticamente attaccata al mio sedere. Significa che devo avere una vista panoramica… Adesso credo che abbia compreso che può fidarsi di me, quindi direi che tra noi va tutto bene.


Una giornata da ricordare

Dove resta il ricordo di un ciclista? Fra delle lastre di roccia, in un pomeriggio invernale del 1980, Giovanni Todesco e sua moglie, pur se ancora non ne avevano contezza, poterono toccare il luogo in cui resta la memoria di ere passate, più di cento milioni di anni fa: nella pietra di Pietraroja. Si trattava di un piccolo dinosauro carnivoro, sdraiato sul lato sinistro, con il capo leggermente inclinato, il suo nome scientifico è Scipionyx Samniticus, ma per tutti è semplicemente "Ciro". A Pompei, sede di partenza della decima tappa, l'eruzione del Vesuvio del 79 d.C., ha bloccato un istante: strade, abitanti, oggetti della quotidianità. La paura è rimasta bloccata, cristallizzata, così il ricordo, l'ultimo istante. Il Giro d'Italia è una città che cambia, che si costruisce e si cancella nell'arco di poche ore: mezzi, transenne, persone. Tutto che arriva, poi passa. Le città sono città diverse immerse nel Giro. Già, ma quando tutto torna alla normalità, in che angolo delle persone è il ricordo di quel passaggio delle biciclette che non segnano le pietre, che non fermano il tempo? Nelle fotografie, certo, ma oltre, oltre uno scatto, dov'è?

Il ricordo di un ciclista è in una borraccia, che segna il ricordo forse più di qualunque altro oggetto legato alla bicicletta. Oggetto fondamentale, oggetto del bisogno, perché cura la sete, perché contiene acqua e un ciclista è fatto anche di acqua, come tutti noi, ancora di più, forse. La borraccia che Alaphilippe, ad un certo punto, rallenta e quasi deposita, appoggia, ai piedi di una sedia bianca, di plastica, dove è seduta una signora con i capelli bianchi. La raccoglie. Il tempo che passa allunga i ricordi, come la sera allunga le sagome dei camminatori nei prati, sui monti. Sere diverse, comunque sere. Per questo tutti raccolgono le borracce, sono un segno tangibile per tenere stretti i ricordi quando si sbiadiscono. Lì c'è senza dubbio la memoria di un ciclista. Alaphilippe, poi, si staccherà dalla fuga di giornata, dopo averla cercata e voluta un'altra volta: è accanto alla macchina del medico, sembra svuotato. In un giorno sbagliato.

Il ricordo di un ciclista può essere in un cartello, al Giro è spesso nei cartelli oppure nelle scritte a terra. Gino Mäder, adesso, è anche in quell'inchiostro, ora che non è più in sella, dove tre anni fa vinse, giusto al Giro d'Italia. Gino Mäder aveva qualcosa di Palomar che sentiva il dovere di guardare le stelle per non sprecare il fatto che ce ne fossero così tante, lo svizzero sentiva il dovere di ricordarsi di abitare sotto un cielo di stelle, in un pianeta di natura rigogliosa. Perché? Perché è bello. Forse ci avrebbe risposto così, come ci aveva detto raccontando delle sue vittorie. Anche in una penna o in un pennarello c'è il ricordo dei ciclisti, pure in un pennello. Se si osserva Alessandro De Marchi mentre attacca non si hanno dubbi: il ricordo di un ciclista è nelle origini delle cose. La bicicletta, la solitudine, la rabbia, la gioia, il dolore. Di Damiano Caruso si potrebbe dire lo stesso: con le bende addosso, con le ferite ancora non cicatrizzate, all'attacco e di nuovo in gruppo a tirare, a fare il suo dovere.

Il ricordo di un ciclista è nelle partenze. Gianni Mura ironizzava: "Solo chi ama le pantofole dice che partire è un poco morire. Non partire, quello sì, è un poco morire". E aveva ragione. Filosofia di ogni ciclista, ogni mattina, ogni volta in cui è a terra ed in ogni istante in cui deve accelerare e non ce la fa. Pensiamo a Jan Tratnik che era riuscito a partire, in fuga e ancora in fuga, almeno fino a quando Valentin Paret-Peintre non scandisce il suo ritmo da scalatore: stacca Romain Bardet, raggiunge Tratnik e lo lascia lì, ripartendo, da solo. Qualche secondo dopo, anche Bardet raggiungerà e staccherà il corridore sloveno. Si spegne la luce, non si riparte, non si risponde, non si resiste: finisce anche se non finisce. Il ricordo di un ciclista è nel continuare. A pedalare, come fa Bardet che, a Torino, vedeva con fatica la coda del gruppo, oggi vede a pochi metri il vincitore di tappa: vorrebbe prenderlo, non ci riesce, ma come sono cambiate le cose. Anche il cambiamento è ricordo di un ciclista: accettarlo, sopportarlo, non odiarsi troppo perché non si è più quelli di una volta.

Infine, ma non per ultimo, il ricordo di un ciclista è nelle prime volte, perché la bicicletta è una prima volta: dell'equilibrio, della scelta, della lontananza da casa, di una velocità scelta solo dalla propria forza, dalla propria volontà. Perchè per Valentin Paret-Peintre è la prima vola, al Giro e fra i professionisti, a Bocca della Selva, che pare davvero una bocca, di faggi, di verde. Si vede che è la prima volta: da come va a zig zag sul traguardo, mentre alza le mani, chiede applausi e ride con il pianto in gola. Si vede che è la prima volta perché non sa più dove cercare conferme, perso in un mondo suo, in un pensiero che solo lui conosce fino in fondo, mentre i massaggiatori gli scuotono le spalle, quasi a svegliarlo, a destarlo. Sì, il ricordo di un ciclista è in tutti questi momenti e, poi, o forse ancor prima, in quello che suscita quando transita accanto per pochi secondi o mentre una telecamera lo segue, perché il ricordo di un ciclista è in quel che prova e che fa provare. Prima di tutto il resto. E quelle sensazioni sono come le pietre: restano più o meno simili in milioni di anni.

Foto: SprintCyclingAgency