Vesuvio Gravel: corsa dei sogni
«Il Vesuvio è una condizione della gente di Napoli. Anche magia, anche una sfida sportiva, se vogliamo, ma prima di tutto una condizione delle persone di questa città: svegliarsi la mattina e vedere questo vulcano, imponente, attivo, conoscendone la potenza, pur se quieto al momento, trasmette quella irrequietezza positiva piena di volontà di vivere ogni secondo al massimo che è, alla fine, il modus di esistere che c'è a Napoli»: in fondo, potrebbe essere tutto qui, in queste poche parole che Luca Simeone, presidente dell'Associazione "Napoli Pedala" e tra gli ideatori di Vesuvio Gravel, ci dice per esprimere l'importanza del Vesuvio nel nome di questa vera e propria festa danzante sui pedali che, il primo giugno scorso, ha raccolto cinquanta ciclisti, per "dividere" il Vesuvio, ovvero attraversarlo, salendo da un versante e sbucando dall'altro. Lassù, laddove il panorama cambia ogni mese, non solo ogni stagione, per questo qui dicono che sul Vesuvio bisognerebbe salire almeno una volta al mese ed i cambiamenti notati, di volta in volta, sarebbero innumerevoli, lassù, laddove nell'estate del 2017 e del 2018 divampava la stagione degli incendi ed il fuoco e le fiamme distruggevano ettari ed ettari di pineta, con segni e ferite ben evidenti ancora oggi. Da quel brutto ricordo è nata Vesuvio Gravel, un brutto momento che prova a guarire nella gioia di una condivisione collettiva.
Il primo giugno, quasi fosse un regalo, tutte le fattispecie climatiche si sono addensate sulle ginestre che disegnano macchie gialle e, forti, resistono alle variazioni della temperatura: freddo, caldo, vento e afa stagnante, «mancavano solo neve e grandine e la rigidità degli inverni più cattivi». La salita, lungo la strada Matrona, dal versante di Trecase fino a Largo Legalità, alterna strade di sanpietrini a quelle di sabbia e sabbione, per, poi, gettarsi su una discesa in cui sembra di "surfare" sulla ghiaia nera, interrotta dal rosa dei fiori, nelle narici il profumo di terra bagnata, contrasta con il verde della pineta dove il pino torna a regnare, nelle orecchie un concerto di uccelli, su tutti il canto dell'Upupa dal corpo marrone e nero, la natura è protagonista assoluta, mentre le gocce di sudore calano dalla fronte e l'odore di sale si mescola alla sensazione di fatica. «La Vesuvio Gravel- narra Luca Simeone- è scattata dalla parte occodentale di Napoli, quella dei Campi Flegrei, ora nota per i recenti fenomeni di bradisismo, da quella zona Plinio vide i primi nuvoloni neri durante l'eruzione del Vesuvio e mobilitò i soccorsi. Anche noi, ogni tanto, guardiamo quella zona e, proprio in corrispondenza del Vesuvio, vediamo delle nuvole che si ammassano sul vulcano: per fortuna sono solo nubi, ma il pensiero corre a quei tempi».
Lungo i 108 chilometri del percorso, si comprende sempre più come il gravel sia la modalità migliore per avventurarsi in questi luoghi, perché non è solo corsa e velocità e non è solo esplorazione e conoscenza del viaggio lento, bensì entrambi i fattori messi insieme, nonostante, Simeone lo precisa più volte, la bicicletta è, in fondo, una sola, ed un ciclista è un ciclista a prescindere dal mezzo su cui pedali, anche per questo qualcuno ha scalato il Vesuvio con una bicicletta vintage. «Si è generato un forte entusiasmo collettivo che ha diffuso il senso della scoperta tra tutti noi: le persone di Napoli erano contagiate dalla stessa meraviglia dei calabresi o dei romani, pur conoscendo già bene il posto: un arricchimento che passava di mano in mano, di sguardo in sguardo». Talvolta questa felicità deriva solo dal recupero di un pezzetto di terra, di un monumento, magari del Castello Mediceo di Ottaviano che, dopo anni, è tornato ad appartenere alla comunità, ad essere bene comune. Nel frattempo, il resto era tutto fatto dall'inizio di giugno: dal profumo di pomodori all'avvicinarsi dell'estate in terra vesuviana, dagli orti e dalla varietà di frutta e verdura pronta a maturare ed il tempo pareva una variante inutile, tanto si stava bene.
Il prossimo anno, Vesuvio Gravel diverrà un trail da percorrere in bikepacking, 350 chilometri in tre giorni: le persone già lo sanno e la dimensione del futuro è un sogno che inizia a respirarsi nell'aria: «Altrove sognare è un piacere, talvolta un lusso, a Napoli si sogna per necessità. Sono talmente tante le cose che non vanno, quelle da aggiustare e da sistemare che è obbligatorio provare ad immaginarle in maniera differente per modificarle. Spesso parte tutto da un gruppo di amici che si ritrovano, mettono assieme le loro idee e partono, può valere per l'imprenditoria o per un viaggio». Nel caso di Luca Simeone e di "Napoli Pedala", l'idea è quella di cambiare Napoli attraverso la bicicletta, con eventi in bicicletta di ogni tipo, soprattutto con una chiara propensione al racconto della realtà, quella che la fatica permette di vedere meglio: «Mi piace dire che le nostre sono pedalate d'inchiesta, dai quartieri popolari a quelli maggiormente aristocratici, osservando attentamente come sono e come cambiano, senza cancellare nulla, senza la rappresentazione da cartolina che spesso viene fatta: i Quartieri Spagnoli ad esempio. Un tempo, la domenica si sentiva il profumo di ragù, ora il profumo di curry, dato da diverse comunità di indiani che vi si sono stabilite in questi anni. Loro usano la bicicletta, loro acquistano biciclette, loro ci insegnano come usarla, come vivere la città in bici. Possiamo e dobbiamo imparare da loro».
E, a proposito di sogni, viene spontaneo parlare di Ciro Poppella, di quella sua bottega di dieci metri, all'inizio, dove già creava dolci, al rione Sanità mentre fuori avvenivano anche sparatorie: alcuni giornalisti chiesero a Poppella come si faceva a trovare la forza ed il coraggio di continuare. Lui disse che si focalizzava sul buono, sugli aspetti positivi e che, chissà, forse un domani avrebbe nevicato al rione Sanità. Da quel sogno nacquero i "Fiocchi di neve", un dolce che ora tutti conoscono, per cui tutti vanno matti. Questo non spiega tutto, ma molto sì.
Fede Bike Service, Alessandria
Nei pensieri di Federico Pezzano, in quei giorni, non c'era nulla di tutto ciò che, nella descrizione di questo primo pomeriggio di primavera ad Alessandria, tra via Teresa Michel e via Gaetano Donizetti, pare esistere da sempre: il modo di scherzare e di prendere in giro l'essere umano che hanno i ricordi, quando si intrecciano con il fluire del tempo. Pezzano, nel periodo giovanile, aveva intrapreso il mestiere di orafo incassatore, un lavoro particolarmente sviluppato nella sua zona: in un laboratorio, inseriva e fissava pietre preziose di varie tipologie in cavità apposite, predisposte, denominate "castoni", realizzate sulla struttura di un gioiello. Nei momenti liberi, approfondiva, in maniera minuziosa, tutto quel che riguardava i motori e, sin dai diciotto, diciannove anni, seguiva e praticava l'arte marziale del Taekwondo, le biciclette erano altrove. Forse, proprio in una piccola cantina della Lomellina, a cinquanta chilometri dal paese natale di Pezzano, nei dintorni di Pavia, non lontano dalla maestosa Piazza Ducale e dalla Torre del Bramante di Vigevano o dal borgo di Lomello, dove il padre di una ragazza, che ancora non conosceva, faceva il fabbro. Quel signore, anni prima, era stato un ciclista amatore di ottimo livello, con buone qualità, ben noto in zona. Quella ragazza, invece, di lì a poco, l'avrebbe incontrato, sarebbe diventata dapprima la sua fidanzata e successivamente sua moglie. Così pure lui, in quella cantina, era entrato: aveva visto i lavori del suocero e anche la bicicletta di quando era nel plotone dei professionisti. Un giorno, quando le cose si erano fatte serie, prendendolo da parte, quell'uomo si era rivolto a Federico, tra il serio ed il faceto: «Sembra che presto anche tu farai parte di questa casa. Devo dirti una cosa: quando ti metti a pedalare seriamente, ragazzo mio? A casa nostra non si può non aver confidenza con la bicicletta, non è proprio permesso. Sia chiaro». Non c'erano molte alternative: bisognava pedalare.
«La prima bicicletta con cui mi misi alla prova fu proprio la sua. Pensa che lui è sempre stato un uomo abbastanza minuto, non altissimo di statura, personalmente supero il metro e ottanta: per me era quasi una "biciclettina", eppure iniziai proprio così. Mi innamorai, come mi ero innamorato di sua figlia, e la scintilla scoppiò da quella piccola bicicletta». La curiosità ha varie possibilità di applicazione: Federico inizia ad applicarla alle biciclette, nello stesso modo in cui la applicava ai motori, con la medesima passione. Nel fine settimana, gareggia con amici, non solo, è anche il meccanico al seguito delle loro corse: mani sporche di olio e studi ed idee per risolvere le problematiche, prima del via, casco, pantaloncini, guantini e "garùn", come avrebbe detto Alfredo Binda, ovvero gambe, all'abbassarsi della bandierina e al via della contesa. Nel frattempo, a casa sua, aveva preso forma una piccola officina, in cui si cimentava nei primi lavoretti, con tanto di divanetto a rendere l'ambiente ospitale. Non mancava proprio nulla: un lavoro solido e un mezzo, un insieme di viti, bulloni ed ingranaggi, che gli aveva aperto un mondo in cui rifugiarsi a fine giornata. L'equilibrio si rompe proprio in quell'istante, circa sedici anni fa, per volontà di Federico, che si licenzia dall'incarico di orafo incassatore e ricomincia tutto dall'inizio. «C'era un'officina storica di biciclette, ad Alessandria, anch'essa gestita da padre e figlio. Il padre anziano si avvicinava alla pensione ed il figlio mi chiese di proseguire con lui la storia già iniziata: accettai e trascorsi dieci anni fra quelle mura, finché non iniziai ad avvertire una sensazione di malessere, quel posto iniziava a starmi stretto: volevo qualcosa che fosse pienamente mio, sviluppato e costruito attorno a ciò che immaginavo e in cui credevo». Sono sempre varie le ragioni dietro la percezione di "peso" che innesca il meccanismo del cambiamento, pur rischioso: alcune più evidenti, altre celate in dettagli che si vorrebbero differenti. «Ho in mente il bancone su cui facevamo le riparazioni: c'era disordine, attrezzi sporchi e logorati dal tanto uso. Avevo in mente un bancone in cui tutto fosse esposto, perfettamente pulito, ordinato: segno di trasparenza e professionalità. Come quando si entra nell'officina di un fabbro e lo si sceglie anche perché si nota l'attenzione con cui "cura" gli attrezzi del mestiere. Avevo in mente un'attività che fornisse un servizio: parola importante, da spiegare e da portare in una professione».
Federico Pezzano, da solo, metterà le basi di quello che, da lì a breve, sarà Fede Bike Service, nonostante le difficoltà e i dubbi dei primi periodi: «Io ho continuato, nonostante la pandemia che sarebbe emersa di lì a poco, e, da quel giorno, non conto le mattine che ho aspettato felice perché "sarei andato a fare il mio lavoro». Non è cosa da poco". Il fascino per la bicicletta è multiforme, ma l'espressione massima, almeno per Federico Pezzano, è nel meccanismo della ruota, più precisamente nel centrare la ruota: «Credo che il centro di questa "attrazione" sia legata al fatto che la ruota sia l'ultimo contatto della bicicletta con il terreno: un legame finissimo che, però, permette alla bici di sviluppare il suo movimento e la sua velocità. Un fatto che ho sempre osservato con grande attenzione». Allora si può iniziare ad indagare il concetto di servizio, ponendo, in primis, una distinzione tra mettersi al servizio e offrire un servizio: «Il primo concetto si ricollega a quel che prova a fare chiunque si relazioni con il pubblico. Il secondo concetto, quello di cui parlo io, si sostanzia in molte fattispecie differenti: ciò che fa la classica officina, la regolazione del cambio o il cambio delle pastiglie dei freni, ad esempio, e ciò che fa chi si occupa della messa in sella, ma non ci si può fermare qui. Offrire un servizio significa anche rendersi disponibili all'ascolto delle domande e dei dubbi, a prescindere dal fatto che il cliente scelga di far eseguire a noi il lavoro o meno, cercare di trovare una soluzione di fronte a qualunque problema si ponga». La scena più comune, da Fede Bike Service, infatti, è spesso quella di due persone sedute davanti ad un computer per minuti e minuti: l'acquisto avverrà, magari, online, in quell'ambiente, reso familiare anche dal tanto legno presente nell'arredamento, si apre un dialogo fitto, di domande e risposte, talvolta di interrogativi che restano sospesi nell'aria e permettono a Federico di crescere, di aggiungere ulteriore conoscenza alla propria professionalità. Intanto il concetto di bicicletta sta cambiando, gli esempi sono molteplici, quello più vicino a Pezzano viene da "Monferrando", un evento gravel che proprio Federico organizza: «La fatica sfocia in una festa bellissima, dove si trova il gusto di un panino gourmet, un bicchiere di vino, un dolce, la musica, la compagnia e anche una gara conclusiva: non sui pedali, ma cimentandosi nel cambio di una camera d'aria. Le persone, ormai, cercano questa cosa qui». L'attenzione al dato umano è certamente una prerogativa dell'approccio di Pezzano.
«Fare un buon lavoro, se possibile un ottimo lavoro, è importantissimo. Tuttavia anche il lavoro migliore se eseguito senza comprensione della persona con cui ci si relaziona è un passo fatto a metà, sbilenco, mancante di qualcosa. Donne e uomini possono passare sopra l'imperfezione, non passeranno mai sopra al non interesse, alla non empatia. Il motivo per cui riaprono quella porta è questo prima di ogni altro». Nell'ambiente si dice che Federico Pezzano riesca, spesso, a risolvere problemi di fronte a cui altri si fermano, lui ironizza, poi torna serio e aggiunge un altro punto alla lettura del proprio mestiere: «Non mi sento più bravo di nessuno, anzi, penso che il modo migliore di fare questo lavoro sia mettersi alla pari, di chiunque, dei clienti, come dei colleghi, perché solo così si impara e posso assicurare che almeno qualcosa si impara da tutti. I problemi che risolvo? Resto sveglio la notte a pensare fino a che non trovo la soluzione, come accadde tempo fa con un amico a cui smontai tutta la bicicletta la sera prima di un evento. Confesso che gli avevo già cercato una bici di scorta, per il timore di non riuscire a farcela». Del resto, Alessandria vive ancora la leggenda del "Campionissimo", di Fausto Coppi, l'idea della bicicletta sia come mezzo di locomozione che come mezzo sportivo è ben chiara nelle persone, altrettanto si può dire per la cultura della bici, quello che, forse, ancora manca, spiega Pezzano, è la comprensione del fatto che la bicicletta va oltre a questo: basti pensare a quanto fa bene alla nostra salute, alle endorfine che rilascia, alla sua capacità di liberare la mente, a tutta una serie di altri benefici di cui si parla ancora poco.
Al momento della realizzazione del locale, gli architetti hanno stoppato diverse proposte di Federico per l'arredamento del locale, tuttavia le più significative sono rimaste: il park tool in cui sono depositati tutti gli attrezzi da lavoro e l'atmosfera conviviale, in cui «si lavora seriamente ma c'è anche il momento dello scherzo, della battuta, dell'ironia, che è un toccasana», manca una spillatrice per la birra, un piccolo bar, un "bike bar", magari separato da una parete in vetro dall'officina, in modo da preservare un collegamento tra i due rami di Fede Bike Service. L'unico rammarico è il non essere riuscito a trasmettere ai propri figli la passione per la bicicletta, giocano a basket e sono attenti conoscitori di motori, che smontano e studiano in garage, in questo somigliano al padre da giovane. Proprio ad un garage è legata l'ultima storia di questa visita, una storia che torna indietro nel tempo: «Con il fatto che sistemavo le biciclette di tutti gli amici, davanti al mio garage c'erano sempre un sacco di automobili parcheggiate. Una sera, la situazione destò l'attenzione delle Forze dell'Ordine che mi citofonarono, chiedendo informazioni su cosa stesse accadendo. Spiegai, mostrai. Si fermarono anche loro ad osservarmi lavorare. Non è incredibile?». Sì, è incredibile ed è quello che la bicicletta può fare, lo sa Federico Pezzano, come lo sappiamo noi.
Questionario cicloproustiano di Maria Giulia Confalonieri
Il tratto principale del tuo carattere?
Mio marito crede nella mia generosità.
Cosa apprezzi di più dei tuoi amici?
L'onestà.
Il tuo peggior difetto?
Permalosa e disordinata.
Il tuo hobby o passatempo preferito?
Leggere e cucinare.
Cosa sogni per la tua felicità?
Stare bene in famiglia e nel lavoro.
Quale sarebbe, per te, la più grande disgrazia?
Perdere una persona cara.
Cosa vorresti essere?
Felice sempre.
In che paese/nazione vorresti vivere?
Italia.
Il tuo colore preferito?
Verde.
Il tuo animale preferito?
Cane.
Il tuo scrittore preferito?
Ne dico due: Ken Follett e Jo Nesbø.
Il tuo film preferito?
Non ho un film preferito ma più un genere thriller. Mi piacciono anche i film di ambientazione storica.
Il tuo musicista o gruppo preferito?
Ascolto un poco di tutto. Dipende dal mood.
Il tuo corridore preferito?
Marianne Vos.
Il tuo nome preferito?
Enea e Lavinia.
Cosa detesti?
La falsità.
Un personaggio della storia che odi più di tutti?
Domanda difficile.
L’impresa ciclistica che ricordi di più?
Diverse, non ne saprei indicare una sola.
Da quale corsa non vorresti mai ritirarti?
Da nessuna, in generale non è una cosa che mi piace fare.
Un dono che vorresti avere?
Il teletrasporto.
Come ti senti attualmente?
Serena.
Lascia scritto il tuo motto della vita
Vivi e lascia vivere.
Una ciclista versatile e combattiva: intervista a Kasia Niewiadoma
A detta di Wikipedia, Ochotnica Górna è un villaggio situato a sud della Polonia che non conta più di 2.100 abitanti ed è particolarmente frequentato da chi ama le attività outdoor, meglio ancora se invernali, vista la vicinanza con i monti Gorce. Le immagini sul sito istituzionale confermano che si tratti proprio di un piccolo paradiso naturale su Terra con una grande storia di resistenza durante la seconda guerra mondiale. Già da queste poche informazioni non dovrebbe sorprendere che sia nata proprio qui, il 29 settembre 1994, una delle migliori scalatrici del ciclismo femminile contemporaneo, Katarzyna “Kasia” Niewiadoma.
Cresciuta nel club WLKS Krakus BBC Czaja e allenata da Zbigniew Klek, che precedentemente aveva scoperto e allenato anche Rafał Majka, nel 2013 il mondo ciclistico comincia ad incuriosirsi a questa ragazza di 18 anni dal sorriso gentile che se la cava piuttosto bene nelle fila della TKK Pacific Torun. Supportata anche da Paulina Brzezna-Bentkowska e dal marito Pawel, Kasia arriva quinta ai Campionati Europei under 23 di quell’anno, piazza che le vale una proposta dell’allora Rabo-Liv di unirsi a loro come stagista per il resto della stagione e che sarà solo l’antipasto dei titoli ottenuti a Tartu nel 2015 e a Plumelec nel 2016. Durante l’Holland Ladies Tour vince la classifica delle giovani e ottiene ufficialmente il suo posto in squadra. Nel 2014 arrivano la sua prima vittoria UCI, al Frauen Grand Prix Gippingen in Svizzera, il terzo posto a cronometro ai campionati nazionali polacchi e il suo primo Giro d’Italia, concluso all’undicesimo posto dopo aver aiutato a portare sul podio tre compagne di squadra, tra cui una certa Marianne Vos proprio sul gradino più alto. Chissà se è stato, invece, nel 2015 che è cominciato a nascere l’amore tra Kasia e le classiche primaverili: quell’anno si piazza sesta alle Strade Bianche e quinta alla Freccia Vallone; quello successivo si migliora, arrivando seconda dietro alla campionessa del mondo Elizabeth Armistead alla classica toscana e quarta a quella belga; mentre nel 2017 è ancora seconda alle spalle, questa volta, di Elisa Longo Borghini a Siena e terza in tutte e tre le classiche delle Ardenne. Di sicuro continua il feeling nato con il Giro d’Italia dove vince la maglia bianca di miglior giovane, ripetendosi anche nel 2016, l’anno delle sue prime Olimpiadi a Rio de Janeiro (sesta nella prova in linea) e del suo primo podio ai Campionati Europei tra le grandi (terza nella prova in linea). All’OVO Energy Women’s Tour del 2017 arriva finalmente il gradino più alto del podio nel World Tour, non solo conquistando la prima tappa, ma anche la classifica generale. L’anno seguente comincia la stagione indossando una nuova maglia, quella della Canyon-SRAM, la stessa che ha addosso ancora oggi: dopo un altro secondo posto alle Strade Bianche, si prende in solitaria la 43esima edizione del Trofeo Alfredo Binda a Cittiglio, attaccando sul suo terreno preferito, la salita.
Nel 2019 il gradino più alto del podio arriva nella quarta tappa dell’OVO Energy Women’s Tour di quell’anno: è un giovedì pomeriggio a Burston Dassett, il 13 giugno per la precisione, e in volata supera Liane Lippert e Lizzie Deignan, sotto un cielo umido e grigio. Quel giorno Kasia è il sole che manca alla giornata, ma non sa che ci vorranno cinque anni prima di ritrovare la vittoria in una gara World Tour. Si instaura un pattern di secondi, terzi o quarti posti che si ripete negli anni come un disco rotto. C’è chi analizza il suo modo di correre, crede che la motivazione delle vittorie sfiorate sia tutta nell’eccessiva aggressività con cui si approccia alla gara. Ma forse il problema è pensare che nello sport conti solo la vittoria: Kasia infatti nel 2020 conquista un bronzo nella prova in linea dei Campionati Europei a Plouay e il secondo posto in classifica generale al Giro d’Italia, mentre nel 2021 è la volta di un altro bronzo, questa volta mondiale, nelle Fiandre. Continua a correre come la ciclista versatile che è sempre stata, perfettamente a suo agio e tra le favorite sia nelle gare di un giorno, che nei Grandi Giri. È difficile non credere che si tratti solo di una ragazza in sella ad una bicicletta che prova ad inseguire un sogno, un gradino del podio più alto di quello precedente. Per sé stessa, non per noi.
Questo, ovviamente, non la rende immune dalla frustrazione dello sfiorare spesso il raggiungimento dei propri obiettivi: tagliato il traguardo, sfinita, spesso si appoggia al manubrio con il viso contratto, rigato dalle lacrime. Torna a casa a Girona, cercando spesso conforto nei consigli del marito, Taylor Phinney, ex ciclista professionista prima per la BMC Racing Team, poi per l’EF Education First, che non ha smesso nemmeno per un secondo di essere il suo primo fan. Si sono conosciuti durante i Campionati Mondali in Qatar nel 2016 ad un buffet di colazione: Kasia sostiene che sia stato tutto merito delle sneakers che aveva ai piedi e che hanno attirato l’attenzione di lui.
Ma a furia di andare a tentoni nel buio si trova sempre uno spiraglio di luce: nella scorsa edizione del Tour de France femminile non vince nessuna tappa, ma alla fine è lei la regina della montagna e la maglia a pois si intona benissimo con il sorriso che sfoggia a Pau. Qualche mese dopo, alla seconda edizione dei Campionati Mondiali Gravel in Veneto, squarcia definitivamente quel buio, battendo Silvia Persico e Demi Vollering. Un’altra maglia, questa volta iridata, che Kasia dice vada indossata esclusivamente con pantaloncini neri. Non è la sua specialità, lei appartiene alla strada, ma è un’iniezione di fiducia per la stagione di quest’anno. Quando arriva quarta alle Strade Bianche e seconda al Giro delle Fiandre, in tanti temono che non ci sia fine al lunghissimo tunnel in cui l’hanno vista entrare un giorno del 2019 e da cui è uscita solo per brevi intermezzi. Ma al 31esimo tentativo, la Freccia Vallone, ancora una volta in una giornata piovosa, lancia la sua zampata, staccando sul Mur de Huy le favorite della giornata, Elisa Longo Borghini e Demi Vollering. Tagliato il traguardo, Kasia piange di nuovo, questa volta però di gioia. Perché qualsiasi cosa fosse quel limbo, è finalmente finito. Ai microfoni, dopo la gara, dice che spera di aver ispirato chi sta inseguendo i propri sogni da molto tempo a non mollare, che lei ne sa qualcosa di fallimenti ma non ha mai smesso di credere che il suo team fosse in grado di vincere una gara e la ricompensa è bellissima.
Mi sono commossa anche io quel 17 aprile. Senza rendermene conto ero finita piuttosto vicina allo schermo del televisore quando lei, Longo Borghini e Vollering sono arrivate all’attacco del Mur de Huy. Quando l’ho vista staccarle, ho capito perché questo sport riesce a insegnarti moltissimo anche solo guardandolo. Stavo assistendo ad una masterclass di tenacia ed ero lì che prendevo appunti. Li ho presi anche qualche pomeriggio fa, mentre tenevo il telefono in mano e dall’altra parte della cornetta c’era lei, da qualche parte sull’Alpe d’Huez in ricognizione per il prossimo Tour de France.
Comincio facendoti una domanda sulla tua terra, la Polonia. Una volta hai descritto le persone che vengono dalla tua regione come emotive, ma allo stesso tempo piuttosto combattive. Quanto ti influenza come ciclista questa tua origine?
Credo che abbia una grandissima influenza su di me, perché ho vissuto per quasi 20 anni in quei luoghi. Ovviamente da bambina le persone che mi circondavano hanno contribuito alla mia crescita, anche come ciclista: erano tutti molto grintosi, competitivi e hanno sempre lottato per quello che volevano ottenere.
Ti ricordi la prima volta che sei salita in sella ad una bicicletta?
Ricordo bene le prime esperienze in bicicletta, anche se inizialmente non avevo una bici da strada. Sono cresciuta circondata da molti bambini, soprattutto cugini, e passavamo parecchio tempo a pedalare. La prima che abbia mai avuto era una vecchia bicicletta di mio fratello. C’era libertà, ma anche competizione: ci divertivamo a sfidarci sulle salite per vedere chi sarebbe stato più veloce ad arrivare in cima, mentre in discesa cercavamo di usare i freni il meno possibile. Ogni volta ci inventavamo un gioco diverso, che richiedeva sempre di essere in sella ad una bici.
Una persona una volta mi ha detto che il ciclismo è uno sport creativo, sei d’accordo?
Assolutamente sì, ma il ciclismo e l’andare in bicicletta sono due cose differenti. Solitamente quando parliamo di “ciclismo” la prima cosa a cui pensiamo è il mondo competitivo delle gare. Mentre andare in bicicletta significa andare nei luoghi, passare del tempo con i tuoi amici, esplorare nuove strade e non avere paura di fermarti più volte per guardarti intorno. Il ciclismo è molto più definito dagli allenamenti, avere dei programmi da seguire, attenersi a dei numeri. Cerco di combinare entrambi i mondi nella mia vita: ci sono volte in cui sono molto più concentrata sulla mia tabella di marcia, altre in cui mi piace andare a fare un giro in bicicletta con mio marito e i miei amici, senza pensare a quanto veloce o forte sto andando, ma solo a quanto libera mi sento in quel momento, a tornare in qualche modo a come mi sentivo quando ero bambina.
Sei sempre stata molto aperta riguardo ciò che provi. Che rapporto hai oggi con le tue emozioni e quanto è importante per te avere nella tua vita qualcuno come Taylor che non è più parte del mondo World Tour?
È sicuramente di grande supporto, perché lui è stato nei miei panni, ha sperimentato quello che sto sperimentando, ma allo stesso tempo ora lo sperimenta da un punto di vista diverso. Delle volte sono tornata a casa da una gara portando con me moltissime emozioni, dalla delusione alla felicità, dalla rabbia al sollievo, ed è difficile riuscire a metabolizzare tutto questo da sola. Ma quando hai una persona con cui puoi parlare apertamente e condividere con lui o lei qualsiasi cosa tu stia provando, o che ti fa le domande giuste, è molto più facile andare oltre e imparare qualcosa dall’esperienza che hai appena vissuto. Sono molto fortunata ad avere Taylor nella mia vita, perché lui è piuttosto aperto riguardo le sue sensazioni ed emozioni e non ha paura di ammettere che non è sempre tutto bellissimo in sella alla bici, ma ci sono altre sfumature di cui spesso non si parla.
Anche tu non hai mai nascosto le difficoltà di questi anni in cui la vittoria, che sembra essere l’unica cosa che conta per il mondo sportivo, non arrivava. Come sei riuscita a non trasformarla in un’ossessione?
Ad essere sincera, anche se non ho vinto per molto tempo, ogni anno c’era sempre qualcosa di nuovo che accadeva: una medaglia ai Mondiali per la prima volta o la maglia a pois al Tour de France. Ci sono state molte prime volte che mi hanno motivato a non mollare, a continuare ad avere fede e ad essere paziente. Una delle cose più importanti che Taylor mi ha insegnato è proprio questa, a fidarmi dei tempi, a non affrettare le cose. Siamo due persone diverse: io sono più una testa calda, lui è più spensierato. Delle volte dimentico che le cose hanno bisogno di tempo ed è lui a ricordarmelo.
Comunque le vittorie sono arrivate: prima ai Campionati Mondiali Gravel e poi la Freccia Vallone. Quale delle due è stata più importante per te?
Sono due vittorie entrambe speciali a modo loro. Sicuramente indossare la maglia iridata, anche se non nella mia disciplina principale, mi ha dato molta motivazione e fiducia nel fatto che non era finita, che un giorno avrei potuto indossare la stessa maglia anche su strada. Quando non vinci per tanti anni, cominci a dubitare di te stessa un pochino, perciò quella vittoria è stata qualcosa di cui avevo decisamente bisogno per iniziare questa stagione con una mentalità diversa. Mi ha sicuramente aiutata nel vincere la Freccia Vallone: durante quei Mondiali ho battuto Demi Vollering e perciò ho potuto realizzare che non sarei stata per forza sempre dietro di lei.
Sei ad altissimi livelli da molto tempo, come fai a mantenere la motivazione e la passione per questo sport?
Una cosa che ho scoperto negli ultimi anni è che non posso essere concentrata solo sui risultati, ho bisogno di prendermi del tempo per me, per le persone che amo. Quando parlo di “tempo per me stessa”, non parlo di tempo senza fare nulla o che non riguardi la bici, anzi. Semplicemente pedalo a velocità e su bici diverse. Ci sono stati anni in cui sono stata tutto il tempo in sella ad una bici da strada e ad un certo punto finivo per sentirmi mentalmente stanca nel tentare di rincorrere sempre gli stessi obiettivi. Ora, invece, dopo una gara mi piace prendermi due o tre giorni per divertirmi in bici, con Taylor e con i nostri amici. Usciamo di casa la mattina e torniamo spesso che è quasi sera. Quei giorni mi permettono di mantenere la passione per il ciclismo, è grazie a quei giorni che posso tornare a concentrarmi durante gli allenamenti, perché in quel modo la bicicletta continua ad essere qualcosa che mi dà grande gioia.
Il ciclismo femminile sembra un mondo ancora tutto da esplorare, basti pensare che quest’anno il Tour de France compie solo il suo terzo anno. Pensi che ci siano luoghi di questo mondo che abbiano bisogno di più luce?
È interessante quello che è successo con il Tour de France, perché si tratta di un gara iconica e già dalla prima edizione è diventata una cosa importante, che ha permesso al ciclismo femminile di crescere. Ogni anno si notano grandi differenze nel nostro mondo, che si tratti di nuove gare da correre o di giovani cicliste che spuntano o diventano più forti. Abbiamo un calendario piuttosto pieno e forse delle volte il tempismo non è dei migliori per dare visibilità a tutte le gare: se per esempio la Vuelta femminile fosse più vicina a quella maschile, magari potrebbe attirare più attenzione e visibilità, anche perchè dopo le classiche siamo tutti alla ricerca di una pausa dal ciclismo.
A proposito di gare che, invece, non sono nel vostro calendario, ti piacerebbe un giorno prendere parte alla Milano-Sanremo?
Assolutamente sì! Quando viene rilasciato il calendario della nuova stagione, ogni anno spero sempre che compaia anche nel nostro. Mi piacerebbe che ci fosse anche il Giro di Lombardia.
C’è qualcosa che ti piacerebbe lasciare dietro di te nel ciclismo femminile?
Mi piacerebbe un giorno lasciare questo mondo sapendo che ho aiutato giovani cicliste a trovare la loro strada. Credo che cicliste come Elisa Longo Borghini o Demi Vollering siano un ottimo esempio di come si possa essere atlete fortissime, vincere gare ciclistiche, allenarsi nel modo giusto ma allo stesso tempo farlo senza ossessionarsi o cadere negli estremi. Spero che per alcune giovani cicliste io possa essere un esempio come loro*. Alla fine dei conti, la cosa più importante è cercare di rendere questo sport un posto migliore senza fare cose folli o poco sane.
*Mentre scrivevo quest’intervista, c’è stata la terza tappa del Tour de Suisse femminile, quella che andava da Vevey a Champagne: Kasia e la giovane compagna di squadra Neve Bradbury sono state in fuga per 91 chilometri, hanno pedalato l’una accanto all’altra quando il traguardo era oramai vicino. A pochi metri dalla linea bianca sull’asfalto, Kasia le ha messo una mano sulla schiena, ha rallentato quanto bastava perché Neve potesse essere la prima a superare quella linea e godersi la sua prima vittoria da professionista. Un passo dietro di lei, ma con le braccia alzate nella stessa posizione e la stessa gioia sul viso, che si è poi trasformata in abbracci e infiniti baci. Sono certa che Neve, dopo quella tappa, non avrà dubbi, come noi, sul fatto che Kasia sia uno dei migliori esempi in circolazione nel ciclismo femminile.
Appunti sul Giro Next Gen 2024
Sull’onda di quei corridori un po’ cheerleader, vedi Pogačar o Pidcock, Jarno Widar dà spettacolo sulle strade del Giro Next Gen 2024. Vince due tappe e la maglia rosa finale e, come avrete letto in ogni dove, è il più giovane nella storia della corsa a conquistare la classifica generale: compirà 19 anni soltanto a novembre. Stravince e forse questa è la vera notizia: il suo comando non è mai stato in discussione. Gli organizzatori pensano a un percorso meno selettivo che possa restare aperto persino fino all’ultima tappa, ma il piccolo belga, di cui ancora non si comprendono bene limiti e caratteristiche definitive, va forte fin dal primo giorno quando si piazza nono nella cronometro di apertura.
Widar, classe 2005 e quindi al 1° anno da Under 23, così piccolo fisicamente da ricordare proprio Pidcock, da junior andava forte un po’ ovunque, salite e salitelle, sprint ristretti e arrivi per puncheur, pietre, colline, di tutto, si prendeva il lusso di vincere per distacco, attaccando in qualsiasi momento della corsa, forte ovunque, a parte le volate che non ama, per usare un eufemismo. Carattere forte, vincente, chiedere a chi gli è stato vicino in due cocenti - per lui - sconfitte, come quelle del Lunigiana e del mondiale lo scorso anno. Ha stravinto, lo merita, e dice che l’anno prossimo tornerà per vincere di nuovo - mai accaduto un bis nella storia di questa corsa. Ci credo poco, ma chissà: in un ciclismo così folle mi aspetterei di vederlo a pieno titolo tra i professionisti - campo che ha già calcato in stagione - già dal 2025. Piedi per terra, però, come detto è un corridore giovanissimo, che ha già grandi numeri, ma è ancora acerbo.
Sul podio salgono due spagnoli, due vere sorprese. Sì, perché Albert Torres (altro 2005, UAE Gen Z) e Pau Martí (2004, Israel PT Academy) non erano assolutamente accreditati della possibilità di chiudere così in alto, soprattutto il corridore della Israel. Parole dello stesso Pau Martí, che dopo essere arrivato con i migliori a Pian della Mussa, si era detto stupito di aver trovato un certo livello in salita. Torres beneficia di un’attività svolta in stagione tra i professionisti (ben quattro corse a tappe disputate tra “i grandi”) che gli permette di avere un motore già ben rodato per figurare con i migliori in salita. Pau Martí fa valere anche il suo spunto veloce andando a conquistare grazie ai piazzamenti all’arrivo il terzo posto davanti a Rondel - ci torno a breve.
Restando alle sorprese in classifica, cito anche l’australiano Tuckwell decimo nella generale dopo aver corso bene in stagione anche alla Ronde de l’Isard: da definire limiti e caratteristiche. È un classe 2004 che ha fatto l’esordio in Europa solo due anni fa con la maglia del Team Bike Terenzi, squadra con la quale conquistò, proprio nel 2022, la sua prima vittoria nella sua prima corsa in assoluto al di fuori dell’Oceania.
In mezzo: 4° Rondel, per molti, compreso il sottoscritto, il favorito del Giro. Rondel ha difettato in maniera palese di acume tattico. Nella tappa di Fosse ha tirato per quasi tutta la salita senza chiedere cambi, aprendo il gas quando all’arrivo mancavano ancora diversi chilometri, tratto più duro compreso, e quando Widar, perfettamente a suo agio a ruota per diversi chilometri, è partito nel finale, non solo Rondel ha perso la ruota del corridore belga, ma anche dei due spagnoli poi finiti davanti a lui sul podio. Secondi che si riveleranno preziosi. L’altro pasticcio di Rondel è datato 16 giugno, l'ultimo giorno, arrivo di Forlimpopoli. Gli sarebbe bastato arrivare in volata davanti a Pau Martí o tutt’al più dietro di una sola posizione per conservare il terzo posto sul podio. Nello sprint di gruppo il corridore della Israel ha chiuso 20°, il francese della Tudor , pur dotato di esplosività e buon spunto veloce, 25°, piazzamento che lo faceva scivolare dal 3° al 4° posto. Qui, però, da definire dove finisce il capolavoro di Martí e inizia quel pasticciaccio brutto de Rondel. Corridore il quale, però, potrà prendersi la sua rivincita al prossimo Tour de l’Avenir. Qualora lo avesse in programma diventerebbe in automatico uno dei favoriti alla maglia gialla finale.
Al 5° posto chiude Pavel Novak, primo corridore di una squadra non Development, il Team MBH Bank Colpack Ballan, tra i migliori in salita come il regolare Kajamini, 7° e migliore degli italiani, questo passa il ciclismo di casa nostra al momento. Ottimo, in generale, il Giro della squadra italo ungherese che dall’anno prossimo dovrebbe - ma non ci sono ancora conferme definitive - diventare Professional: oltre ad essere stata l’unica capace di mettere due uomini tra i primi 10 in classifica, risultato non da poco vista la presenza di quasi tutti i top team della categoria, ha messo in luce Christian Bagatin e Lorenzo Nespoli. Il primo, partito forte, 10° nella crono d’apertura e poi in fuga con i big il giorno dopo, il secondo capace di conquistare la maglia dei gran premi della montagna, fra le poche soddisfazioni del ciclismo italiano in questa corsa. Nei 10 troviamo Leo Bisiaux, sesto posto finale per uno dei miei corridori preferiti di quella che è un’incredibile annata, la 2005. Bisiaux sta correndo poco e prima o poi arriverà: se non dovesse esagerare saltando subito tra i professionisti, nel 2025 potrebbe essere uno dei corridori da battere nelle corse a tappe e anche in quella di un giorno più impegnative. Intanto la Francia tra lui, Rondel e Rolland (assente come tutta la Groupama, ingiustamente esclusa per favorire la presenza di squadra italiane fantasma, sarebbe stato forse il favorito assoluto), si gode un possibile terzetto di fuoco per l’Avenir. La Decathlon ci ha provato, anche con Kevin Verschuren, 11° in classifica, ma raccogliendo alla fine un po’ poco. 8° in classifica è Mats Wenzel, Lidl-Trek Future Racing, il lussemburghese, da quando ha iniziato a farsi vedere in campo internazionale, sin dagli juniores, ha spiccato per regolarità. 9°, invece, Alessandro Pinarello, VF Bardiani Group CSF Faizanè, in un Giro per lui e la sua squadra senza infamia e senza lode, con qualche acuto come piazzamenti di tappa di Lorenzo Conforti, classico profilo all’italiana di corridore veloce e resistente, peccato per lui essersi dovuto scontrare negli sprint con un corridore che quest’anno ha battuto alcuni tra i migliori velocisti del World Tour e dintorni.
Fuori dai dieci, invece, i corridori della Visma Lease a Bike, che perde subito Nordhagen (uno dei tre favoriti della vigilia) e Huising per un malanno, che vede Graat sottotono e 12°, con van Bekkum 16° e che viene salvata da Brennan - altro 2005 già in evidenza in mezzo ai professionisti - nell’ultima tappa, vittoria a Forlimpopoli e da un Mattio extra lusso - ci torno a breve anche qui.
In generale è stato un Giro Next Gen che ha espresso quello che è a oggi la categoria: a livello internazionale c'è poco spazio per le squadre che non sono quelle di sviluppo del World Tour e quindi come nel 2023, anche nel 2024 raccogliere risultati se non appartenenti a una certa area sportiva, diventa sempre più difficile - lo scorso anno Trinity, Colpack e Biesse portarono comunque a casa quattro tappe. Quest’anno le vittorie sono state suddivise tra cinque squadre, praticamente le top della categoria presenti e tutti vivai, se così possiamo definirli, di formazioni World Tour. Un edizione spartiacque, per me, di quello che è il futuro o meglio il presente della categoria. Su otto tappe, quattro sono andate ai 2005, due ai (anzi a un) 2004, una a un 2003 e a un 2002. A parte Teutenberg, sempre piazzato nelle tre volate, hanno praticamente vinto quei corridori che ci si aspettava vincessero.
Due tappe sono andate alla Soudal Quick Step, entrambe con Magnier che apre il dibattito su quello che andrebbe fatto a livello regolamentare: è possibile che un corridore del World Tour, capace di vincere volate davanti a fior di professionisti, scenda per dominare questo tipo di corse? Forse andrebbe cambiato qualcosa, magari mettendo un limite su quei corridori che ottengono un totale di punti tra i professionisti, ponendo un divieto di scendere nella categoria - valido sia per Giro, che per Avenir e poi per Mondiale ed Europeo. Ma la presenza di corridori del livello di Magnier è solo una parte del problema, se vi interessa approfondire potete ascoltare il mio intervento fatto sul podcast di 53x11.
La Lotto Dstny, da anni una se non la miglior squadra Development del mondo, vince tre tappe con corridori al primo anno: due con Widar e una con De Schuyteener in volata. Ha il piglio della dominatrice come non si era mai visto al Giro, andandosi a prendere una bella rivincita con la corsa: la sconfitta patita da Van Eetvelt nel 2022, contro un corridore che non si è mai più ripetuto nemmeno a livelli base, bruciava ancora. Donie è stato preziosissimo in salita e Giddings in pianura dove De Schuyteneer oltre al successo ha saputo dare una mano importante. Conquistano poi una tappa a testa la Lidl Trek Future Racing, con Soderqvist (2003), la Wanty ReUz technord con Artz (2002) e la Visma | Lease a Bike Development con Brennan (2005). Lo svedese della Lidl è il favoritissimo della crono d’apertura e non sbaglia, in generale la sua squadra è sempre presente, in classifica - con Wenzel - nelle fughe, nelle volate - con Teutenberg - e l’ultimo giorno sfiora il colpaccio con Behrens, secondo di un soffio dietro Brennan. La Wanty cerca il podio in classifica con Toussaint ma i suoi sogni di gloria terminano a causa di una caduta, quando era perfettamente in linea, e in forma, per giocarsela, ma riescono però il penultimo giorno, a conquistare la tappa con uno dei corridori più attesi: l’olandese Huub Artz, già forte di un contratto tra i professionisti dall’anno prossimo. Infine, nonostante la chiamata arrivata all’ultimo per sostituire Belletta, Matthew Brennan, altro talento del 2005 di cui non conosciamo bene i margini, e con caratteristiche da cacciatore di classiche moderno, veloce anche negli sprint di gruppo e molto resistente, conquista l’ultima tappa del Giro, salvando la corsa dei calabroni.
Per gli altri è stata dura.
Sempre più difficile riuscire a fare risultati, riuscire anche soltanto a mettersi in evidenza con una fuga o un piazzamento, risultati che sono solo una parte del tutto. Che futuro potranno avere alcuni team italiani, in questo caso, per provare a confrontarsi con certe realtà più ricche e di conseguenza più forti? Come talento, preparazione, avvicinamento, mezzi, soldi, tutto. Come biasimare squadre che a fine stagione decideranno che non avrà più alcun senso continuare? E sia chiaro, questo non dipende solo dai risultati ottenuti a questo Giro, o dalle scelte, sacrosante dal loro punto di vista, di RCS di invitare via via le squadre più forti - a sensazione immagino che il prossimo anno almeno due, se non tre squadre italiane viste nel 2024 non verranno confermate a discapito di team stranieri esclusi quest'anno decisamente più competitivi. La categoria Under 23 sta mutando completamente, non serve più a formare il ragazzo o il corridore, a fargli prendere poco a poco confidenza con uno sport che poi diventerà un mestiere vero e proprio, ma ormai è un momento di transizione per chi ha già quasi certamente in mano un contratto per il World Tour. Si è creato un divario enorme, tra chi fa parte dell'élite - i team devo - e tutti gli altri. Mettersi in evidenza, lasciare una breccia, sorprendere è sempre più complicato.
come se da una parte - perdonatemi il paragone azzardato - ci fossero i piloti delle driver academy o della formula due, che studiano per un posto nella massima categoria e tutti gli altri, alla guida di un'utilitaria in giro la domenica per qualche strada secondaria in collina.
Infine gli italiani.
Chi si salva? Oltre ai già citati tre del Team MBH Bank Colpack Ballan, Kajamini, Nespoli e Bagatin, nella lista entrano Luca Paletti, chiude il Giro in crescendo, 13° in classifica finale, è un 2004 su cui dover puntare in futuro, il suo compagno di squadra Lorenzo Conforti, che con un 2°, un 3° e 6° posto di tappa è certamente il migliore dopo Magnier e Teutenberg negli arrivi a ranghi compatti dove invece manca del tutto l’atteso Daniel Skerl - in generale, a parte Borgo, CTF Victorious in difficoltà, anche per alcuni malanni che hanno colpito la squadra alla vigilia. Aggiungerei anche un altro dei ragazzi di Reverberi, Alessandro Pinarello, che chiude nei 10 un Giro che per disegno forse ne favorisce le caratteristiche - ma alla fine cosa sarebbe cambiato da un 9° a un 5°/6° posto, forse massima ambizione per qualità e peculiarità? Bravo anche Samuele Privitera, come Borgo un 2005 (e come Luca Giaimi, praticamente mai visto se non nel dare una mano ai suoi compagni dell’UAE), ha corso malaticcio ma non appena è stato bene si è lanciato in fuga nella tappa con arrivo a Zocca chiudendo al 3° posto. Iniezione di fiducia per il ligure della Hagens Berman Jayco squadra vincitrice del Giro due anni fa e praticamente mai vista a eccezione per l’appunto di Privitera. Da evidenziare anche i piazzamenti nelle volate di Andrea D'Amato (2002, Biesse-Carrera), 3° e 4° di tappa a Borgomanero e Cremona e di Lorenzo Peschi (2002, General Store), 4° a Borgomanero, 6° a Zocca (era in fuga) e 10° a Cremona.
Spiccano, poi, Raccagni Noviero e Mattio. Il primo, dopo il secondo posto nella crono di apertura, è una risorsa fondamentale per le vittorie di Magnier e si prende pure il lusso di andare in fuga in una tappa con salite, non di certo il suo pane, il secondo, invece, è fondamentale per Brennan a Forlimpopoli. Qui una breve, ultima, riflessione: negli ultimi anni abbiamo avuto buoni, ottimi corridori che tra gli Under 23 emergevano riuscendo a fare i capitani, trasformandosi poi tra i professionisti in gregari, spesso e volentieri di grande qualità. Oggi, all’interno delle squadre di sviluppo straniere, i ragazzi iniziano a essere fior di uomini-squadra sin dall’ultima categoria prima di passare professionisti. Questo è. Se Mattio dopo il Giro ha firmato, come Belletta, qui assente a causa di un infortunio, per un altro anno con la squadra Development della Visma, questo Raccagni Noviero merita un posto nella Soudal dei grandi. Ha caratteristiche da uomo del nord, da uomo squadra - lo accosterei ad Asgreen - e in questo momento storico la squadra di Lefevere non si può certo permettere grossi investimenti oppure di fare la schizzinosa su un certo tipo di corridore. Oltretutto, avendo indebolito il blocco per le corse del Nord, quello del corridore friulano è un nome da cui potrebbero ripartire. Detto del CTF e del buon Giro di Alessandro Borgo - altro 2005, ribadisco, annata d’oro per il ciclismo, selezionato all’ultimo momento per sostituire Stockwell, nonostante gli esami di maturità imminenti - un peccato non aver potuto vedere al loro massimo Matteo Scalco, VF Group Bardiani CSF Faizané, ritirato per un malanno, avrebbe potuto cogliere una top ten o qualcosa di meglio, Ludovico Crescioli, anche lui condizionato da un malanno dal primo giorno, ed Edoardo Zamperini condizionato da una frattura della clavicola a poche settimane dal Giro. Chissà se uno di questi ultimi tre, insieme ai sopracitati Raccagni Noviero, Mattio e Belletta, al già confermato Kajamini, e al quasi certo Pinarello, non possano essere i 6 uomini convocati da Marino Amadori al Tour de l’Avenir. Prima, però, per il ciclismo italiano ci sarà un Val d’Aosta dove provare a ottenere qualche risultato migliore.
Foto: Lapresse