Appunti sul Tour de France

Il Tour è terminato qualche giorno fa, andiamo in pace. Più o meno. Il Tour è terminato pochi giorni fa e proietta in maniera definitiva Pogačar nella storia di questo sport. Stando larghi, andando a naso, a sensazione, senza che tutto ciò sia suffragato da numeri - e i numeri in ogni caso suffragherebbero, eccome se suffragherebbero - la stagione 2024, che sta trascorrendo veloce come veloce affrontano le salite i corridori, lo inserisce (almeno) tra i dieci più grandi che questo sport abbia mai visto. La doppietta Giro-Tour dopo 26 anni è simbolo di ciò che è lo sloveno e di ciò che resterà delle sue gesta in questo sport negli anni a venire.

NON SOLO POGI

Il Tour appena trascorso, però, non è soltanto lo sloveno. C’è la resistenza - la volta che userò il termine resilienza abbattetemi - del suo più forte rivale, Jonas Vingegaard, che rientra alle corse proprio al Tour dopo aver rischiato perlomeno la carriera un paio di mesi prima ai Paesi Baschi. Il danese, tanto grintoso in sella quanto sfuggente e introverso nel dopo corsa - e adoro questo suo volto contraddittorio - è stato l’unico, a sprazzi, a provare a tenere la ruota di Pogačar, tanto da farci pensare, a un certo punto, come il Tour 2024 potesse avere una sfida da raccontare in chiave maglia gialla. Ma troppa, esagerata, la superiorità dello sloveno in versione 2024. Un Pogačar che ha raggiunto la maturità agonistica, fisiologico vista l'età, e pare che sul suo periodo di forma stia avendo un certo peso il cambio di allenatore e di allenamenti.

Il podio lo chiude Remco Evenepoel, sorpresa, ma fino a un certo punto. Fino a un certo punto perché in quanto a talento il corridore belga appartiene a quel gruppo lì, dei Pogačar e pochissimi altri. C’era qualche dubbio sulla tenuta, in alta montagna, soprattutto in tappe con salite ripetute, ma si è gestito benissimo e a questo punto, con una vittoria alla Vuelta nel 2022, un dodicesimo posto lo scorso anno sempre in Spagna (uscì di classifica a causa di una giornata di crisi dalla quale comunque si riprese benissimo, una giornata no) dove arrivarono, però, tre vittorie di tappa e la maglia a pois, un ritiro al Giro nel 2023, quando era in piena lotta per vincerlo e un podio al Tour, si può dire come sia attualmente uno dei più forti interpreti anche delle corse di tre settimane. Margini? Da scoprire, da capire quali e se ci saranno. Argomento interessante per il 2025 dove, molto probabilmente, lo rivedremo in corsa in Francia, stavolta, però, con la pressione di dover per forza salire sul podio se non addirittura trasformare il duello in una lotta a tre. Poi se magari, per mettere pepe, gli organizzatori aggiungessero cinquanta, sessanta chilometri a cronometro ci si potrebbe divertire ancora di più.

E ci sono tante altre cose da dire, partendo dal regolarista Almeida (quarto) che non sbaglia una corsa a tappe che sia una, con un ritiro al Giro per un malanno quando era lì a giocarsi il successo e poi tanti risultati di rilievo, uniti ad una certa costanza di rendimento ne fanno uno dei corridori più forti al mondo nelle corse di tre settimane, Tutto questo oltre a una grande capacità di svolgere, a livelli importanti, il ruolo di uomo-squadra.

 


C’è poi il ritrovato Landa che a quasi 35 anni firma un notevole quinto posto in classifica, migliorando anche lui ogni prestazione in ogni singola tappa di montagna rispetto a quello che era il suo meglio almeno a livello di età. Ci sono le difficoltà della Ineos, vittima di malanni in serie e che non va al di là del settimo posto di Carlos Rodriguez: per lui un passo indietro rispetto al 2023 ma con l’attenuante di aver corso mezzo malato, per l’appunto, dopo aver corso mezzo incidentato lo scorso anno: ancora da capire quale sia il suo vero volto e in questo caso da scoprire quali sono i margini. Per motivi legati anche alla giovane età non ho ancora capito molto del corridore spagnolo se non che è uno che va forte un po’ ovunque e quando sta bene non ha paura di attaccare.

C’è Adam Yates (sesto posto) che, senza strafare, chiude ancora in alto in classifica, anche se non tanto quanto il 2023, ma lavorando con profitto per il suo capitano; c’è Matteo Jorgenson, completo come pochi altri in gruppo, dotato di fondo e recupero, capace anche lui di svolgere al meglio il lavoro di gregario, ma anche di ritagliarsi spazio personale. Chiude ottavo al Tour dopo aver vinto una classica delle pietre questa primavera: ecco, in questo è stato persino superiore a Tadej Pogačar che quest’anno la campagna fiamminga l’aveva saltata a piè pari. C’è Derek Gee che toglie spettacolarità al suo modo di correre, ma si testa per la classifica: nono al Tour è un risultato enorme e chissà che nel 2025 non gli venga in mente di provare a venire al Giro e magari cercare pure di vincerlo o di salire sul podio.

Un accenno alle tre settimane strepitose di Carapaz. Veste la maglia gialla, vince quella a pois, conquista una tappa e ne sfiora altre due. Corridore spettacolare, esaltante, quando scatta fa male (quasi) a tutti. Si deve inchinare in un paio di circostanze soltanto alla rimonta di quel diavolo vestito in giallo che porta il nome di Tadej Pogačar. Due righe anche sul Tour di Bini Girmay che porta a casa la maglia verde, fa pari e patta come numero di vittorie di tappa con Jasper Philipsen e questa è stata una grande sorpresa: alzi la mano chi si sarebbe mai immaginato di vederlo così competitivo in volate di gruppo. Certo, voglio fare il rompiscatole: il livello di queste volate, una volta tanto, non era così alto, anzi, rispetto a quello che il 2024 sa offrire. Mancavano due dei tre più forti al mondo, Milan e Merlier, oltre a Groves e Kooij, tutti questi ce li siamo goduti al Giro. E in più è come se a Philipsen fosse mancato qualcosa in termini di brillantezza. A lui e al suo treno.

 


Altri spunti: le vittorie di tappa di Bardet, Vauquelin e Turgis, tre corridori francesi appartenenti a tre mo(n)di differenti. Il primo, all’ultimo Tour, che questa corsa pareva potesse vincerla un giorno e a volte c’è davvero andato vicino, ma l’avversario si chiamava Froome. All'ultimo Tour vince una tappa dopo sette anni dall'ultima volta e veste per la prima volta la maglia gialla. Il secondo avanza senza essere mai stato uno di quei talenti da strapparsi i capelli (e in Francia ne hanno, di talenti non solo di capelli) ma ogni stagione ha messo un piccolo mattoncino finendo per costruire un palazzo che si fa guardare, piazzando all’entrata la vittoria di tappa di Bologna dopo essere stato in fuga tutto il giorno. Va forte a cronometro, è veloce, apprezza le brevi corse a tappe: non sarà colui che sfaterà il tabù Tour per i francesi, ma è corridore da seguire. Nazione sempre più prolifica, grazie alla programmazione e al sistema che permette a un numero altissimo di corridori di esprimersi restando competitivi anche una volta passati professionisti - a differenza di quello che succede da noi in italia. La terza vittoria di tappa francese porta la firma di Anthony Turgis che invece appartiene agli incompiuti, di quelli che le grandi vittorie le hanno soltanto sfiorate. Vive una giornata di gloria incredibile nella tappa degli sterrati salvando il Tour, e in parte la stagione, di una (mezza) disastrosa, sin qui, TotalEnergies. Ci sarebbe da parlare di quanto è forte Jonas Abrahamsen che ha trasformato completamente il suo fisico per diventare un corridore vero alla soglia dei 30 anni e un giorno potrà giocarsi pure qualche classica del Nord. Al Tour non vince, ma veste la maglia a pois per diversi giorni, è il corridore con più chilometri in fuga, avrebbe meritato il premio di supercombattivo, ma gli viene preferito Carapaz. E a proposito di trasformazioni: Campenaerts, che da un po’ di anni si occupa meno delle crono e più delle fughe, trova il successo più importante della carriera dopo averne sfiorati anche lui diversi. Tre parole sui due van: Aert e der Poel. Entrambi a secco anche se il primo più volenteroso del secondo, oltre ad esserci arrivato molto più vicino. Per i due l’obiettivo sarà fra pochissimi giorni e si chiama Parigi 2024.


AZZURRO TENEBRA

 

Infine e in breve: quanto è messo male il ciclismo italiano che, tolti i due campioni di cui possiamo vantarci (Ganna e Milan), ormai è ben poca cosa? Ciccone fa classifica chiudendo undicesimo alle spalle di Buitrago: il duello con il colombiano, anche in un post tappa, è uno dei pochissimi momenti in cui l’Italia si fa vedere, anche se nella seconda settimana, quando arriva al quinto posto in due tappe di montagna, mi aveva illuso potesse lottare per qualcosa di meglio in classifica, ma al Tour il livello è troppo alto per pensare di entrare nei primi sei, sette, otto. L’anno prossimo lo aspettiamo al Giro e magari nelle classiche delle Ardenne.

Può bastare il suo undicesimo posto senza guizzi a salvare la spedizione? Assolutamente no, ma se Ciccone, pur bravo sia chiaro, non esalta, gli altri che fanno? Sobrero, dopo il ritiro dei due uomini di classifica della Red Bull, fatica a riciclarsi in un altro ruolo e si vede a malapena in un paio di fughe dove aiuta i compagni di squadra (da gregario per la classifica a gregario per i compagni in fuga, siamo questi); Moscon è l’emblema di ciò che sempre più spesso diventano i ciclisti italiani: ottimi compagni di squadra, valorosi aiutanti, dopo aver vestito i panni delle speranze, dopo averci illuso.

Bettiol, non pervenuto, ritirato per stanchezza; Ballerini e Mozzato hanno fatto l’uno guardia del corpo a Cavendish e con buoni risultati (tappa vinta dal corridore britannico), l’altro apripista di un velocista che da un anno a questa parte è diventato un ex. Gazzoli è stato il primo a ritirarsi al Tour, Formolo si è visto un paio di volte tirare il gruppo per qualche centinaia di metri. A memoria non ricordo un Tour così insipido corso dagli italiani e succede proprio nell’anno in cui la corsa parte dall’Italia. Ma, come detto, siamo questi: senza squadre di livello nella massima categoria, con talenti che passano professionisti dopo aver fatto buone cose nelle categorie giovanili e in un modo difficile da spiegare e comprendere o scompaiono dai radar o diventano gregari. Senza ottenere risultati di vertice nelle corse che contano e stanno scomparendo pure i risultati che contano nelle gare di secondo piano, fateci caso. Stiamo entrando in quello che forse è uno dei peggiori momenti della storia del ciclismo italiano. Problemi? Tanti, diffusi in maniera capillare in tutto il sistema. Soluzioni? Nessuno le conosce o ne parla, anzi, spesso alcuni buoni risultati vengono usati per nascondere ciò che non va. Vedremo il futuro cosa riserverà a questo sempre più evidente azzurro tenebra che ultimamente sta bene con tutto.

Foto: Sprint Cycling Agency


Italy Divide: da Pompei a Torbole

Articolo e foto di Benedetto Conte

1270 chilometri e 22000 metri di dislivello da Pompei a Torbole. Dati alla mano non sembrava una cosa grossa o, almeno, non così tanto: dividendo i chilometri e il dislivello per il numero di giorni a disposizione si trattava di mettere in fila 210 chilometri e circa 3500 metri di dislivello al giorno, per diversi giorni. Che potesse essere una cosa grossa sembrava emergere solo dalle esclamazioni dei non addetti ai lavori ma alla fine dei conti, cosa potevano saperne? Bisognava solo pedalare, senza nient’altro a cui dover pensare.

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Il meteo non sembrava favorevole fino al giorno della partenza, con neve e temperature polari fino a -10 °C ad attenderci una volta entrati in Abruzzo, dove gli organizzatori avevano decretato uno stop obbligato dalle 22 alle 5 per evitare problemi sui 40 chilometri di nulla sul sentiero in quota che separa Rivisondoli dal lago di Scanno. Un problema che avrei ormai affrontato l’indomani, considerando che alle 21 mi trovavo incollato su una discesa fangosa, scastrando con le mani il fango che continuava ad ammassarsi tra la ruota e il telaio mentre i pronosticati 30 minuti per raggiungere Castel di Sangro si dilatavano sempre e sempre più.
La prima alba, e le prime 3 ore di sonno, partono con un anomalo fastidio al ginocchio destro, che decide di rivendicare la propria esistenza dopo 35 anni, esattamente in quel preciso momento, dopo una vita passata in sordina. Decido di ignorarlo concentrandomi invece sul vento tagliente dell’altopiano abruzzese, nell’attesa di trovare l’anticipata neve in quota. La salita è costante, scenografica e maestosa ad ogni curva fino a quando il paesaggio innevato appare, catapultandomi in un luogo che potrebbe essere tanto remoto quanto quasi impossibile da trovarsi qui. Una discesa scassata sembra farmi planare alle porte di Roma, ben oltre le più rosee aspettative, ferme un centinaio di chilometri più indietro.

La seconda alba, e le seconde 3 ore di sonno, partono sui basoli della Via Appia Antica che dopo 20 chilometri sfociano su un Colosseo semi-deserto illuminato dalle prime luci del sole. 3 brioche al lato di Piazza San Pietro e via verso Viterbo, a testa bassa fino a che la via Francigena non diventa più verde, sempre più fitta, sempre più fangosa. Mi godo i diversi passaggi tecnici, mi diverto, fino a che non ne esco e posso mettermi alla ricerca di un supermercato da svaligiare. Sono da poco passate le 15 e l’Umbria e la Toscana sono poco più in là, cadenzate da Montefiascone, Bagnoregio, Orvieto. Alle 20 solo una discesa e 20 chilometri sullo sterrato compatto di un bosco nel crepuscolo avanzato mi separano da Proceno, da 2 pizze e un letto.

La terza alba, con le sue 4 ore di sonno, inizia tra le colline toscane e la curiosità della salita verso Radicofani di cui tutti parlano. Iniziarla a stomaco quasi vuoto è un’idea che appare sbagliata solo a danni fatti e lo capisce subito anche la signora all’ingresso del paese che, senza proferire parola, mi conduce in silenzio assente a svaligiare il bancone del suo bar vincendo e assicurandosi il premio “Appostamento dell’anno”. La giornata è eccezionale e con i muscoli caldi andare su e giù per la Toscana è puro piacere. Sono tra i primi 20 e la bellezza è tale da farmi attraversare tutto d’un fiato San Quirico d’Orcia, Bonconvento e Siena senza che mi accorga di aver scalato anche diverse posizioni. Prima di attraversare le colline del Chianti, con il sole a picco, faccio una pausa e riparto; le salite ora sono dure e scassate e mi riprometto che oltre il 15% di pendenza, considerando ancora i giorni mancanti, non vale la pena pedalare, anche solo per cambiare postura e rilassare quanto più possibile i muscoli coinvolti. Alle 19 sono pronto per la discesa al tramonto verso Radda in Chianti ma, al primo colpo di pedale, qualcosa non va: il deragliatore penzola affianco alla ruota, completamente staccato dal telaio. Mantengo la calma, so di avere la soluzione ma non so ancora di avere una vite spanata e nulla con me per poter rimediare. Provo e riprovo mentre il sole si abbassa sempre di più, mi abbatto e inizio a pensare al treno che mi riporterà a casa, è domenica e l’unica cosa che posso fare è raggiungere il paese e poi…chissà! Mentre sono lì a tentare il tutto per tutto, un’auto mi si ferma accanto e chiama il meccanico del paese che, accertatosi che avessi il ricambio necessario, si rende disponibile ad aprire la sua bottega. Quanto più rapidamente possibile e incredulo, rimetto tutti i pezzi apposto, smaglio la catena e la infilo nella tasca posteriore, lego il deragliatore al telaio con nastro e fascette e giù sparato per la discesa, tra gli in bocca al lupo di tutta la famiglia stipata nell’auto che mi ha soccorso e che mi sta facendo sentire un campione. Il signor Ramuzzi è costretto ad imprecare un paio di volte, ed io con lui, per riuscire a tirar via quel maledetto forcellino ma poi, mentre io tengo gli occhi stretti e chiusi, girato di spalle, come all’ultimo rigore di una finale mondiale, con un ultimo e decisivo colpo riesce nell’impresa e alle 20.30 mi rimette in corsa, direzione Firenze, un po’ più tardi del solito ma solo 25 chilometri prima delle più ottimistiche delle aspettative.

La quarta alba, con le sue 3 ore di sonno, ha con sé tutti gli acciacchi del caso e il pensiero fisso e costante che oggi bisognerà valicare gli Appennini verso Bologna su salite proibitive e strade scassate chissà quanto. Il primo indizio sull’andazzo della giornata dovrebbe darlo l’attacco della salita al 25% dopo Prato ma bado bene a non farci caso. Al termine della prima salita e della prima discesa tra single track e freni tirati, l’orario e l’umore sono ancora più che fiduciosi. Al termine della seconda salita tutto sembra ancora possibile e nella mia mente si fa largo l’idea di una gloriosa discesa verso Bologna ma non sarà assolutamente così; tra terreni sconnessi, single track e frane da superare, Bologna sembra sempre più lontana e il Santuario di San Luca si rivela, nella sua veste migliore, dopo soli 130 chilometri in ben 13 ore, alle luci del tramonto, quasi come a farlo apposta per vomitarmi addosso quell’emozione tutta adolescenziale di farmi sentire di nuovo come quel “Girardengo appena appena più basso e rock”. Voto 10 per il tempismo: alla fine, che fretta c’era di arrivare se doveva essere nel momento sbagliato?

La quinta alba suona quasi come l’ultima ma non bisogna abbassare la guardia, un rischio grosso nel momento in cui ci si inizia a sentire quasi arrivati. I 100 chilometri di dritta ed infinita pianura che portano a Verona mettono a dura prova la concentrazione ed è meglio rallentare per non buttare alle ortiche quanto fatto finora. Verona arriva dopo ben 5 ore e alle 11 del mattino, sotto un sole che batte, non rimane che l’ultima salita per la Lessinia e l’ultima discesa a picco verso il lago di Garda tenuto nascosto dal Monte Baldo. Mi godo ogni pedalata in salita, tutto il vento in faccia in discesa e tutti gli ultimi 40 chilometri sulla ciclabile finale, messi lì sicuramente non solo per decantare l’adrenalina, la tensione e la stanchezza accumulata fin lì ma per cementare la valanga di ricordi prima del traguardo finale in 5 giorni e 10h. Ora sì che sembra una cosa davvero grossa.


Bikeboobs: una strada rosa in costruzione

«Ero una ragazza con le idee abbastanza confuse, tanto riguardo a quel che volevo, quanto riguardo al mio essere, alle mie potenzialità. Ho intrapreso studi creativi e un lavoro che ha a che vedere con la creatività, ma sentivo che qualcosa mancava per definire il quadro. Quel pezzo mancante, alla fine, era la bicicletta: mi ha permesso di scoprirmi davvero, di dirmi, quasi sorpresa, "ecco, io sono così, io sono questa persona qui". Ha ampliato la visione di me stessa e solo quando hai ben presente chi sei tu riesci a vedere davvero gli altri nella giusta prospettiva. Ora le pedalate sono i miei "spazi vuoti", quelli in cui mi libero di tutto ciò che frulla in una mente iperattiva e metto tutto in ordine, per ricominciare, per riprendere. Seduta ad una scrivania, questo processo mi è impossibile. Che lusso è stata per me quella bicicletta: scoprirmi, definirmi e rifiatare».

Il lieve accento toscano con cui vengono scandite queste parole è quello di Agnese Gentilini, fondatrice di Bikeboobs. Si tratta di una associazione tutta al femminile, nata con l'idea di avvicinare le donne all'attività ciclistica, sportiva, performativa, oppure amatoriale, legata solo al piacere di pedalare, che, in realtà, nel tempo, ha iniziato a occuparsi a tutto campo del tema benessere, salute e di tutte le tematiche che hanno a che vedere con il femminile: alimentazione, prevenzione, violenza di genere e diritti. Bicicletta e attivismo, insomma. «Purtroppo- sottolinea Agnese- c'è un pregiudizio sulla figura della donna, come se non potessimo fare certe cose, riservate agli uomini, o, perlomeno, non potessimo farle da sole, in autonomia. Noi invitiamo le donne a tenere gli occhi aperti, a non farsi definire, a non farsi escludere, a non lasciare che siano gli uomini a dibattere e decidere su questioni che le riguardano».

Il progetto inizia nel 2019 da un incontro fra tre amiche, oltre ad Agnese, Giulia Vinciguerra e Sara Paoli, ma ha radici profonde, probabilmente già nel 2014, nel giorno in cui le venne l'idea di percorrere il Cammino di Santiago non a piedi, ma in bici, assieme al marito che già si cimentava nell'enduro: di fatto un modo per stare in compagnia, per andare via assieme. I primi allenamenti sono finalizzati a questo, un filo che si riallaccia con la bicicletta che aveva da ragazzina, con il cestino in cui metteva gli oggetti della quotidianità che portava nei suoi giri in città. Anni in cui tutto avrebbe pensato tranne che questo. Una cosa, però, aveva già iniziato a notarla: «Spesso, in bicicletta, ci si trovava tra tanti uomini e l'atteggiamento era, talvolta, di derisione, di giudizio, con occhi strabuzzati. Della serie: "Tanto non siete capaci". Credo sia una cosa che abbiamo provato tutte o quasi. Al Tuscany Trail del 2021, probabilmente, la volta che ha acceso in me, Giulia e Sara il desiderio di raccontare questa esperienza e condividerla, affinché chiunque la viva sappia di non essere sola». Racconta Agnese che aumentare il numero di donne che pedalano è la via principale per sconfiggere il pregiudizio: se si è poche si può essere un'eccezione, se si è tante, tantissime, si è la regola, questo è l'assunto.

Anche perché per proseguire un'attività di qualunque tipo dopo certi giudizi è necessaria perseveranza che non tutti hanno e che, soprattutto, non è un dovere avere: «Talvolta, dopo questi sorrisi, dopo queste battute, si smette, si cambia strada, specialità. Sia chiaro: è possibile cambiare, certe volte è necessario, ma dobbiamo essere noi a volerlo, per scelta, non per delusione o perché qualcuno ha provato a non farci sentire capaci. Se si condivide, si scopre che la sensazione non è solo tua e soprattutto che si può rallentare, ci si può fermare, portare la bici a mano per qualche tratto, avere dubbi, incertezze. senza timori». Bikeboobs origina quindi Bikeboobs Trail, quest'anno alla seconda edizione. L'intento è quello di dare forma ad una sorta di "strada rosa" fra Toscana e Lazio, una sorta di testimonianza e di monito che si andrà a costruire in cinque edizioni programmate.

Nel 2024, il 5-6 settembre, si parte da Pontedera e si va verso Piombino, verso Livorno: due percorsi, un lungo e un corto, 304 chilometri circa e 248 chilometri circa, con dislivello attorno rispettivamente a 2000 ed a 3500 metri. I due tracciati si incontrano spesso, in modo che sia possibile, per chi lo desidera, unirli, in una sorta di nuova variante: «Nella mente ho una serie di "fotografie" bellissime che fanno venire voglia di partire: la strada sterrata della Via Alta dei Cavalleggeri, con la vista della costa proprio lì sotto, l'entroterra toscano, dai fiumi, ai laghi, al mare, fino a Casale Marittimo e all'ingresso a Pisa che è da togliere il fiato, in quanto vi si arriva da una stradina stretta che, da un momento all'altro, spalanca la vista sulla città e sulla Torre. Tra il giallo, il verde ed il blu, il profumo del mare e della macchia». Agnese Gentilini si augura il sole, la stessa atmosfera del 2023, la voglia di far gruppo e stare assieme. Sì, la bicicletta è proprio un lusso, un lusso attraverso cui andare oltre: parole inutili, giudizi e pregiudizi.

Le iscrizioni sono aperte sino al 31 luglio. Si accede dal seguente link:

https://www.eventbrite.it/e/biglietti-bikeboobs-trail-2024-la-via-dellacqua-753062980647