Palo Alto Bikes, Rivignano
Palo Alto era Palo Alto Market, a Poblenou, Barcellona: una vecchia fabbrica tessile di mattoncini rossi, con una ciminiera che svetta alta nel cielo, il cosiddetto Palo Alto, per l'appunto. Questo spazio, un tempo simbolo dell'industria, oggi pulsa di nuova vita, ospitando giovani artigiani e creativi che ogni mese danno vita a un mercatino, un magico equilibrio tra modernità e tradizione. In Spagna, a Barcellona, Lorenzo Sandrin era arrivato per incontrare Michela, la sua attuale compagna, ma quello strano nome e la scelta di quegli artigiani l'avevano, da subito, meravigliato.
Che a Palo Alto, in California, esistesse già un negozio di biciclette dal nome Palo Alto Bicycles, l'avrebbe scoperto solo anni dopo, quando in via Umberto 79, a Rivignano, in provincia di Udine, i vetri di una piccola vetrina si affacciavano già su un altro Palo Alto Bikes, quello nato dalla sua idea di ricreare quell’atmosfera magica di artigianato moderno. In California, Lorenzo non è mai stato, ma Italo, un signore all'epoca ottantenne, gestore della ferramenta del paese, sì, per trovare suo figlio che vive negli Stati Uniti. «Italo aveva un inglese incerto e le movenze di un padre anziano, ma in quel negozio lontano, riuscì a spiegare che pure nel suo paese c'era una realtà con lo stesso nome. Non so quanto quel titolare, con svariati dipendenti e un giro d'affari importante, potesse essere interessato al racconto della mia storia, ricordo però l'ultima volta che Italo venne da noi e mi narrò questo fatto. Purtroppo Italo non c'è più, ma io lo rivedo orgoglioso come quel giorno e, nella mente, risento la sua descrizione, mentre lo immagino che parla in inglese del proprio paese e del nostro negozio». Così questa è la storia di quel nome curioso, dietro a cui se ne nasconde un'altra, schietta e sincera, come sono i friulani: senza fronzoli, senza retorica.
La verità è che Palo Alto Bikes è nato da una necessità, di più, è nato da diverse insoddisfazioni lavorative. Suo padre faceva il lamierista carrozziere, un mestiere quasi ormai scomparso, dedito alla riparazione degli oggetti in lamiera: che fossero pezzi di una vecchia Alfa Romeo Giulia, di una Lambretta o di un trattore non faceva differenza. Li portava a casa e ci lavorava pazientemente, mentre Lorenzo e suo fratello imparavano. All’epoca uno scooter usato, con qualche sistemazione e una riverniciatura, pareva come nuovo. Lo spazio per tutto questo era l'officina sotto casa, fino a che, un giorno, papà tornò con un telaio in acciaio datato, montato Campagnolo: era il periodo delle biciclette a scatto fisso, della Red Hook. Quell'officina diventò improvvisamente dedicata a quella e ad altre biciclette: Lorenzo montava, smontava, lucidava e costruiva ruote. Michela, di tanto in tanto, passava da quelle parti e le sue parole erano sempre più o meno le stesse: «Che bella la tua manualità, perché non ne fai qualcosa in più? Dovresti provare».
«Di fatto, fu un salto nel buio, un azzardo, seguendo un’ispirazione e un modo diverso di vedere il ciclismo. Ho viaggiato per le principali capitali europee, oppure a Barcellona e Berlino, ad esempio, cercando ispirazione ed imparando tutto quel che potevo captare, per poi applicarlo nel mio progetto. Avevo uno studio di produzione che, però, non riusciva a fornirmi alcun sostentamento a livello economico: dove c'era l'attrezzatura audio, ora ci sono attrezzature per biciclette, la musica degli strumenti è diventata vento tra le ruote e la passione è divenuta un lavoro».
Palo Alto Bikes è cresciuto di giorno in giorno, di mese in mese, di anno in anno: nel primo periodo vi trovavano casa biciclette molto standard, ora in esposizione è possibile trovare brand di nicchia (come BROTHER Cycles, O.P.E.N. e Bombtrack) e qualche ruota in carbonio assemblata a mano. Col tempo sempre più persone sono arrivate qui attratte dalla passione e dalla cura che Lorenzo mette nel suo lavoro. L'attenzione di Lorenzo è stata quella di rimanere al passo coi tempi, ricercare prodotti e soluzioni interessanti e dedicare tempo alle esigenze dei clienti e ai loro montaggi personalizzati. «Credo che questo mondo, quello del ciclismo, si possa dividere in tre macrocategorie: gli amatori, gli agonisti e gli appassionati. Da questi ultimi si trae sempre nuova linfa per le giornate: conoscono ogni salita e ogni altimetria, in vacanza, a tempo perso, vanno in bicicletta, magari salgono al Galibier o al Mont Ventoux, soprattutto conoscono cose a cui gli agonisti non fanno nemmeno più caso, presi dal risultato, dai numeri. Il mio lavoro mi ha permesso e mi permette ogni volta di vedere le diverse facce di questo piccolo universo chiamato ciclismo».
Un gestore, specifica Lorenzo, nel 2025, non può fermarsi alla vecchia logica del negoziante o del meccanico, bisogna, invece, entrare nell'ottica di una sorta di "meccanico 2.0", perché «mi si permetta il gioco di parole, fare solo ciò che paga, in realtà, non paga. Le persone ormai acquistano tutto dal divano di casa: bisogna aiutarle a fidarsi e, al giorno d'oggi, non è facile». Lorenzo non si sente venditore, anzi, narra che quella è la cosa che ha più difficoltà a fare, lui si diverte a costruire bici su misura, per quella persona o per quell'evento, quando, tuttavia, si trova a dover vendere inizia a fare domande, a chiedere, a rovistare fra le varie esperienze, fra le vecchie biciclette per reperire le misure corrette: qualche cliente non è rimasto al passo con i tempi, allora Lorenzo improvvisa, sa farlo bene, gli riesce, e così cerca di capire la persona che ha davanti, quel che vuole, che desidera.
«Mi interfaccio anche io con quello che chiamo "l'arrangismo friulano", un atteggiamento ben riassunto da una frase tipica: “fasin di bessôi”, ovvero "facciamo da soli", omaggio alle capacità ed ai talenti friulani e forse anche un poco alla proverbiale diffidenza di questo popolo. Mi capita che mi arrivino qui persone con biciclette in condizioni abbastanza precarie che, magari, hanno intenzione di fare lunghi viaggi, all'altro capo del mondo: in quel caso serve spiegare, è necessario mettere davanti alla realtà dei fatti. Non sempre capiscono perché è un qualcosa di ancestrale quel modo di fare, quello del pensare di non aver bisogno di nessuno, ma talvolta si riesce a cambiare. Dalla stessa origine deriva l'avversione che spesso, anche sui social, si ha nei confronti dei meccanici, quasi non fossero idonei ad occuparsi delle nostre biciclette perché "faremmo meglio da soli". La problematica è la stessa e vale per ogni zona d'Italia». Il friulano, inoltre, è diffidente, anzi, forse, molto diffidente, ma, una volta che si riesce a fare breccia nel suo scudo, si rivela una persona aperta e calorosa. Bene, in quel momento diventa impossibile anche solo passare dalla regione senza avvisare: ci tiene a mantenere il contatto, la conoscenza, l'amicizia.
Il locale è articolato in due ambienti distinti, caratterizzati da altrettanti, spazi, come fossero due mondi: uno relativo alla vendita con qualche bici in esposizione, l'altro all'officina, con una piccola vetrina ad attirare l'attenzione sul negozio. L'idea è sempre quella di cercare di offrire non solo prodotti e servizi ma anche un’esperienza divertente ed originale al cliente: «Penso, ad esempio, alla Cimiteri Ride, la nostra gravel annuale che organizziamo nel periodo della festa di Ognissanti. Sarà per il nome assurdo o il periodo particolare ma ogni anno attira sempre più partecipanti. Non serve molto: una traccia particolare, i ristori con prodotti appetibili, magari locali. La chiave è mantenere tutto semplice, genuino, anche se non è così scontato: alla fine, si tratta solo di una pedalata insieme, nulla di più. Un altro esempio potrei portarlo parlando delle uscite che organizziamo in notturna, al mercoledì, e, visto che siamo un poco distanti dalle principali città, ci siamo inventati una sorta di tour: siamo stati ad Udine, a Pordenone e in altre località. Sapete il bello? Alcune di quelle persone, che hanno pedalato nei nostri eventi, si scambiano nomi e numeri di telefono e, successivamente, si ritrovano per correre assieme: questo per me è un risultato, forse il più importante».
L'invito di Lorenzo è quello di restituire il maggior potere possibile all'utente finale, un potere che, di fatto, gli appartiene. Per farlo, spiega, è necessaria una sorta di involuzione, un ritorno alle origini. Si tratta di riscoprire le botteghe, dove trovavi non più di una ventina di biciclette, in contrapposizione ai grandi negozi, dove spesso «si vendono scatole vuote». In quelle botteghe, l’utente si riconnetteva con l’artigianato e con una dimensione più umana e autentica. Secondo Lorenzo Sandrin, quando queste due strade – tecnologia e artigianalità, modernità e tradizione – torneranno a incontrarsi, sarà stato fatto un grande passo avanti. È una visione in cui crede fermamente.
Intanto, da quel 9 marzo 2019, sono già trascorsi ben più di cinque anni, quasi sei, a dire la verità, mesi e giorni in cui quel salto nel buio e quella scelta coraggiosa si sono rivelati un successo. Di passi avanti se ne sono fatti e tanti e se ne vorrebbero fare ancora. Crescere, certo, ma con un punto fermo: la natura artigianale, che, ancora oggi, è preziosa e da preservare. Nelle pieghe dell'artigianalità ci sono le origini e le origini sono la base da cui costruire qualunque cosa: anche Palo Alto Bikes, dal nome californiano, dal ricordo spagnolo, dalla base friulana, dalla realtà a due ruote, come due ruote hanno le biciclette di qualunque ordine e grado.
Odissea con finale felice
Mattia Agostinacchio è del 2007, ha diciassette anni, è valdostano e diciotto anni li deve ancora compiere. Quando diventerà maggiorenne sarà l'alba di una nuova stagione.
Mattia Agostinacchio è il nuovo campione del Mondo di ciclocross, categoria juniores, e il suo successo fa seguito al successo ottenuto da Stefano Viezzi nel 2024 a Tabor. Accade così: quella che sembrava un'eccezione data dal talento, è invece una rivoluzione portata dal lavoro svolto in questi anni dai tecnici, che stanno riuscendo a modellare quel talento (che già c'era) rendendogli finalmente giustizia e portandolo in cima al mondo.
Dal 1979 al 2023 l'Italia contava un solo titolo mondiale nella categoria, Davide Malacarne, poi buon crossista e stradista - i più attenti, oppure quelli che iniziano ad avere i primi anni che pesano sulle caviglie e sulle anche quando si alzano il lunedì mattina e magari sabato sera sono andati a ballare drum n bass, se lo ricordano come buon professionista su strada in maglia Quick Step, seppure mai sbocciato. Oltre al suo titolo, il bronzo di Bertotti nel 1989, a cui si appaia quello di Filippo Grigolini giorni fa in Francia per una doppietta sul podio che ha avuto un paio di precedenti, ma da scovare nel tempo passato ed entrambi tra gli élite: Longo e Severini nel 1959 a Ginevra, primo e terzo, Pontoni e Bramati nel 1996 a Montreuil, secondo e terzo.
Nelle ultime stagioni sembra cambiato l'universo ciclistico delle due ruote o meglio, pare cambiata la posizione del pianeta Italia all'interno del sistema. La Nazionale guidata da Pontoni chiude il medagliere (attenzione, chiaramente, alle letture che gli si danno perché tutto va contestualizzato anche le medaglie e il loro peso) a ridosso delle super potenze portando avanti un percorso di crescita che, vedremo quali scelte verranno fatte in futuro, potrà poi portare Viezzi, Agostinacchio, ma non solo, a poter competere con i migliori anche nella categoria élite. Una scuola, quella italiana, che dimostra entusiasmo e freschezza, ma soprattutto la ritrovata capacità di promuovere ad alto livello i propri atleti, capaci, poi, una volta trasferitisi all'estero - guardate Casasola - di far parte del meglio che c'è al mondo in una specialità dominata da due nazioni, con qualche sporadico inserimento.
E così che avvengono le rivoluzioni: ci sono piccoli episodi, ma grandi conquiste; sono quelle di Stefano Viezzi, prima e Mattia Agostinacchio, poi. Stefano Viezzi, campione del mondo jr 2024, è passato all'Alpecin, ovvero il meglio in circolazione, per continuare a crescere. Ha fatto la scelta migliore possibile, visti i mezzi e la competenza del sodalizio guidato da Roodhooft. In stagione ha rincorso la condizione a causa di una brutta caduta su strada a inizio 2024 e altri piccoli intoppi, ma è cresciuto man mano e al suo primo anno tra gli Under 23 nel ciclocross, anzi, nei suoi primi mesi - seppure con il grosso limite della partenza, sistemata quella sistemerà il mondo - ha finito per sfiorare il podio anche in una gara di alto livello come quella del Mondiale Under 23 vinta da Del Grosso. Guardiamoci negli occhi, parliamoci chiaro, prima di alzare i calici per un brindisi: la fuoriuscita di un talento di questo genere, quello di Stefano Viezzi, sembrava un'eccezione, sembrava una di quelle cose che accadono, perché devono accadere, ma quanto ci sbagliavamo. A meno che non siano due le eccezioni, con Mattia Agostinacchio, fratello minore di Filippo, anche lui ottimo corridore nel fuoristrada (cross e mountain bike) e che prova a misurarsi con un po' più di difficoltà sulla strada, ci rendiamo conto che qualcosa sta succedendo a livello di sistema, un viaggio che procede con fisiologiche difficoltà, ma che alla fine porta a conclusioni quasi insperate.
Ed è quel viaggio che Mattia Agostinacchio ha affrontato la mattina del 2 febbraio nella gelida Liévin: cadute, cambi di bici e misure sbagliate, difficoltà di adattamento, ancora caduta, una scarpa rotta, ma poi la rimonta. Una vittoria che è apparsa in discussione più volte e tutt'altro che scontata alla vigilia - e va detto, per dovere di cronaca e contesto, come l'annata 2007/2008 a oggi non sia la migliore possibile da un po' di tempo a questa parte, ma ci sarà tempo per farci rimangiare di nuovo la parola. «Dopo tutti i problemi avuti in gara, mentre rimontavo mi ripetevo: "ce la posso fare, ce la posso fare". E ce l'ho fatta, sono senza parole». Ha detto a fine corsa Agostinacchio. Sembra la storia dell'uomo che cade da una palazzina di 50 piani, ("fino a qui tutto bene"), ma stavolta l'atterraggio è stato morbido. Ora l'edificio da cui lanciarsi diventerà sempre più alto, più lussuoso, ma è da lì che si parte per migliorare e rendere ancora più entusiasmante l'avventura, il volo, il viaggio o l'odissea, chiamatela come volete.
Il Prete Bello
La scena di ciclismo più bella nella storia del cinema italiano (per me, s’intende) è questa qui. Due ragazzi spingono a mano una bicicletta su per un sentiero, dentro a un bosco. Stanno andando a vedere passare una corsa ciclistica. Arrivano a un tornante e dietro a un cespuglio, seduto per terra, con la bicicletta da corsa stesa di fianco, c’è un corridore. Ha la maglia rosso-verde e il volto quasi nascosto da due grandi occhialoni anti-polvere.
Due ragazzi, due amici, Sergio, il piccoletto, e Cena, sono i protagonisti dei film di Carlo Mazzacurati, Il prete bello (1989), tratto dall’omonimo romanzo di Goffredo Parise, il suo più bello (sempre secondo me). I due ragazzi si sono “guadagnati” furbescamente una bicicletta alle spalle della signorina Immacolata che smania per le bellurie del vanesio don Gastone, il prete del quartiere, il “prete bello”, appunto, nella Vicenza degli anni Trenta del secolo scorso. La bicicletta è una Bianchi, ma è una sola, e Sergio e Cena sono due: per non stare l’uno a guardare l’altro che la usa, escogitano il sistema. Così lo descrive Parise nella pagine del suo romanzo:
"Nelle ore meno fredde del pomeriggio ci si allenava sul viale della Stazione: scoprimmo così che nessuno dei due arrivava con le proprie gambe dalla sella ai pedali; allora si risolse il problema infilando una gamba nel telaio, appesi al manubrio da un lato, ma successero litigi, malcontenti e risse perché il turno di uno veniva a risultare sempre più breve di quello dell’altro. Escogitammo allora un altro sistema; quello di far girare un pedale a testa, entrambi appesi ai due lati della bicicletta".
Ma torniamo alla scena del film. Il corridore si accorge dei due ragazzi, si alza e, sfregandosi le mani, dice: "Ehi, voi due, c’ho fame. Non è che avete qualcosa da mangiare?". Sergio stringe tra le mani un sacchetto di carta. Guarda Cena e, implorante, gli chiede: "Posso dargli il mio panino?". Cena scrolla le spalle. Sergio infila una mano nel cassetto, passa il panino al ciclista, ma prima che gli venga in mente di dargli anche l’altro Cena gli strappa dalle mani il sacchetto, agguanta il panino che resta e inizia a mangiare. "È già passato il gruppo?" chiede Sergio al ciclista rossoverde che mastica voracemente quell’insperato rifornimento e dice no con la testa e la bocca piena. Cena invece ha un’altra curiosità: "È difficile diventare ciclista? Pagano bene?". Sergio gli dà di gomito, perché sono domande che non si fanno. "Ma tu sei in fuga?" chiede Sergio. "Cinque minuti" risponde il ciclista, con le dita della mano bene aperte. Ma intanto in lontananza si sente arrivare un’automobile dalla strada. È la macchina del seguito: stanno cercando il corridore: "Dai, dai, rimonta in sella, che il gruppo sta arrivando". Il corridore inforca la bici e si butta giù per la discesa. "Oh, hai capito?" chiede Sergio esterrefatto a Cena. "Cosa?". "Quello era Bartali!". "Ma va!". "Sì, l’ha chiamato Gino!". Passa dopo un po’ il gruppo degli inseguitori, e Cena e Sergio si affacciano dal ciglio della strada sui tornanti sottostanti, dove vedono allontanarsi giù di sotto il corridore solitario in fuga. A gran voce, chiamano: "Ginoooo!", sbracciandosi per un saluto. Gino li sente, si volta e li saluta da lontano.
È una scena tenerissima. L’incontro inatteso e ravvicinato col campione dei loro sogni. L’emozione di avergli dato da mangiare, forse di averlo aiutato a vincere la corsa. E quel saluto di lontano, amichevole e anche grato. È una scena che si è inventato il regista, Carlo Mazzacurati, perché nel romanzo di Parise non c’è. Nel testo i riferimenti, nei giochi e nelle fantasie ciclistiche di Sergio e Cena, sono tutti ad Alfredo Binda e a Learco Guerra, i campioni della prima parte del decennio anni Trenta. La trama del romanzo si colloca sicuramente dopo il 1936, perché si fanno espliciti riferimenti alla guerra di Etiopia, che inizia nel 1935, e soprattutto a quella di Spagna, che comincia nel luglio del 1936, in cui addirittura ha partecipato don Gastone, come cappellano militare. A rigore, sarebbe stato possibile che Bartali ci entrasse nel romanzo, dal momento che fin dal 1935 aveva già corso il suo primo Giro d’Italia, vincendo anche una tappa per poi aggiudicarsi la corsa sia nel 1936 sia nel 1937. Ma Parise non ce lo mette. Mazzacurati invece “forza la mano” e fa comparire Bartali, in maglia Legnano, in una corsa, magari la Vittorio Veneto-Merano, una sua vittoriosa tappa del Giro del 1937. Del resto, a Carlo Mazzacurati piacevano le bici e le metteva volentieri nei suoi film. Nella scena iniziale di Notte italiana, del 1987, si vede una bimba che pedala su un argine del Delta, mangiando un gelato.
Ne La lingua del Santo (2000), Antonio Albanese e Fabrizio Bentivoglio sono due improbabili e coloratissimi mountain-bikers. E se non mi ricordo male, anche nei soliti paesaggi di provincia de La giusta distanza, a contorno di una meravigliosa Valentina Lodovini, girano delle biciclette. Insomma, per farla breve, il Bartali del Prete bello di Mazzacurati è un Ginettaccio apocrifo. Ma forse sarebbe piaciuto anche a Parise.
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