Adesso è tutto sul volto di Jonathan Milan, sotto il sole cocente di San Salvo. Basta fermarsi a guardare e si capisce perché in molti abbiano detto e scritto di quel viso da bambino, in un corpo da gigante. Succede ai bambini, in alcuni momenti, di voler piangere ed invece di ridere, succede ai bambini di lasciarsi andare ad un pianto poco dopo una risata così forte che pare risalire da un fondo così fondo che, crescendo, non si sa più come cercare. Milan era lì, con una mano sulla bicicletta, si guardava attorno, beveva, e i muscoli facciali facevano intuire un pianto che non usciva, un riso così forte che non si sa come ridere. Tutto sul suo volto, mentre vede, non rivede, la volata, perché per lui che l’ha costruita è la prima volta, e sembra dire: “Ma sono io? Ma sono proprio io?”. Nei giorni in cui ciascuno ha qualche certezza irremovibile, fa bene sapere che c’è Milan, fa bene sapere che il dubbio ci piace ancora, ci affascina, che il non riuscire a credere a ciò di cui si è stati capaci rende quel che si è fatto ancora più significativo, perché è la meraviglia a cambiare la lettura del circostante.

Poco fa, tutto era nelle gambe di Jonathan Milan, quelle che sentiva pronte, forti, energiche, potenti, eppure non si sa mai, non basta essere pronti per vincere, non basta essere preparati per farlo. Basta invece non essere pronti per perdere, non essere preparati per essere sconfitti. La legge del ciclismo, tremenda. Quelle gambe abituate al velodromo, alla pista, a sforzi enormi ed intensi, al fiato massacrato. Quelle gambe che, a febbraio, già avevano aperto un varco sul futuro. Sì, un varco, serve quello per farsi strada e andare: quello che Milan ha trovato anche oggi, mettendo nel sacco Dekker e Groves, mettendo nel sacco tutti gli altri, vincendo quasi per distacco.

La sua è l’essenza della potenza, forse, fra qualche anno, quando penseremo alla potenza potremo evocare Milan. Come si evocano le balle di fieno dorate pensando all’estate o i baci pensando agli amori. Chissà. Era nelle gambe di Milan ed è ancora lì, perché i muscoli non dimenticano, hanno una loro memoria, un loro ricordo di quello che hanno fatto, di quello che abbiamo fatto. Non solo. Tutto è stato ed è nel corpo di Jonathan Milan, in quelle spalle, in quelle mani, in quelle braccia che svuotano la felicità quel tanto che basta per farne arrivare altra, persino nei piedi che spingono sui pedali, che li schiacciano, per sviluppare velocità. Alto, forte, allo stesso tempo semplice, dalle reazioni genuine, dai pensieri genuini. Cammina continuando a sorridere, a guardarsi intorno, a cercare qualcuno o qualcosa su cui poggiare quella gioia, quasi avesse ancora bisogno di liberarla, di urlare o di correre o saltare.

Lo capiamo bene, dopo un pomeriggio in cui la noia aveva, a tratti, preso il sopravvento, con una fuga in testa ed il gruppo che ci gioca, scegliendo quando chiudere. Succede nelle tappe per ruote veloci, può succedere. Ci hanno detto che la noia non va evitata, ma vissuta, perché può essere creatività, può essere possibilità, che nella noia si scrive, si dipinge, si inventa, si gioca, si torna a giocare. Da quella noia avremmo voluto tirare fuori qualcosa di unico, usarla bene, non buttarla via, imparare a farlo. Avremmo voluto. Poi è arrivata la volata di Jonathan Milan e la realtà ha tirato fuori il meglio di tutto quel che c’è nell’immaginazione. Quanto è stata bella anche quella noia, quanto è bella ora questa felicità.