Si può pedalare anche da soli ed è ugualmente bello, ma si sta meglio quando si sa che, volendo, si può fare una telefonata e qualcuno è pronto a mettere scarpini e casco, scendere in garage, prendere la bicicletta e arrivare. Valeria Zappacosta ci ha pensato proprio mentre andava ad incontrare una sua amica, proveniente dal Veneto, in Abruzzo per qualche settimana in estate. «Credo che la possibilità di quella telefonata, di quel messaggio per dire “vieni via con me”, sia importante, anche se poi si sceglie di andare da sole. Certe volte sono le possibilità che ti fanno partire. Anche nel più piccolo dei paesi c’è sicuramente qualcuno con lo stesso nostro desiderio di scendere in garage, salire in sella e andare. Qualcuno che, magari, non parte nemmeno, perché si sente solo o per altri motivi».
Valeria ha la certezza che questa sensazione riguarda tutti e ha riguardato tutti almeno una volta. Ha pensato che, forse, riguarda ancora di più le donne perché le è capitato, purtroppo, di sentire dire che «il ciclismo è uno sport maschile» e, ancora prima, le è capitato di essere in sella, da sola, e sentirsi dire che «quella salita è complessa, quel giro è troppo lungo, dovresti farlo in compagnia». Altre parole sbagliate, dette senza alcuna attenzione, gliele hanno raccontate. «Sai il bisogno primario che tutti abbiamo? Essere ascoltati ed essere ascoltati davvero, non per abitudine o perché non se ne può fare a meno. Essere ascoltati e sapere che gli altri si ricordano ciò che hai detto, si ricordano come ti senti, come ti sei sentito oppure ciò che ti fa paura, ciò che non vorresti. Ho scoperto che la bicicletta è il mezzo ideale per ascoltare».
“Pedale Rosa” è quella possibilità di una telefonata e di una pedalata assieme, quando si capita nel paese di quella ragazza che si è conosciuta solo perché va in bicicletta come te. In realtà una definizione vera e propria non c’è, «perché è sbagliato etichettare qualcosa solo con ciò che rappresenta per te, impedendo agli altri di riconoscersi. Per ciascuna quella possibilità è qualcosa di diverso e rappresenta qualcosa di diverso». Per esempio, c’è chi in sella non saliva perché non si sentiva apposto con il proprio fisico e con tutte quelle parole sbagliate si era convinta che davvero non stesse bene in bicicletta. Poi ci è salita, quest’anno, durante il Giro d’Italia e, dopo qualche attimo, ha capito che, in realtà, lei in sella stava bene, soprattutto che si sentiva bene.
Monica Marucco fa parte di questo gruppo e a quel “sentirsi bene” offre una propria risposta: «Significa sentirsi a proprio agio e, anche se non lo ammettiamo, come esseri umani spesso ci sentiamo a disagio nelle situazioni quotidiane. Trovare qualcosa che ci fa sentire davvero a nostro agio è un buon rimedio perché alleggerisce anche le altre situazioni. La bicicletta è questo, la bicicletta può essere questo». Si trova ciò che fa stare bene e poi si cercano le persone con cui condividerlo. «Sì, perché una parte dell’essere a proprio agio dipende anche dall’essere messi a proprio agio. In sella, questo passa dal condividere un ritmo, una velocità, un modo di intendere la bicicletta». C’è chi partecipa a gare, chi a Granfondo e chi, semplicemente, sta scoprendo il piacere di arrivare in un luogo solo con le proprie forze, quel piacere e quella fatica che rendono più importanti i luoghi, più forti i ricordi. Qualcosa che rende orgogliose di quel gesto e di ogni piccolo passo avanti.
Già, perché in bicicletta, alla fine, si viaggia. Latifa, un’altra ragazza che ha cercato la possibilità di quella telefonata, di quel “vengo anche io” ne ha parlato proprio con Valeria. «Era un desiderio, dapprima, ora è un progetto perché ha iniziato a studiarlo. Vorrebbe pedalare dall’Italia sino al Marocco, per unire la sua terra d’origine e quella in cui vive. Due forme diverse del suo presente, perché la terra in cui nasci resta sempre». Latifa farà questo viaggio e due culture si incontreranno. In Italia farà questo viaggio affiancata dalle cicliste che di questo gruppo fanno parte. Questo fa pensare.
Perché, ad oggi, i mezzi per “connettersi”, ovvero per incontrarsi, sono molti, altamente tecnologici, in grado di mettere in contatto molte persone, eppure una delle connessioni che tutti conosciamo si riconduce alla bicicletta «che è un mezzo antico, sempre uguale nelle proprie linee base, seppur proiettata nel futuro» continua Monica. Se la domanda è perché, la risposta è puntuale: «Perché permette un incontro reale, perché il gruppo che forma è reale, non solo virtuale. Reale anche se le persone vivono a molti chilometri di distanza perché prima o poi ci si conosce». E la conoscenza che si fa in bicicletta è particolare perché toglie molte sovrastrutture, apre al racconto della propria persona anche dopo un semplice saluto e soprattutto restringe lo spazio per il giudizio.
«Sì, perché, se ci si fa caso, in bicicletta si tende a focalizzare l’attenzione sul miglioramento- spiega Valeria- su ciò che è cambiato in meglio rispetto alla volta precedente. Fosse anche solo un dettaglio. Non è poco». Così, per incontrarsi, si possono percorrere anche trecento chilometri e cambiare paese, città, regione, anche da sole, senza un motivo preciso perché, ci dice Monica, «quando fai tue alcune consapevolezze, quelle che ti portano a concentrarti su quello che sei e che vuoi o non vuoi fare, il resto passa in secondo piano, non sprechi tempo perché sai che il tempo in bicicletta è prezioso. Non per forza per andare più veloci degli altri e arrivare prima. Si può anche andare lentamente. Importante è il tempo in cui, grazie alla bicicletta, ti senti meglio. E non vedi l’ora di ripartire».
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