«Ti racconto questa: sai a che ora sono andato a letto la sera prima del giorno in cui ho vinto la Coppa d’Oro? Alle quattro del mattino. Eravamo in questo albergo a far baccano con i miei compagni e il sonno non veniva mai. Sono andato a letto a quell’ora ed il giorno dopo ho vinto. Non lo dico per vantarmi. Lo dico perché oggi una cosa di questo tipo non accadrebbe più ed è un peccato». L’intervista con Alberto Bettiol scorre fluida, all’ora di cena di una gelida serata di novembre, tra la sua parlata toscana, qualche risata e diversi aneddoti. Ogni racconto, anche se giocoso, scherzoso, contiene un insegnamento. Ed è questa la migliore forma di leggerezza, quella che è in grado di riflettere profondità schivando la pesantezza.
«Ci sono gli sponsor che investendo vogliono risultati e i direttori sportivi che, forse poco consapevoli, si rifanno sui ragazzi. Parliamo di bambini di otto, dieci, anni che fanno i rulli o che ricevono in regalo biciclette in carbonio e pedali da professionisti. A cosa serve quella bicicletta ad un bambino che deve fare dodici chilometri? Così si bruciano le tappe e quei ragazzi divenuti allievi non vivranno più quegli entusiasmi che, per esempio, io ho vissuto. La mia prima bicicletta in carbonio, l’ho avuta da juniores, a sedici anni, e per assurdo pesava di più di quella in alluminio perché era un carbonio grezzo ma a me sembrava di aver sotto una Ferrari. Quando ho avuto il mio primo potenziometro, il mio primo srm, da professionista mi sentivo una divinità in terra. Molte volte sono anche i genitori che, credendo di fare del bene, esasperano ogni situazione. In realtà si arriva a casi gravi, a ragazzi che diventano anoressici o bulimici per inseguire le brame genitoriali. Io dico sempre di dover ringraziare i direttori sportivi e le persone che hanno consigliato il mio babbo quando ero piccolo. Hanno sempre detto che avevo delle capacità ma hanno evitato ogni esasperazione. Anche la società, oggi, va in una direzione opposta con la continua ricerca dei risultati. Ma che senso ha il protocollo cerimoniale nelle gare dei più piccoli? Ai bambini non interessa, i bambini di quel risultato si ricordano per pochi minuti, poi vogliono andare a giocare a basket, a calcio, a passeggiare in compagnia nei prati. Il bello in quell’età è proprio questo. Per me il ciclismo era la possibilità di andare lontano da casa, di stare fuori a dormire, di festeggiare con gli amici la fine dell’anno o il capodanno, di stare insieme, di fare gite. Mi sembra che tutto questo si stia perdendo nonostante i tanti volontari che investono soldi propri per aiutare i ragazzini, per portarli alle gare. Nonostante la loro dedizione».
Lugano, dove abita ora Bettiol, è lontano da quel condominio di Castelfiorentino in cui tutto è cominciato: «Noi abitavamo al terzo piano, al secondo c’era il presidente della società locale di ciclismo. Avessi abitato in un altro condominio forse questa storia non sarebbe mai iniziata. Papà mi ha accompagnato ad iscrivermi alla società ma ho continuato anche a fare altri sport. C’era lo studio, c’erano gli amici e tante altre cose che, in quel momento, venivano prima del ciclismo. Può essere che una passione diventi un lavoro ma è un percorso per cui serve tempo. Un percorso graduale in cui i dubbi e i ripensamenti sono all’ordine del giorno, giustamente direi». A Castelfiorentino, in realtà, Bettiol ci è ritornato a fine stagione, lì ha festeggiato il suo compleanno: «Puoi immaginare la gioia di mamma, saranno stati più di cinque o sei anni che non ero a casa con loro il giorno del compleanno. Solitamente ero in vacanza in paesi caldi. Quest’anno non si può ma comunque mi sono regalato delle belle giornate». La sorella della mamma di Alberto Bettiol è insegnante e ha sempre insistito perché Alberto studiasse: «Mi ero anche iscritto all’università ma poi la mia facoltà richiedeva la presenza, quando ho siglato il mio primo contratto, mi sono fermato. Avevo un lavoro, avevo una sicurezza economica. Forse a mia mamma quella scelta non è piaciuta sul momento ma non si poteva fare altro. Ma anche lì: non sai quante volte mi sono chiesto se davvero volevo fare questo. Anche al passaggio a professionista, tante volte mi sono detto: vale la pena fare così tanta fatica per arrivare novantesimo? Sono davvero convinto di quello che sto facendo? Ma io non voglio fare solo questo, io voglio studiare, voglio imparare. Cosa sto facendo? Sono ancora qui perché ho stretto i denti e perché ho trovato persone che mi hanno aspettato con una rara pazienza. Una pazienza che oggi manca. Ai giovani lo dico sempre: il problema non è passare professionisti, il problema è fare i professionisti e restare sempre professionisti». Il ciclismo di Bettiol è medicina «per non pensare a questa situazione, per sentire ancora una parte di normalità» e routine da cui, ogni tanto, staccare la spina: «Riposo, per me, è anche solo la consapevolezza di svegliarsi la mattina e non dover scegliere maglia, guanti, calze, casco e orario per uscire. Ogni tanto staccare è salutare».
Alberto Bettiol è un ragazzo estroverso: «Rido, scherzo, mi racconto molto ma c’è una linea di confine. Per gli affetti e le cose a cui tengo di più ho una cura particolare, queste cose le sanno in pochi, in pochissimi». Quella cura che, forse, è più difficile da preservare dopo la vittoria al Fiandre, l’anno scorso: «Mi dicono tutti che ho fatto un’impresa, che è una vittoria importantissima e mi elogiano. L’altra parte di quella vittoria, però, non la vede nessuno. Ho perso quell’irriconoscibilità, quel silenzio attorno che certe volte è necessario. Non solo sono più controllato in gruppo ma anche nella vita di tutti i giorni. Se Alberto Bettiol non pubblica nulla sui social per qualche giorno sono tutti a chiedersi che fine abbia fatto, cosa sia successo. Sono senza dubbio di più i lati positivi di quelli negativi ma esiste anche l’altro lato della medaglia. Io mi concentro su di me, sulla mia persona. Io sono più importante, poi viene il resto: è l’unico modo per affrontare la situazione». La prima volta in cui Bettiol ha rivisto integralmente quella gara è stato il 7 aprile di quest’anno, nel corso di una replica: «Non amo particolarmente rivedermi. Volevo invece tornare in quei luoghi a passeggiare da solo, a piedi. A guardarmi attorno, incontrando la gente, quella gente, che ha un legame così viscerale col ciclismo. Alcuni erano lì quel giorno. Cosa ho fatto quel giorno, l’ho capito quando sono tornato nelle fiandre quest’anno. L’avevo intuito dall’atteggiamento del pubblico alle gare, da tutte le telefonate arrivate a mamma, papà e a mio fratello, dalla Rai ad attendermi in aeroporto al ritorno. Pensa che, la sera stessa, telefonarono a mio papà per fare delle riprese a casa mia. Lo dico sempre: se il Fiandre lo avesse vinto Sagan, Alaphilippe, Gilbert o Cancellara non sarebbe stato così. Invece lo ha vinto Bettiol e nessuno se lo aspettava. Questo è speciale».
E la pressione? Come si gestisce la pressione che una vittoria del genere comporta? «L’unica pressione che mi resta addosso è quella che mi metto io. A me gli appuntamenti importanti, caricano. Se so che devo correre il mondiale mi gaso, faccio tutto il possibile per arrivarci al meglio, torno dagli allenamenti arrabbiato se non riesco a correre come vorrei e, stai tranquillo, che non sbaglio. Quello che dicono gli altri è relativo. Di più. Quello che dicono gli altri è spesso condizionato da quello che diciamo noi. A me fanno sorridere le colpe date alla stampa. Voi scrivete quello che diciamo noi. In un certo senso invidio i giovani che fanno dichiarazioni mirabolanti. Beati loro che hanno tutte queste sicurezze. Io non ci riesco. Io posso dire che mi impegnerò al massimo, che farò il possibile ed anche di più, ma non mi metterò mai, da solo, fra i favoriti di una corsa. Non mi appartiene caratterialmente e credo sia un bene».
Lo è, Alberto. Lo è.
Foto: Claudio Bergamaschi