Alex Dowsett, qualche anno fa, ha rischiato di non essere più quello che tutti conosciamo oggi. Quello che, in fondo, era sempre stato. Può succedere nella vita. Può succedere quando ti metti a fare qualcosa e scopri che ti riesce abbastanza, di più, scopri che sei proprio bravo a fare quella cosa. Che hai un talento. Dowsett, tra il 2013 e il 2014, ha capito di essere un asso nelle prove contro il tempo: oro ai Giochi del Commonwealth, sei volte campione britannico, Record dell’ora nel 2015 e piazzamenti di prestigio internazionale. Il talento è prezioso, certo. Ma ha una doppia faccia, come tutte le cose. Può farti perdere il contatto con la realtà, può convincerti di essere superiore agli altri, non più bravo in un determinato campo, quello ci sta, proprio superiore. Può portarti ad atteggiamenti di superbia. Può accadere a tutti, forse ci sono più probabilità che accada a chi magari, per arrivare a quel punto, ha sofferto molto, a chi, per qualunque motivo, non credeva in alcun modo di poterci arrivare, alle persone che nessuno credeva avrebbero potuto arrivarci. Non tanto o non solo per mancanza di fiducia nelle loro possibilità ma perché la natura ci ha messo lo zampino. Ecco, quando accade così, e tu arrivi a dimostrare a tutti il tuo talento, e arrivi comunque ad avere successo, puoi reagire in due modi: ricordandoti di te da ragazzo e provando a fare qualcosa per i ragazzi e le ragazze che oggi sono come te, oppure puoi reagire altezzosamente, senza controllare quel senso di rivincita col mondo che ti porti dentro. Un senso di rivincita che non è detto sia negativo ma, come tutte le pulsioni, ha bisogno di essere incanalato, di essere indirizzato, affinché non sia sprecato. Affinché sia “meritato” e lo si renda utile, seme e non erba cattiva.
Ad Alex Dowsett stava succedendo questo, perché quel senso di rivincita era deragliato, fuori controllo e Alex aveva dimenticato il motivo che lo aveva portato lì e se dimentichi il motivo per cui fai qualcosa, hai scordato tutto. Poi ci furono le parole di una signora in Portogallo. Una signora che non lo conosceva, o meglio, una signora che conosceva quello che era Alex Dowsett e non quello che stava diventando. Gli disse: «Grazie infinite, Alex. Ora so che mio figlio potrà condurre una vita normale». E Dowsett ricordò. Ricordò le corse in ospedale perché, quando da bambino si tagliava, anche per un minimo taglio, il sangue usciva a fiotti, non si arrestava più. Ricordò l’ansia dei suoi genitori, le paure per qualunque cosa facesse. Alex Dowsett scoprì così di essere emofiliaco: il suo sangue non coagulava bene e per rimediare a questo servivano delle iniezioni. Ma in realtà serviva molto di più, era necessario convincere tutti gli adulti che lui avrebbe potuto essere esattamente come loro. Dowsett, quel giorno, ricordò questo, ricordò i compleanni degli amici, a cui non veniva invitato per paura di quello che sarebbe potuto succedere se solo fosse caduto, se solo si fosse sbucciato un ginocchio. E pensare che Alex aveva imparato sin da bambino a farsi da solo quelle iniezioni ma le persone hanno paura, anche giustamente, se vogliamo, e non puoi farci niente.
E c’erano le storie che papà gli raccontava abbracciati sul divano: storie di sport, perché Phil Dowsett, questo il nome del padre, era stato un pilota di British Touring Car. Papà avrebbe tanto voluto che un domani fosse proprio Alex a fare da cantastorie per altri bambini, per i suoi figli. Forse per questo lo iscrisse a nuoto, perché voleva che il futuro del figlio fosse un futuro da raccontare, fosse un futuro di cui andare fieri. Sì, perché quell’istinto di rivincita verso ciò che ci capita lo abbiamo noi stessi ma prima di noi lo hanno, per noi, le persone che ci vogliono bene, i nostri genitori. A papà Phil piaceva immaginare Alex mentre raccontava storie a un nipotino perché questo voleva dire che suo figlio avrebbe potuto viverle quelle storie. Che suo figlio avrebbe potuto avere “una vita normale”. Suo papà voleva esattamente quello che voleva quella signora e presto capì che l’unico modo per regalare una vita normale ad Alex era lasciargliela vivere come desiderava. Alex Dowsett desiderava correre in bicicletta.
Fu così che Alex Dowsett tornò ad essere il vero Alex Dowsett. Inizia in questo modo il racconto che questo ragazzo ha portato nelle città e nelle scuole con associazioni e campagne di sensibilizzazione. Per dire che è normale avere paura, sua mamma la ha ancora per le corse del figlio, ma l’emofilia è qualcosa con cui convivere, qualcosa da cui non farsi paralizzare, perché la medicina avanza e le cure ci sono. Lo testimonia lui, primo ed unico atleta professionista emofiliaco. Questa è la sua storia da raccontare a tutti e da gennaio a suo figlio. Già perché il desiderio di papà si è avverato e Alex diventerà a sua volta papà. Parlerà di tantissime cose con quel bambino, gli dirà che contro la paura si può sempre fare qualcosa e che la tua paura non è sprecata se serve a far coraggio ad altri. Poi gli racconterà delle gare e di quel giorno d’autunno in cui vinse una tappa al Giro d’Italia mentre piangeva e diceva che il futuro era tutto lì. E farà tanto perché queste storie non finiscano mai, perché l’immaginario di suo figlio sia il più variegato possibile. Un mese prima della nascita, per esempio, tenterà un nuovo record dell’ora e se ci riuscirà sarà ancora più felice perché quel bambino saprà che ancora una cosa in più è possibile.
Ad Alex Dowsett stava succedendo questo, perché quel senso di rivincita era deragliato, fuori controllo e Alex aveva dimenticato il motivo che lo aveva portato lì e se dimentichi il motivo per cui fai qualcosa, hai scordato tutto. Poi ci furono le parole di una signora in Portogallo. Una signora che non lo conosceva, o meglio, una signora che conosceva quello che era Alex Dowsett e non quello che stava diventando. Gli disse: «Grazie infinite, Alex. Ora so che mio figlio potrà condurre una vita normale». E Dowsett ricordò. Ricordò le corse in ospedale perché, quando da bambino si tagliava, anche per un minimo taglio, il sangue usciva a fiotti, non si arrestava più. Ricordò l’ansia dei suoi genitori, le paure per qualunque cosa facesse. Alex Dowsett scoprì così di essere emofiliaco: il suo sangue non coagulava bene e per rimediare a questo servivano delle iniezioni. Ma in realtà serviva molto di più, era necessario convincere tutti gli adulti che lui avrebbe potuto essere esattamente come loro. Dowsett, quel giorno, ricordò questo, ricordò i compleanni degli amici, a cui non veniva invitato per paura di quello che sarebbe potuto succedere se solo fosse caduto, se solo si fosse sbucciato un ginocchio. E pensare che Alex aveva imparato sin da bambino a farsi da solo quelle iniezioni ma le persone hanno paura, anche giustamente, se vogliamo, e non puoi farci niente.
E c’erano le storie che papà gli raccontava abbracciati sul divano: storie di sport, perché Phil Dowsett, questo il nome del padre, era stato un pilota di British Touring Car. Papà avrebbe tanto voluto che un domani fosse proprio Alex a fare da cantastorie per altri bambini, per i suoi figli. Forse per questo lo iscrisse a nuoto, perché voleva che il futuro del figlio fosse un futuro da raccontare, fosse un futuro di cui andare fieri. Sì, perché quell’istinto di rivincita verso ciò che ci capita lo abbiamo noi stessi ma prima di noi lo hanno, per noi, le persone che ci vogliono bene, i nostri genitori. A papà Phil piaceva immaginare Alex mentre raccontava storie a un nipotino perché questo voleva dire che suo figlio avrebbe potuto viverle quelle storie. Che suo figlio avrebbe potuto avere “una vita normale”. Suo papà voleva esattamente quello che voleva quella signora e presto capì che l’unico modo per regalare una vita normale ad Alex era lasciargliela vivere come desiderava. Alex Dowsett desiderava correre in bicicletta.
Fu così che Alex Dowsett tornò ad essere il vero Alex Dowsett. Inizia in questo modo il racconto che questo ragazzo ha portato nelle città e nelle scuole con associazioni e campagne di sensibilizzazione. Per dire che è normale avere paura, sua mamma la ha ancora per le corse del figlio, ma l’emofilia è qualcosa con cui convivere, qualcosa da cui non farsi paralizzare, perché la medicina avanza e le cure ci sono. Lo testimonia lui, primo ed unico atleta professionista emofiliaco. Questa è la sua storia da raccontare a tutti e da gennaio a suo figlio. Già perché il desiderio di papà si è avverato e Alex diventerà a sua volta papà. Parlerà di tantissime cose con quel bambino, gli dirà che contro la paura si può sempre fare qualcosa e che la tua paura non è sprecata se serve a far coraggio ad altri. Poi gli racconterà delle gare e di quel giorno d’autunno in cui vinse una tappa al Giro d’Italia mentre piangeva e diceva che il futuro era tutto lì. E farà tanto perché queste storie non finiscano mai, perché l’immaginario di suo figlio sia il più variegato possibile. Un mese prima della nascita, per esempio, tenterà un nuovo record dell’ora e se ci riuscirà sarà ancora più felice perché quel bambino saprà che ancora una cosa in più è possibile.
Foto: Pentaphoto