Per Alice Maria Arzuffi sarà stato come tornare a casa, dal fango e dalla terra. Quella che Alice conosce talmente bene da prevederne caratteristiche e qualità. Quella “del Belgio” come dice lei e in quell’appartenenza del fango c’è già tutto: «Quando ti togli i vestiti, quando ti togli le scarpe e le metti da lavare, vedi uscire terriccio e fango mescolati. Fatichi a distinguerli ma li senti fra le mani quando strizzi le magliette. Serve una settimana per purificare completamente gli abiti, servono più lavaggi. La sabbia, perché quella belga è sabbia, filtra ovunque. Non riesci a spiegarti da dove provenga, sembra quasi che si rigeneri tra i tessuti». E sembra di sentire quella particolare sensazione del fango che schizza e ti ricopre la pelle, quasi una crosta in più strati che solidifica secondo dopo secondo per tornare a colare al primo contatto con l’acqua, arriva ovunque, anche in viso e perfino sotto gli occhiali che indossi per proteggerti. Non puoi nemmeno aiutarti con le mani, intanto perché sono ricoperte da guanti di fango e poi perché quei granelli, che trasudano umidità, screpolano la pelle e bruciano a contatto con gli occhi. Devi stare ferma, devi pedalare, serrare la bocca con tutti i muscoli per evitare che la terra finisca pure lì e pensare solo a far scorrere quelle ruote, che ora pesano più che mai, nella terra. La doccia del dopo corsa laverà l’inferno o almeno quello che per molti è inferno. Per Alice no, per Alice quella è fatica, tanta, passione, altrettanta altrimenti non sarebbe lì, volontà di interpretare e inventare ma soprattutto è un ricordo. Un ricordo d’infanzia.
«Sai, quando le mie colleghe mi chiedono stupite come faccia a correre in queste condizioni, tutta sporca, non so cosa rispondere. In realtà io sto bene quando faccio ciclocross. Forse anche per questo nel tempo ci ho pensato, ho pensato all’origine di questa passione. Credo di averla rintracciata in una abitudine che avevo sin da bambina. Dico sempre che mi piaceva “sporcarmi le mani”, intendo che mi piacevano tutti i giochi in cui ci fosse da mescolare, da impastare, creare con le mani. Giocavo con la farina, cucinando, con il pongo e anche con le tempere. Ecco, per esempio, mi piaceva colorare con i pennelli ma preferivo colorare direttamente con le mani. Immergevo le mani nel colore e poi lasciavo le impronte sui fogli. Talvolta anche sul muro, sono sincera». Sarà quella fisicità ciò che Arzuffi ritrova nei percorsi del Belgio mentre, là fuori, l’odore delle patatine fritte si mescola a quello della birra e la fuliggine autunnale nasconde i contorni di una natura morente. Forse, poi, in questo periodo di distanze forzate, quella tangibilità sarà ancora più preziosa, sarà come ritornare a sintonizzarsi con tutto quello che c’è attorno. Alice Maria Arzuffi che da bambina danzava e avrebbe voluto imparare ad andare a cavallo. Al ciclismo è arrivata grazie alla cugina, Maria Giulia Confalonieri, che si è iscritta ad una squadra proprio in quei giorni. Così, oggi, Alice e Maria Giulia vivono di sguardi che parlano la stessa lingua e di parlare non hanno nemmeno bisogno. Uno sport che Arzuffi definisce «futurista, come una sorta di opera di Giacomo Balla per dinamismo e vivacità delle sue componenti». Proprio grazie al ciclismo ha imparato a fronteggiare l’altra sua anima, quella estremamente emotiva, quella retta da una mente che non si ferma mai.
«La mia testa è in continua azione, non ho quasi mai un attimo di tregua. Ragiono su quello che è accaduto, progetto quello che accadrà, non senza ansie e nervosismi. Maria Giulia, scherzando, dice che sono sempre arrabbiata. Non sono arrabbiata ma, spesso, sono tesa. Ed è questa ansia, questa tensione, a togliermi serenità e a penalizzarmi in corsa. Per fare bene il proprio lavoro serve tranquillità, serve serenità. Devi avere la mente sgombra per affrontare lucidamente le difficoltà che ti troverai davanti». In quei momenti in gara la sfida è anche una sfida mentale: «Quando facciamo fatica, troppa fatica, tutti ci sentiamo impotenti. Sai perché? Perché, in quei momenti, non riusciamo a vedere il momento in cui la difficoltà finirà, in cui arrivando in vetta torneremo ad alleggerire il rapporto e a distendere i muscoli. Quel momento invece c’è e non te lo porterà via nessuno, a patto di resistere per quell’attimo. Il segreto è superare quell’attimo. Poi ce la fai. Questo non lo penso solo quando sono in salita o in mezzo al fango. Lo penso anche quando devo fronteggiare i sacrifici che la vita da ciclista impone. La fatica è temporanea, ricordiamocelo. il mio primo allenatore, Daniele Fiorin, ce lo diceva quotidianamente. La vita da ciclista non durerà per sempre, non sarà sempre così. Stringete i denti e resistete oggi. Datevi motivazioni per non mollare oggi, vi aiuteranno anche domani».
Foto: Bettini