Quel giorno di venticinque anni fa, alla stazione di Monza, Andrea Pusateri scappò dalle mani della madre mentre stava transitando un treno. Aveva solo tre anni e nell’impatto perse entrambi gli arti inferiori, sua madre diede la propria vita per salvarlo. Solo il tempestivo intervento dei medici ha permesso ad Andrea di recuperare la gamba sinistra. Mesi di ospedale e poi il ritorno a casa, dai nonni che l’hanno cresciuto. «Mi hanno insegnato che nella vita bisogna essere felici perché solo la felicità rende liberi. La libertà vera non esiste quando sei triste, deluso o arrabbiato. Devi essere felice per scovarla». Andrea ricorda bene che tanto i nonni quanto lo zio cercarono da subito di avvicinarlo allo sport e oggi capisce perché.

«Le discipline paralimpiche di fine anni ‘90 avevano quasi nulla a che vedere con quelle odierne. Portavano, però, la consapevolezza che nello sport gli ostacoli vanno superati e che non ottieni quello che desideri se non con la tua fatica e il tuo sudore, il tuo talento e il tuo merito». Una consapevolezza che si fa strada col tempo e si espande in ogni scelta. Andrea assiste alle gare in bicicletta di un amico: la bicicletta gli piace, ciò che fa il suo amico lo affascina e non capisce perché non possa riuscire anche a lui ad andare in bicicletta. Ripensandoci oggi ha chiaro come tutte le scelte più importanti della sua vita siano nate così, da un «perché non posso farcela anche io?».

Quella bicicletta nel tempo è diventata un lavoro, ma è alle origini che si spiega tutto. «Ho subito pensato che su una bicicletta, in un gruppo, succede come succede nella vita. Puoi avere tante persone accanto a te, amici o meno, ma, se non sei tu a decidere di salvarti, di concederti una possibilità, nessuno può fare qualcosa per te. Nemmeno la tua squadra, che è poi la tua famiglia, tutte le persone che vorrebbero aiutarti. Senza il tuo permesso, senza il tuo primo passo, non possono fare nulla». Allenamenti su allenamenti, nel 2008 la prima gara a Varese, e, nel 2014, con la prima medaglia in Coppa Europa, la sensazione di avercela fatta.

Questione di attimi, di illusioni perdute e ritrovate. Solo un anno dopo, mentre si allena, Andrea cade e sbatte violentemente la testa per terra. Un’altra corsa contro il tempo, una settimana di coma farmacologico e tutte quelle voci, quelle che per qualche attimo rischiano di farti credere che questa volta è davvero finita. Quasi che la tua storia, fino a quel momento, sia stata troppo bella per essere vera. Raccontatelo ad altri, non ad Andrea che tre mesi dopo, a Maniago, vince la Coppa del Mondo. «Non posso raccontarti quello che ho provato, posso dirti che quella felicità non l’ho mai più provata e mai più la proverò probabilmente. È la felicità di quando capisci che tutto ciò che ti avevano detto è vero, che, se vuoi, puoi farcela. Quasi sempre».
Proprio perché ha toccato con mano la felicità di cui parlavano i nonni, Andrea non accetta altro. Nel 2019 ha lasciato il ciclismo per dedicarsi all’Ironman. «Molte cose sono cambiate, migliorate, certamente. Ma il mondo del paraciclismo è un mondo che non può andare avanti così. Eravamo considerati sportivi di serie D, non so di chi sia la colpa, probabilmente di più persone e tutti dovremmo fare qualcosa per cambiare». Con la disabilità ha sempre avuto un rapporto sereno, forse anche per il suo carattere: ama ridere, scherzare e del giudizio degli altri si disinteressa. «Ogni persona è diversa e deve vivere la disabilità come crede. Il ciclismo, lo sport, possono aiutarti a tirare fuori quella parte di te che in certe situazioni resta schiacciata dagli eventi».

Tutto in una cornice relativa perché così è la vita, spiega sorridendo. Andrea lo ha capito guardando i suoi due cani: «Mi hanno cambiato perché ho visto che le cose che davvero contano sono poche. Certe volte, immersi nella quotidianità, ce lo scordiamo e finiamo per vivere male. Anche lo sport è una parte della vita e tale deve restare, senza esasperazioni».