Andrea Vendrame è un’opera puntinista. Le opere puntiniste hanno questa caratteristica: ogni dettaglio, ogni puntinismo, sembra quello che è e tanto altro se proiettato al di fuori della cornice in cui è inserito. Un dettaglio che si scompone e si ricompone tramite le pupille che lo fissano. Lo stesso dettaglio, però, è imprescindibile per l’opera che lo comprende. Ogni singolo punto è essenziale, come una finissima tessitura. Vendrame è così. Ti si presenta con quell’aria ironica e scanzonata che è il non plus ultra dell’intelligenza. Sa tenere attento l’ascoltatore e lo fa con gli aneddoti di cui infarcisce il racconto: «A maggio avevo detto al mio procuratore, Carera, che avrei voluto correre in Francia, in una squadra francese ed essere l’unico italiano. Abbiamo analizzato le diverse proposte e scelto per l’Ag2r La Mondiale. Arriva il giorno di partire per il ritiro. Il primo giorno ci aspetta una passeggiata nei boschi, tutti assieme. Devo dire che mi ero accorto che fra loro i ragazzi parlavano solo francese e scrivevano solo in francese ma ero fiducioso. Mi dicevo: “Ma sì, dai. Adesso ti chiederanno se parli francese, ti parleranno in inglese o faranno qualcosa”. Il francese non lo conoscevo molto bene, non mi restava che aspettare. Tu pensi che qualcuno sia venuto da me? Ma figurati! Non mi filavano proprio. Ho preso il telefono e, appena sono rimasto solo, ho chiamato il mio procuratore: “Puoi parlare? No, volevo chiederti: ma che scelta sbagliata abbiamo fatto?”». Ad ogni aneddoto una sensazione diversa. Ci sono casi, come quest’ultimo, in cui si ride assieme e altri in cui emerge un profondo senso di fierezza.
«Sono molto legato al mio successo alla Tro Bro León. In parte perché non me lo aspettavo assolutamente e, come tutte le cose inaspettate, è più bello. In parte per come è maturato. Ad un certo punto ho chiesto all’ammiraglia se qualcuno potesse portarmi una borraccia d’acqua. Prima non risponde nessuno, poi sento la voce di Cheula: “Vieni a prenderla tu, sei rimasto da solo”. Sono riuscito a vincere una corsa da solo. La sera sono tornato in albergo con la consapevolezza di chi sa che sta facendo il mestiere che fa per lui. L’anno scorso, al Giro, sono arrivato secondo nella diciannovesima tappa, dopo due salti di catena. Mi è spiaciuto per il secondo posto ma ho fatto un’ulteriore scoperta: quanto la gente riesca a ricordarsi di te e ad immedesimarsi nelle tue sfortune. Ho sentito tanta vicinanza, tanta immedesimazione». Questa ironia di Vendrame, questo piacere nel raccontare, viene da lontano. Da un passato che ne è l’esatto contrario. Già, perché Andrea Vendrame ha dovuto meritarselo questo sguardo sulle cose e lo ha fatto nell’unico modo possibile: «I miei genitori sono separati. Mio papà non ha mai digerito molto questa mia scelta. Mi diceva che non sarei mai riuscito a sfondare, a diventare un campione. Mi consigliava di lasciar perdere, mi spiegava che avrei dovuto mettere la testa a posto e cercarmi un lavoro. Discutevamo molto quando ero ragazzo. Io volevo fare il ciclista, avevo mia mamma e mio zio che mi appoggiavano e proseguivo per la mia strada. Papà si è ricreduto dopo, quando sono passato professionista e sono arrivati i risultati. Forse anche troppo facile così, ma è quanto è successo. I nostri rapporti sono migliorati in quegli anni».
Non è mai stato facile. In parte perché facile non è mai e in parte perché le vicende della vita ci mettono sempre del loro. Il sette aprile del 2016, mentre è in allenamento, Andrea Vendrame viene investito da un’auto proveniente dal senso di marcia opposto: «Se non avessi avuto il carattere che ho, non credo che mi sarei mai rialzato da quel giorno. Ero distrutto. Lo ammetto: nei giorni dopo l’incidente ho davvero avuto paura che fosse tutto finito. Per qualche tempo mi sono anche convinto a cercarmi un lavoro come diceva papà, sfruttando il mio diploma. Poi, per fortuna, le cose sono ripartite». Sul tema della sicurezza stradale l’affondo più severo: «Perché non proviamo a guardare quello che accade negli altri stati? Da noi continuiamo a parlare del metro e mezzo di distanza e di piste ciclabili. Secondo me bisognerebbe ampliare la visuale. Ci rendiamo conto che abbiamo piste ciclabili che escono accanto ad abitazioni familiari? Noi magari andiamo a quaranta all’ora: come facciamo ad usufruire di quelle piste? Esce una macchina dall’abitazione e ti carica sul cofano. Se va bene sei tutto rotto, se va male non ci sei più. Questa estate mi sono allenato più volte nel Principato di Andorra. Dietro di me c’era una fila incredibile di auto. Stavano lì, tranquille. Senza insultare o suonare il clacson. Non passavano nemmeno quando facevo cenno di sorpassarmi. Mi hanno detto: “Noi abbiamo rispetto dei ciclisti e li superiamo solo negli appositi spazi”. Da noi cosa succede? Da noi sembra una gara a chi ti passa più vicino o a chi fa la manovra più sconsiderata. Perché? Per risparmiare qualche minuto. Ma ci rendiamo conto che siamo tutti uomini? Si tratta di vite. Bisognerebbe partire dalla scuola guida e avere tutti un poco più di buon senso».
Se Andrea Vendrame dovesse scegliere un aggettivo per descriversi, sceglierebbe “rivoluzionario”: «Altrimenti perché sarei venuto a correre in Francia? Vedi che tutto torna? A parte gli scherzi: nel ciclismo sono così, rischio e improvviso molto. Sempre con l’adeguata preparazione, ci mancherebbe. Nella vita no, nella vita sono diverso. Ho imparato a scindere: ho figure di riferimento per la vita e figure di riferimento per il ciclismo. Sono molto riservato e i piani devono restare separati». Del suo lavoro apprezza molto l’aspetto del “gruppo”: «Penso una cosa: se al ciclismo togli il lavoro di squadra e la sensazione di famiglia che si crea, gli togli tanto tantissimo. Ma non vale solo per il ciclismo, vale per ogni lavoro. Se non resta quella, cosa resta? In Ag2r ho trovato questo. Dico sempre che Androni era una piccola famiglia, Ag2r una grande famiglia. Sono importanti entrambe. Ognuno fa quello che può con quello che ha e, se lo fa bene, merita riconoscenza».
Ogni tanto, qualche giovane avvicina Vendrame e gli chiede consigli: «Alla base di tutto c’è il fatto che devono divertirsi. Questo sempre. Ovvio che quando inizia a diventare qualcosa di simile a un lavoro, anche prima del professionismo vero e proprio, le cose cambiano. Ma io lo dico sempre: non devono fermarsi. Anche se non vincono, non devono fermarsi o buttare tutto all’aria. Dopo ogni caduta, si torna in sella: è un dovere. Si riflette, si capisce dove si è sbagliato ma non si molla. Il passaggio al professionismo è un passo davvero difficile, oggi in particolare. Se ci credono, però, hanno il dovere di tentarci». Già, perché Andrea Vendrame sa bene cosa significa crederci. Lo sa per come ama il suo lavoro, per l’impegno e la coerenza che ci mette: «Non mi ha mai deluso il mio mondo. Certo, ci sono stati tanti cambiamenti e tanti step da compiere. Gradualmente sono cambiato anche io, certo. Ma non sono stato deluso. Fossi stato deluso, non sarei qui. Fossi stato deluso, avrei cambiato strada. Non sarei rimasto in un mondo che non mi piaceva».
Foto: per gentile concessione di Andrea Vendrame, Getty Images