«Magari sei lì, seduto su queste sedie di plastica, in un paese sperduto e passi agli atleti il loro sacchetto del rifornimento. Ci hai messo qualcosa che non si aspettavano e loro ti guardano stupiti e ti ringraziano. Anni fa, all’inizio della stagione, gli hotel aprivano apposta per le gare, talvolta erano freddi e allora noi compravano delle coperte elettriche per riscaldare il lettino dei massaggi. Vuoi mettere quando senti un ragazzo che ti dice: “Che caldo, dopo il freddo di oggi, era quello che ci voleva”. Ora puoi trovare di tutto in ogni angolo del mondo, una volta non era così. Allora, prima di partire per la Colombia o per l’Australia, pensavamo a comprare tutte quelle piccole cose che potevano servire per fare stare meglio i ragazzi. Per farli contenti. Per noi non chiediamo tanto. Ci basta uno sguardo soddisfatto o un pollice alzato. Un pizzico di gratitudine ci rende più felici di molto altro. Tanti ci dicono che siamo fortunati a fare questo lavoro: forse è vero, ma è un lavoro difficile, con tante varianti. Spesso si è stanchi e dopo una giornata in auto, lontano dalle famiglie, devi saltare giù dalla macchina e metterti a smontare e rimontare biciclette. Forse bisognerebbe viverlo dall’interno per capirlo meglio». Umberto Inselvini è massaggiatore dal 1984, fra i professionisti dal 1985, ne ha viste davvero di tutti colori ma, per i suoi ragazzi, ha sempre voluto solo una cosa: «Parlo della tappa del Gavia del 1988: i corridori arrivavano al traguardo congelati. Noi avevamo l’hotel lì vicino: dovevamo portarli a braccetto per le scale, farli distendere sul letto, avvolgerli in delle coperte e strofinarli forte, per riscaldarli prima della doccia. Certe volte li accompagnavamo noi in doccia, ancora vestiti, e li aiutavamo a spogliarsi. In quei momenti senti che loro hanno bisogno di te, ti senti utile, sai che li hai aiutati, li hai fatti stare meglio e così stai meglio anche tu».

Far stare bene gli altri o, per quanto, farli stare meglio: Inselvini spiega che l’essenza del massaggio è questa. «Dal punto di vista fisico il massaggio ti permette di smaltire in anticipo le tossine che il corpo accumula. In un certo senso velocizza un processo del tutto naturale. Qual è il punto? L’aspetto psicologico è importante. Se tu stai bene su quel lettino, se tu ti senti a tuo agio, se ti senti libero, il corpo reagisce meglio. Il mio compito non è solo massaggiare, il mio compito è mettere a proprio agio la persona, fare in modo che in quel momento stia bene, che possa riposarsi facendo ciò che preferisce. C’è chi vuole parlare della gara, chi di informatica, di calcio, o di casa. C’è chi vuole stare in silenzio e chi vuole leggere e rispondere ai messaggi. Io devo lasciare questa libertà, devo modellarmi sulle loro esigenze: sono lì per loro». Questo significa che da quel momento, dal momento in cui il ragazzo entra in camera, devi mettere da parte la tua vita: «Ci sono giorni in cui anche io sono nervoso, preoccupato, giorni in cui non sto bene. Sono cose di cui devi scordarti. Devi metterti al lavoro e pensare solo ai ragazzi. Non puoi permetterti di sfogare le tue ansie o preoccupazioni. Il ragazzo deve alzarsi alleggerito da quel lettino, non puoi appesantirlo con i tuoi problemi. Questo bisogna impararlo, soprattutto quando si lavora a contatto con gli altri: non dobbiamo mai scaricare sugli altri ciò che ci opprime o ci infastidisce. Allo stesso tempo è necessario restare ciò che si è, tenere viva la voglia di ascoltare e di capire. Solo così potrai fare un buon lavoro». Un lavoro che negli anni è cambiato molto pur mantenendo ferme alcune caratteristiche: «Sai, una volta al Tour de France, a fine cena, non avevi neanche voglia di andare in camera. Alcune camere erano anche senza aria condizionata e rischiavi di soffrire il caldo. Così uscivi in giardino e ti mettevi seduto sull’erba, tiravi tardi e ridevi e scherzavi con gli atleti. Adesso è cambiato molto: si va in camera, si guardano i social o si chiamano i parenti, anche dall’altra parte del mondo. Questo è importante: sentire la tua famiglia, poterci parlare, ti aiuta ed è un motivo in più per lavorare serenamente. Però toglie qualcosa al rapporto fra colleghi e al rapporto con i ragazzi. Ci si parla meno, ci si conosce meno nei momenti di spensieratezza. Ci si vede anche meno: le gare sono aumentate e si disputano in sempre più paesi. Con alcuni colleghi ti vedi a dicembre e dopo la conclusione del Tour de France. Non dico sia peggio, è diverso. Prima c’erano anche più squadre che investivano, oggi ci sono squadre con molto budget che possono permettersi stipendi molto alti. La carriera del corridore finisce presto e i ragazzi scelgono anche in base a questo aspetto. Non perché non si trovino bene in squadra, ma perché la paura dei mancati rinnovi li induce ad assicurarsi un contratto fino a che possono. A novembre alcuni corridori non sanno ancora cosa ne sarà del loro futuro. Qualche anno fa a maggio, giugno, si sapeva. Non è facile. Anche loro hanno una famiglia».

Nello stesso modo sono cambiate le persone e anche lo stesso Inselvini: «Quando ho iniziato a massaggiare non ero ancora sposato, non avevo figli, avevo ventisette anni. Certe volte mi ritrovavo a massaggiare atleti con più anni di me. Ora ho due figli e massaggio ragazzi che hanno l’età dei miei figli. Certe volte massaggio anche i figli di atleti che ho avuto a inizio carriera. Le esperienze di vita ti aiutano sempre a capire e magari a cambiare. Ho sessantadue anni e alcuni mi dicono: “Ma vai ancora in giro con i corridori?”. Sì, perché il ciclismo è una passione e sul ciclismo ho basato gran parte della mia vita. Mi sono sposato al giovedì e non al sabato per avere quindici giorni per il viaggio di nozze. Ho vissuto con il mio primo figlio i primi quindici giorni dopo il parto in quanto la stagione non era ancora partita e sono tornato in aereo dalla Polonia per il parto cesareo di mia moglie quando è nato il secondo. Ricordo tutte le vacanze invernali con i compiti dei bambini per fare in modo che, pur perdendo qualche giorno di scuola, non rimanessero indietro con il programma». Questo lavoro nato per caso e proseguito per scelta: «Quando ho smesso di correre, a ventitrè anni, mi sono trovato a fare la considerazione che fanno tutti i ragazzi: “Adesso cosa faccio? Devo trovarmi un lavoro”. Ho fatto per un paio di anni l’assicuratore poi, da una telefonata con il mio ex direttore sportivo, alla vigilia della Settimana Bergamasca, è nato tutto questo. Non avrei mai pensato di fare questo lavoro per così tanti anni e invece sono ancora qui. Il mio è un lavoro che fa scorrere il tempo molto velocemente: viaggi, ti sposti, hai stimoli continui, quando torni a casa ti godi la famiglia, ti organizzi quei mesi prima di ripartire e poi riprendi la corsa».

Umberto Inselvini ha una parola chiave per svolgere il proprio lavoro: «Dico sempre che è fondamentale il rispetto dei ruoli. Io devo attenermi alle mie competenze e rispettare quelle altrui. Rispetto a qualche anno ci sono molte più figure che hanno competenze specifiche all’interno delle squadre. Se ognuno fa ciò per cui ha competenze si lavora meglio, le cose vanno meglio e si è anche più sereni». Certo, perché poi c’è il momento del giudizio. Momento inevitabile: «Tutti veniamo giudicati per il nostro operato. È giusto: percepiamo uno stipendio e dobbiamo portare a casa dei risultati. Qui c’è anche un altro aspetto: quello della comprensione. Quando vinci, il giudizio è facile. Quando non vinci ma aiuti gli altri è più difficile. I capitani non sarebbero lì senza chi li aiuta. Personalmente non amo nemmeno chiamarli gregari: sono ragazzi che aiutano altri ragazzi. Questi ragazzi sono importantissimi per la squadra. Fondamentali. Questa utilità, però, non è lampante come quella delle vittorie. Deve essere compresa. L’opinione pubblica, certe volte, la trascura e fornisce giudizi che sono massi. La realtà di un ciclista è fatta di molti aspetti e molte sfaccettature, non basta guardare l’ordine d’arrivo per capire cosa hanno dato i ragazzi quel giorno. Quello che conta è quello che hanno dato. Bisognerebbe pensarci due volte prima di esprimere giudizi senza sapere».

Foto di Ilario Biondi per gentile concessione di Umberto Inselvini