La fine di questa storia è, in realtà, l’inizio. E l’inizio di questa storia racconta di un ragazzo che a ventitré anni, nel 2005, uscendo di casa dice a papà: «Papà, corro in bici. Dovrò stare lontano da casa per molto tempo ma ti prometto una cosa: a trentotto anni, qualunque cosa accada, smetto e mi riprendo il mio tempo con voi». Quel ragazzo è Enrico Gasparotto e quel tempo è arrivato. Così, il 24 novembre, Enrico ha parlato con papà e gli ha detto che era arrivato il momento di scendere dalla bicicletta: «Mio padre c’è sempre stato. Ha corso parecchi in bici. Anche lui avrebbe voluto essere un professionista e, in fondo, la mia vita è stata anche un poco la sua. Era affezionato all’idea di avere un figlio ciclista. L’ho ringraziato. Sì, perché è stato capace di esserci ma in disparte, condividendo in silenzio ogni scelta senza volerne mai essere protagonista. Papà Toni è molto emotivo e a sentire queste parole gli sono scesi due lacrimoni sulle guance. Avrei voluto abbracciarlo». Quel giorno, Enrico ha capito anche un’altra cosa, una cosa che ha commosso anche lui: «Sai, spesso quando si smette di correre, la vita cambia completamente e anche i rapporti familiari ne risentono. Io in questi giorni sto capendo quanto mia moglie sia davvero mia moglie. Intendo dire, quanto quella parola le calzi a pennello. C’è, è qui ed è più tranquilla di me. Mi infonde tranquillità. Ora che non ci sono corse è anche più semplice non pensare a cosa non sarò più, ma sono certo che alla ripresa della stagione quello che ero mi mancherà. Sapere che ci sarà lei, qui con me, mi tranquillizza».

Il tempo che si ferma è anche il tempo dei ricordi che fluiscono liberi: «Quando ho vinto il campionato italiano nel 2005, è cambiato tutto. Sai di essere attenzionato e, se ad un lato, ti fa piacere, dall’altro le pressioni si fanno sentire». Qui Gasparotto si permette un inciso: «Dei miei sedici anni di professionismo ho un ricordo bellissimo. Ho vissuto quattro diverse ”ere” del ciclismo. Le cose sono cambiate: fra i miei ricordi ci sono uscite serali che ora non sarebbero più replicabili. I ragazzi devono prestare molta più attenzione ad ogni aspetto e questo, se da un lato, li rende estremamente più professionali, anche più forti, dall’altro rischia di accorciare la loro vita da atleti. A questi livelli credo non saranno più immaginabili carriere di sedici anni. Parleremo di carriere di otto, dieci anni. A trent’anni probabilmente smetteranno e anche questo sarà un bene e un male: troveranno lavoro più facilmente ma staranno per meno tempo nel loro mondo». Un mondo che lascia qualcosa che va oltre ciò che tutti vedono: «Penso alla prima volta dello Zoncolan al Giro d’Italia: non ho dovuto pedalare in pratica, non so quante mani mi hanno spinto. Non si potevano contare, erano troppe. Penso alla visita a parenti a Casarsa della Delizia e ai primi giorni in maglia rosa: a tutto ciò che provavo».

In questi momenti, Enrico Gasparotto pensa a Antoine Demoitiè, suo compagno di squadra, scomparso in un incidente il 27 marzo 2016, e a quella vittoria all’Amstel Gold Race. Una vittoria per tornare ad alti livelli dopo un periodo difficile, una vittoria per sua moglie e per la sua famiglia, per il suo gruppo di lavoro e per i suoi amici, una vittoria piena di caparbietà dedicata anche ad Antoine: «Ero da solo in ritiro e pensavo a lui. Tutto quello che ho fatto, l’ho fatto anche per lui. Quella vittoria all’Amstel è anche per lui, per Antoine. Quando sono tornato al bus, i miei compagni piangevano tutti. Io non ci riuscivo. Piangeva anche il mio direttore sportivo, un uomo di settantacinque anni che non avrei mai immaginato di vedere così». Enrico Gasparotto racconta che su quelle strade, sulle strade dell’Amstel, della Freccia, della Liegi, avrebbe voluto tornarci con calma nel 2021, prima di chiudere la carriera: «Sarebbe stato un lungo saluto. Lo avrei assaporato diversamente. Come quando torni in un luogo significativo e riempi ogni angolo di ricordi. Ma quest’anno è stato un anno particolare e questa possibilità non c’è stata. Così ho scelto di fermarmi e ho fatto bene: bisogna essere capaci di dire basta, è indispensabile».

Sì, indispensabile. Perché Gasparotto crede al valore di ciò che è stato e raramente lo senti felice come quando immagina quanto il suo passato possa essere d’aiuto a qualcuno. Una sorta di gratitudine resa viva e tangibile: «Parto da Mario Cipollini perché l’ultima sua vittoria, il Giro della Provincia di Lucca, è stata una delle mie prime gare. Trovo poco generose alcune parole che gli sono state rivolte. Può sembrare un guascone ma in realtà ho conosciuto pochi atleti così perfezionisti sul lavoro. Gente da cui c’è solo da imparare. Stessa cosa vale per Alexandre Vinokurov. Vino non si fermava mai. Cadeva, si faceva male, lo vedevi sanguinante ma ritornava in sella. Se sono stato professionista sedici anni, parte del merito è anche loro. Da loro ho visto cosa significava fare questo lavoro». E quando ti senti fortunato, spesso senti anche la voglia di restituire quella fortuna. Di portarla ad altri, di farli felici. Qualcosa Enrico Gasparotto ha già restituito: «Il mio arrivo in Wanty-Goubert è coinciso con il passaggio dal World-Tour ad un team professional. Ho provato a prendermi sulle spalle i ragazzi più giovani. Sono stato contento di farlo, di condividere piccoli e grandi insegnamenti e di vederli crescere. Lo vorrei fare ancora. Credo la mia strada adesso sia quella. Questa primavera ho preparato un progetto di talent scout da sottoporre a diverse squadre: ricercare i migliori giovani nel mondo e affiancarli. Non solo a livello sportivo ma anche a livello psicologico. Ogni ambiente è diverso e ognuno di noi ha bisogno di un ambiente differente per stare bene e fare bene il proprio lavoro. Lo ho vissuto sulla mia pelle. Io sostengo da tempo la necessità di figure quali il mental coach o lo psicologo sportivo. Gli atleti di alto livello hanno bisogno di questo supporto, i giovani più che mai. Altrimenti di fronte alle difficoltà non riescono ad andare avanti. Non riescono a resistere. A me è capitato spesso ma, avendo già qualche anno di esperienza, mi richiamavo ai momenti difficili precedenti e mi dicevo: ”Dai, Enrico. Se ce l’hai fatta quella volta, ce la farai anche qui. Forza!”. Un ragazzo di diciotto anni non ha queste esperienze a cui aggrapparsi, ha bisogno di qualcuno che lo aiuti».

Enrico Gasparotto riflette qualche istante, noi riprendiamo a parlare e lui ci ferma: «No, scusami ma devo dirlo. Le persone hanno paura a parlare delle loro fragilità. Hanno paura perché vengono etichettate come deboli. In Italia, in particolare. Altrove non è così. Questa cosa non ha senso. Io ne parlo. Sono una persona che vive nel presente, convinta delle proprie scelte. Se oggi siamo quello che siamo è anche per il nostro passato, nel bene o nel male. Dobbiamo esserne consapevoli. Nel 2015, il mio passaggio in Wanty è coinciso con un periodo molto complesso per me. Avevo perso la bussola. Non mi ritrovavo più. Ho avuto bisogno di supporto psicologico. Anche mia moglie in quel periodo ha intrapreso un importante percorso di studi in questo settore. Vuoi la verità? Senza quel percorso di analisi, non ce l’avrei fatta. Non avrei mai retto i lutti di Antoine e di Michele (Scarponi). Mi è servito tempo, tanto tempo. Ho dovuto capire perché facevo ciò che facevo. Ne avevo bisogno: lo facevo per i soldi? Per la fama? Per la fatica? Per prendere freddo e rompersi le ossa ad ogni caduta? No, assolutamente no. C’è qualcosa in più. C’è sempre qualcosa in più dietro ciò che vogliamo fare. Le motivazioni profonde sono altre. Dovremmo tutti trovare il tempo di chiederci il perché. Perché facciamo ciò che facciamo? Non è facile. Anzi, è molto difficile. Ma è importantissimo».

Foto: Claudio Bergamaschi