«Se ripenso a quei giorni in Kenya, non molti anni fa, penso a quanto sia facile essere felici. A quanto poco basti per essere felici. Forse il fatto è proprio questo: la felicità è un concetto molto semplice, ma noi tendiamo a complicarlo. Di fatto si complicano le cose quando non si capiscono. Quando qualcosa ci è chiaro riusciamo a semplificarlo. Ad arrivarne all’osso. La felicità noi non l’abbiamo capita. L’hanno capita quei bambini lì, che sono felici con in mano un tocco di cibo o una manciata d’acqua. Loro, non noi». Asja Paladin sta parlando di noi, di tutti noi, ma anche di sé stessa: «Vale anche per me. Non a caso mi sono tatuata quella frase sulla pelle. Ho una mente abbastanza iperattiva, continuo a riflettere, a ragionare, magari a preoccuparmi. Allora me lo dico: “Asja, hakuna matata!”. Che è come dire: non ci sono problemi, non complichiamo le cose, vediamole e viviamole per quello che sono. Lo so, dirlo è facile, farlo è molto più difficile. Però si può fare, si deve fare. Ci sono cose prioritarie, cose importanti e cose che, in fondo, non sono per nulla importanti. Riusciamo a distinguerle? Riusciamo a capire per cosa vale la pena di non essere felici e per cosa no? Forse è questo il problema. Forse per questo non riusciamo ad avere lo stesso sorriso di quei bambini. Forse per questo non capiamo molto la felicità».

Quella di quei giorni è una scoperta e Asja con le scoperte ha un rapporto particolare. Asja se ne intende di scoperte. Sa, per esempio, che se una parte delle scoperte è nell’inesplorato, nell’epico, nell’estremo, l’altra parte è nella normalità. Di quella parte, delle scoperte che risiedono nella normalità, si parla meno, quasi per nulla per lo stesso motivo per cui si fatica a parlare in maniera semplice di felicità. Perché? Perché non le abbiamo capite. «Ho ventisei anni. Ho corso per vent’anni in bicicletta. Quanti posti avrò incrociato? Quasi tutti i giorni mi sposto in macchina: dai finestrini quanti luoghi vedrò? Abito a Cimadolmo. A Verona sono stata diverse volte, conosco la città. I centosessanta chilometri da Cimadolmo a Verona li avrò percorsi decine di volte. Posso dirti la verità? Quei centosessanta chilometri io non li conoscevo per nulla». Poi c’è un’idea, quasi improvvisata, e la voglia di rispondere e di rispondersi sì: «Sai che quella notte non ho dormito? Mi giravo e mi rigiravo nel letto e mi rimproveravo da sola: “Ma insomma, Asja. Sembra che devi andare a gareggiare. In realtà si tratta di un giro con amici. Perché devi fare così?”. Il motivo preciso non te lo so dire ancora, sarà il mio carattere. Però so che è stato un misto di entusiasmo, di voglia di partire, di soddisfazione ma anche di paura. In allenamento non sono mai partita con quei chilometraggi, si cresce gradualmente, e all’inizio l’idea di tutti quei chilometri, seppur inconsciamente, ti spaventa. Tutto torna la sera, come arrivi a casa e sei stanca morta ma soddisfatta. Guardi una cartina e ti dici: “Vedi tutti quei chilometri? Li ho percorsi io, con le mie gambe e la mia bicicletta”».

Ma la sorpresa più grande non è nemmeno questa. La sorpresa più grande Asja l’ha avuta quando si è fermata a bordo strada a guardare. «Sembra impossibile ma mi sembrava di essere in posti nuovi, in posti che non conoscevo per nulla. Solo il fatto di esserci arrivata in bicicletta, di averlo fatto con amici, di essermi presa il mio tempo, ha fatto tutto questo. Ho visto cose che non avevo mai visto e le ho viste in modi che non avrei mai immaginato. Alla fine bastava una bicicletta, poco equipaggio e voglia di far fatica. Non è poi molto, ma bastava». Quella sera, guardando la cartina, Asja ha ripensato a tante cose: «Sono orgogliosa della mia carriera in bicicletta. Mi spiace non correre più, ti direi una bugia non ammettendolo. Ma non c’è rimpianto: ho imparato tanto e nulla sarà sprecato. Mi sento più forte, so che posso fare ciò che voglio nella vita. So di esserne capace. Mi hanno sempre insegnato che nella vita è essenziale dare tutto, anche più di quello che hai se tieni veramente a qualcosa. Molte cose, poi, non dipendono da noi e non possiamo farci nulla. Sono giovane e ho molta voglia di progettare e organizzare. In un certo senso, progettare e organizzare mi tranquillizza. Il bikepacking è questo. Il momento dell’organizzazione è uno dei più belli: pensi a cosa portare con te, alleggerisci o appesantisci i bagagli, chiedi consigli, nel mio caso a mia sorella Soraya, e ascolti proiettandoti in avanti con l’immaginazione. A proposito di progetti, ho già guardato le cartine: da qui alla casa di una mia amica in Germania ci sono 800 chilometri. Quando farà meno freddo, ci penserò. Poi vorrei andare a Napoli, una città che amo».

Sulla sua schiena, nella tasca posteriore della divisa, Asja tiene un piccolo panda di peluche: «Si chiama Yugen ed ho deciso che lo porterò con me ad ogni avventura. Yugen è una parola giapponese, intraducibile letteralmente. Per me è una sorta di consapevolezza della bellezza nascosta nell’universo: qualcosa che non si può descrivere a parole ma che fa emozionare. Un fascino profondo insito nelle cose che non riusciamo a capire fino in fondo ma che ci sono, che sentiamo».

Guardando la bicicletta, l’ha vista diversa e non ha avuto dubbi: «La bicicletta non è cambiata. Sono io che ho depurato la bicicletta da molte cose che erano essenziali per la mia carriera e che oggi posso permettermi di non considerare. Ho visto quanto è bello vivere il ciclismo così, senza ansie, senza preoccupazioni. Senza fretta. Solo per il gusto di stare su quel sellino e pedalare su una strada».

Foto: Asja Paladin