testo / Federico Damiani
interpretazione / Claudio Ruatti
Editing e montaggio / Brand & Soda
Pane, incertezze e biscotti marocchini, ovvero 1000 chilometri per sentirsi vivi.
Ci sono tanti motivi diversi per cui ciascuno di noi pedala e altrettanti bisogni che la bicicletta ci aiuta a soddisfare. Per me, dopo attenta riflessione, quelli decisivi sono due. Il primo: guardare in faccia e affrontare con i mezzi che hai situazioni incerte che possono avere un esito inaspettato. Diciamolo pure, negativo. Esplorare un territorio sconosciuto, dentro o fuori di me, il secondo. Probabilmente sono due facce della stessa medaglia, ma tant’è.
Il giro in bici della domenica, quello di cui sai anche a occhi chiusi che lì c’è una buca da schivare, a me proprio non esalta. Stessa cosa per le granfondo: non ho le gambe per vincerle, ma so che in un modo o nell’altro, al traguardo, si arriva sempre.
Oh, se fai qualche cappella lì sei veramente fottuto. Chissà cosa succede se provi a farlo? Se penso a questo tipo di cose allora sì che si mette in moto tutto e che la testa inizia a frullare, perché il più delle volte è quella, più delle gambe, a fare la differenza. E non è una questione di eroismo: l’incerto lo puoi trovare ovunque, anche in un giro da 50 chilometri. Esagero, anche su Zwift. Basta guardarsi in giro e trovare un evento che ti provochi qualche sorta di disagio cognitivo e il gioco è fatto.
Se non lo trovi, basta inventarlo. Dopo invenzioni passate di diverso genere e specie, il 2020, tre le tante cose negative che ha portato in dote fino ad ora, mi ha consegnato un evento perfetto, senza bisogno di mettere in campo la fantasia. Niente poteva essere migliore della prima edizione della Pedaled Atlas Mountain Race. Inventore Nelson Trees, lo stesso organizzatore della Silk Road Mountain Race in Kirghizistan. Uno che si è fatto una fama per i percorsi non proprio ovvi e scontati. Un maestro dell’incertezza, diciamo.
Le informazioni che hai all’iscrizione sono queste. Una gara di 1.145 chilometri e circa 20.000 metri di dislivello in completa autonomia, con partenza da Marrakesh e arrivo a Sidi Rabat, sul mare, dopo aver attraversato le montagne dell’Atlante e dell’Anti Atlante su strade coloniali e sentieri sterrati. Una traccia su Komoot e una descrizione di alto livello con qualche indicazione comunque piuttosto generica.
L’incerto: il terreno, il tipo di bici da utilizzare, il set-up corretto, la preparazione per arrivare pronti il 15 febbraio. Il territorio sconosciuto, almeno per me: il Marocco e una gara di più giorni. C’è materiale, penso. Aggiungo alla seconda lista un compagno di avventura per gareggiare come coppia, altra cosa che non ho mai fatto, e ci siamo. Si va: io e Andrea, il 13 ottobre siamo iscritti alla AMR.
Mancano quattro mesi. Un po’ mi sento stupido, ma la cosa che mi esalta è che, dopo aver cercato a lungo un modo per introdurre complessità e incertezza nel sistema, arriva il momento di lavorare per minimizzarle. Capire e analizzare il problema pezzo per pezzo, con pa- zienza, per presentarsi alla partenza con tutto quello che serve per affrontare il mostro nella miglior condizione e con i migliori strumenti possibili per infilarlo nel sacco.
Decidiamo di aggiungere anche Mattia alla nostra spe- dizione. Più menti e più confronto pensiamo possano essere utili. Noi correremo in coppia, lui da solo, ma sceglieremo materiale e preparazione insieme. Siamo di fronte a grandi scelte: quale bici usare, che abbigliamento portare, quali borse montare, come attrezzarsi per dormire, per dirne giusto alcune. Scegliamo anche un tema, giusto per complicare un po’ le cose. Con quello ci personalizziamo le bici e le maglie. Optiamo per la bici gravel. Come le maglie, che disegniamo e realizziamo insieme ad artisti e designer. Non sappiamo se sopravviveremo, ma saremo elegantissimi.
Incastrare tutto è un’impresa titanica. La preparazione fisica non presenta molte variabili, si pianifica e basta. Tutto il resto è una catena infinita di prodotti in arrivo, decisioni da prendere, ipotesi da fare. Preparare una gara così, scopro, è un’esperienza totalizzante: ti risucchia ogni energia e minuto libero dal lavoro e per quanto tu possa iniziare per tempo, ti troverai ad aspettare un corriere in arrivo a Mestre con un componente elettronico a 12 ore dalla partenza. Storia vera. Ma alla
fine le borse si chiudono, quel che c’è, c’è. Quel che non c’è, se ne fa a meno. Ci si vede a Marrakesh. Uscire dall’aeroporto e controllare che le bici siano intere è il check point zero. Le bici non vanno d’accordo con gli aerei, le duecento batterie che abbiamo in borsa, invece, con le dogane. Ma tutto bene: è tempo di briefing. Nelson spiega un po’ di cose, ci si mette in fila per il cappellino con il numero che indosseremo con orgoglio e con disprezzo di ogni regola igienica nei prossimi giorni. Tutti, nel frattempo, guardano sospetti i setup delle bici parcheggiate fuori dall’hotel. C’è un buon mix tra gravel e mountain bike, diverse idee di carico, qualche soluzione creativa. Tutti si chiedono chi avrà fatto le scelte giuste. Ci si promette di rivedersi e parlarne all’arrivo.
L’ambiente è bellissimo, la gente dell’ultracycling meglio ancora. Un misto di personalità eterogenee. Dal vecio-randonnee, definizione di Andrea, al super hipster tatuato. In mezzo ci siamo anche noi, che andiamo a fare la spesa e prepariamo panini per un esercito. Carichiamo le bici e infiliamo cibo in ogni fessura rimanente delle nostre Miss Grape: riesco anche a infilare un tubo di biscotti tra il reggisella e la borsa sopra il telaio. Sembra fatto apposta. Ultimo controllo e si va a dormire presto. Sarà l’ultimo letto che vedremo per giorni, meglio sfruttarlo al meglio.
15 febbraio. A colazione Andrea dice che si è sveglia- to alle quattro e ha ribaltato le borse perché non era convinto e ha cambiato tutto. Non benissimo, ma si parte. Ad aspettare il via, vicino a noi, c’è Sofiane Sehili. A colpo d’occhio parte leggerino e decisamente punk; non ha la front bag, quella in cui si tiene il necessario per dormire. Infatti lo rivedremo all’arrivo, dopo che avrà vinto la corsa in 3 giorni, 21 ore e 50 minuti. E avrà dormito 3 ore complessive.
Si parte per davvero ed è una liberazione. Mesi di preparazione sono lì sotto il culo e nelle borse che ti porti in giro. Da qui in avanti le giornate saranno il sogno di ogni ciclista. Portato all’estremo, ma un sogno. Svegliarsi, prendere la bici, guardare l’alba in corsa, pedalare, fermarsi a mangiare, pedalare, guardare il tra- monto, pedalare, dormire. Zero pensieri, se non quelli che servono per gestire l’immediato e il futuro molto prossimo. Nessuna energia sprecata per altro, se non per arrivare a quel maledetto albergo in riva al mare dopo 1.145 chilometri. Dopo i primi 40 chilometri di asfalto arriva lo sterrato, i villaggi diventano più piccoli e il dislivello segnato sul display inizia a crescere. Mattia ha un altro ritmo e va per la sua strada, io e Andrea comunque non vogliamo perdere tempo. Sappiamo che il passo più alto della gara, 2.500 metri, è dopo 100 chilometri e la discesa successiva è da camminare. Vogliamo farla con la luce e arrivare al check point 1 prima di sera.
Ci riusciamo e al CP1 ci rendiamo conto di essere la prima delle coppie a timbrare la brevet card. È il momento che segna il nostro approccio all’intera gara. Non eravamo partiti con la minima idea di correre per vincere. Ma mi conosco e so che non sono mai riuscito a giocare nemmeno a calcio balilla all’oratorio senza metterci un po’ di agonismo. Abbiamo un po’ di imbarazzo a dircelo, ma entrambi ormai stiamo pensando perché non provarci, già che ci siamo.
Spingere, in una gara di ultracycling, non vuol dire andare forte. Vuol dire essere efficienti, fermarsi poco e farlo quando si ha bene in testa cosa bisogna fare una volta giù dalla sella. Molti sostengono che ci si debba fermare solo quando ci sono almeno tre cose da fare. Mangiare, caricare il telefono e vestirsi. Riempire le borracce, controllare la traccia, sistemare le borse. Vuol dire accettare qualche compromesso in termini di ore di sonno e comfort lungo la strada. Ognuno trova il suo equilibrio, a seconda di dove posiziona la soglia di sopportabilità. Siamo solo all’inizio e la prima notte pedaliamo e camminiamo. Abbiamo idea di essere in un posto bellissimo, un deserto probabilmente, ma è buio e proviamo ad immaginarcelo. Sappiamo solo che ci sono un milione di fiumi secchi da attraversare. Scendere nei letti e risalire dall’altra parte, a volte su muri alti quattro o cinque metri, è estenuante. Alle 5 finalmente vediamo il fondo e decidiamo di dormire un paio d’ore vicino ad una pianta. Ci sveglieremo con entrambi i materassini bucati. La pianta aveva le spine: evviva.
Il menu del secondo giorno ci consegna una colazione con omelette da un benzinaio, un guado e un altopiano infinito. 100 chilometri, molti dei quali da camminare. Le valli di fronte a noi sono bellissime, conformazioni di rocce a strati di colori diversi a perdita d’occhio. Riesco a godermele meglio riguardando le foto: probabilmente questo è il momento più duro della nostra Atlas Mountain Race.
Dieci ore, senza rifornimenti. L’acqua finisce molto presto e arriviamo al paesino successivo esausti e quasi disidratati. Ci troviamo Mattia, con un manubrio spez- zato a metà, riparato con del nastro isolante e un pollice aperto, riparato con dell’Attack. Non riesce a chiudersi i vestiti e le cerniere con la mano: non può più essere autosufficiente, la regola base per entrare nella classifica di questo tipo di eventi. Con una forza di volontà incre- dibile decide di continuare e, d’accordo con Nelson, si aggrega a noi perché possiamo fornirgli assistenza. Pedaliamo fino a dopo il tramonto e dormiamo in cima ad una salita. Il terreno è di ghiaia sottile, l’inclinazione è perfetta, è riparato dal vento. Nei cinque secondi prima addormentarmi, esausto, guardo un cielo stellato che non posso descrivere dalla rete del mio bivy. Il mondo è bellissimo. Basta tornare all’essenziale e farselo bastare. Il giorno 3 è business as usual da Atlas Mountain Race. Salite, discese, gravel, un po’ più gravel, omelette, persone ospitali, qualche tratto da camminare, paesaggi incredibili. Ripetere, dalle 5 di mattina alle 2 di notte. Fossero tutti così, nella vita, i business as usual…
L’indomani si punta ad arrivare in mattinata a CP2, finalmente. Partiamo già provati da una notte di cani ululanti e rumori molesti. Il falsopiano di 14 chilometri dritto, sterrato, mi svuota completamente mentre il sole sorge. Il Garmin non segna mai una velocità superiore a 9-10 all’ora. Fate voi i conti di quanto possa essere durata questa agonia.
Ma CP2 arriva dopo che scolliniamo e una strada sterrata ci porta in mezzo a un’oasi bellissima. Con lui la possibilità di fare una doccia, riposare qualche minuto e mangiare un pasto intero: omelette, tajine di pollo e insalata. Un paradiso con biglietto d’ingresso decisamente alto: il conto del pranzo è soggetto a un’inflazione che neanche la Germania a fine prima guerra mondiale. Ci restano pochi Dirham in tasca e il primo bancomat è 150 chilometri fuori traccia: da qui in avanti c’è da arrangiarsi con tonno e sgombro in scatola, pane e biscotti marocchini. Pasto completo con 15 Dirham, 1,36 € al cambio attuale.
In ogni caso c’è da pedalare, tra paesaggi surreali e ospitalità dei Berberi. Beviamo il tè con donne che stanno tessendo un tappeto, ceniamo in un paesino in cui l’unico negozio ha finito il pane. Tempo due minuti un amico porta quello che aveva in cucina e il problema è risolto.
Ci aspetta molto asfalto. Vedere sul Garmin asfalto tra 10 km mentre rimbalzi da tutto il giorno è una liberazione. Ma è come quando ti chiama la tua ex per chiederti di vedersi per un caffè. Sembra una bellissima idea, ma due minuti dopo ti ricordi perché vi eravate lasciati. L’asfalto, in Marocco, vuol dire drittoni infiniti di 10, 20 km che ti spaccano il cervello e lo spirito.
Quando torna lo sterrato siamo su una strada coloniale costruita a mano. È molto smosso, si va pianissimo e si fa fatica, di testa e di gambe. Ma è il contrappasso per il paesaggio che attraversiamo, lontani dalla civiltà. Che in Marocco non vuol dire essere da soli, perché ovunque, lontano da qualunque forma di villaggio, puoi trovare una persona seduta su un sasso che ti guarda passare. In cima c’è un berbero solitario; non resisto a dargli la bici per una foto.
E fu sera e fu mattina. Quinto giorno. Arriviamo a CP3 a tarda sera, hanno finito il cibo. Ci sono solo pasta e riso, dice il proprietario, a cui rispondiamo di portare tutto. Si presenta con un piatto in cui ha condito la pasta con il riso. O il riso con la pasta. Tutto in bianco. Va bene tutto, per quanta fame abbiamo. Siamo ancora primi, con un paio d’ore sulla seconda coppia e decidiamo di dormire due ore e ripartire alle 4. Mancano solo 190 chilometri, speriamo di arrivare con la luce, una birretta in mano e un tramonto sul mare.
Nelson, invece, la pensa diversamente. La traccia ci catapulta da luoghi che a tratti sembrano la Sicilia, a tratti la Toscana, per poi tornare nel deserto prima di scendere sulla costa. Una bella salita di 3 chilometri a piedi e qualche altro passaggio ci portano a vedere il tramonto quando ne mancano 40 all’arrivo, prima dell’ultima discesa. Da qualche ora il mio ginocchio destro sta esplodendo, le piante dei piedi bruciano talmente tanto che in discesa stringo la sella tra le cosce per non appoggiarle. Sono al di là di ogni mio precedente livello di sofferenza patito in sella a una bici. In questo stato, di fronte al tramonto, piango dietro le lenti dei miei occhiali mentre scendiamo verso il mare. Ci sono voluti 1.100 chilometri e tanta sofferenza, ma momenti come questo sono quelli per cui vale la pena essere vivi.
Gli ultimi 5 chilometri si cammina nella sabbia, chiedendoci perché Nelson abbia voluto mettere ulteriormente alla prova la nostra pazienza. Ma poco importa, l’arrivo e la grande famiglia dell’Atlas Mountain Race ci aspettano per l’ultimo timbro sul brevetto, un giro di birre e, finalmente, una doccia. Poco importa che siamo riusciti a mantenere la nostra posizione, la festa è per tutti quelli che arrivano. La classifica non conta.
Poco importano anche i momenti di difficoltà, il terreno sconnesso, le paure e i dubbi, le crisi di nervi, le 14 ore di sonno in quattro notti. Il giorno dopo svanisce tutto e rimangono i momenti belli, i luoghi e le persone. Rimane solo un’avventura talmente forte da segnarti per sempre, perché ti ha fatto scoprire, ancora una volta, che l’incerto si può affrontare e che c’era un posto, soprattutto dentro di te, ancora tutto da esplorare.
LE 10 REGOLE PER AFFRONTARE UNA ULTRACYCLING.
PRIMA REGOLA, NON IMPROVVISARE
Ovvero i dieci consigli per preparare una ultracycling scritti da chi ha dovuto sbatterci il naso per la prima volta in occasione dell’Atlas Mountain Race
Non sostituisce una dieta sana ed equilibrata, c’è scritto su tutti gli integratori. Anche sull’etichetta di quanto segue c’è un disclaimer bello grosso, che recita così: non sostituisce una sana ed equilibrata pianificazione e una contestualizzazione delle informazioni in esso contenute. Ognuno ha le sue preferenze, le condizioni cambiano e una valutazione personale è sempre necessaria. Anche per lo stesso evento, Mattia, Andrea e io abbiamo fatto scelte diverse e, a posteriori, le abbiamo valutate con diverse opinioni. Non esiste quindi una scienza esatta, ovviamente. Qualche regola generale, però, si può dare. Come per il Fight Club.
01 La prima regola dell’ultracycling non è non parlare dell’ultracycling. La prima regola è non improvvisare. Qualunque scelta facciate, se possibile, fatela con anticipo e pedalateci sopra. Soprattutto la sella, provatela con anticipo, specie se cambiate stile. Ad esempio, se passate a una sella corta, come noi abbiamo fatto con la Fizik Argo, datevi tempo per abituarvi.
02 La seconda regola è trovate tutte le informazioni che potete per scegliere bici, rapporti, ruote e copertoni. Alcuni setup saranno quelli ideali, ma molto dipende anche dalle vostre preferenze e dal vostro stile. Non rinunciate se non potete avere il setup ottimale: spesso la bici migliore è quella che avete in garage. Sul setup, per qualunque occasione, c’è solo una certezza assoluta: tubeless tutta la vita.
03 La terza regola è fatevi mettere in bici da qualcuno bravo. Non importa se sono anni che pedalate con quella posizione e non avete mai avuto problemi. Stare in bici 20 ore al giorno, per più giorni, porta a galla tutti i minimi errori di postura e li esaspera. Noi abbiamo fatto la nostra posizione con il sistema Retul insieme ad Andrea Fusaz, a Udine. Nessun sabato pomeriggio fu meglio speso.
04 La quarta regola è la bici è solo l’inizio. Vi sembrerà di essere a metà del lavoro, ma è da qui in avanti che viene il bello. A partire dalle borse. La borsa davanti con tutto quello che serve per dormire: meno l’apri- te, meglio è. La borsa sottosella con vestiti e cose che servono poco: non esagerate con la capienza. Se non vi bastano 15 litri, state portando cose inutili. La frame bag con tutto quello che serve a disposizione: manicotti, gambali, documenti, attrezzi vari. È la borsa fondamentale, può valer la pena investire per un custom adatto alla propria bici, come abbiamo fatto con le nostre Miss Grape.
05 La quinta regola è abbigliamento e sleeping system si valutano su tre fattori, in quest’ordine: performance, comprimibilità, peso. La prendo in prestito da James Hayden, che ne sa più di me. Valutate per prima cosa clima e scenari possibili per decidere cosa vi serve. Da lì partite con la scelta degli elementi, tenendo a mente che il peso è l’ultima cosa da considerare. Quanto e cosa portare dipende da voi, ma finirete per portare più del necessario: guardate la bici due ore prima di partire e sforzatevi di togliere almeno uno o due capi. Ciò che non può mancare: giacca antipioggia, guanti, gambali, manicotti, piumino leggero. In generale, quando mancano le forze (o le calorie), si percepisce più freddo: tenetene conto. Per dormire la grande scelta è tra il bivy bag o la tenda. Dipende da voi, dal clima, dal vostro spirito: noi abbiamo optato per il bivy. Per l’abbigliamento, il nostro kit personalizzato Sportful.
06 La sesta regola è sapere dove andare e vederci chiaro. Studiate il percor so, mettetelo su un dispositivo di navigazione e accertatevi che funzioni per tempo. Se disponibili, caricate le mappe, non solo la traccia. Per sicurezza tenete la traccia su un disposiivo di backup e sul cellulare, in una app come Komoot o Garmin Connect. Le luci sono fondamentali. Se potete, investite in un buon prodotto. Per luci e navigazione, assicuratevi di avere abbastanza batterie o una dynamo che vi consenta di ricaricarle. Soprattutto per il fuoristrada, viste le velocità più basse, preferisco le batterie alla dynamo. Ricordatevi di caricarle tutte le volte che è possibile, anche quando vi sembra che non ce ne sia bisogno.
07 La settima regola è mettersi nelle condizioni di riparare tutto. Più che una regola, è la legge di Murphy applicata al ciclismo: se dimentichi un pezzo di ricambio o un attrezzo, sarà esattamente quello di cui avrai bisogno. Da avere sempre: camere d’aria, valvola tubeless di scorta, multi-tool, tacchette e pastiglie freni, false maglie, pompa, toppe. Cose che non pensavi di dover portare: nastro isolante e nastro americano (ci si riparano anche i manubri), Attack (ci si riparano anche le ferite), accendino, coltello. Ah, l’olio della catena non è mai abbastanza.
08 L’ottava regola è l’igiene va bene, ma deve occupare poco posto. Spazzolino, dentifricio, crema solare, crema soprasella, sapone e salviettine umidificate sono il set base. Tutto il resto, se ci sta e ne sentite il bisogno. La carta igienica è il primo lusso che ci si può concedere, un asciugamano e il deodorante fanno meno differen- za. Sempre con voi un piccolo kit di emergenza con disinfettante, bende e qualche cerotto.
09 La nona regola è il cibo non è mai troppo. Riempite ogni angolo delle borse, le tasche della maglia, le tasche dei pantaloncini di cibo. Vi sembrerà troppo. Aggiungetene ancora; e poi ancora. Barrette ma anche e soprattutto cibo normale. Fate anche bene i conti per l’acqua.
10 La decima regola è non fatevi troppe paranoie. Più si avvicinerà l’evento, più sarete assaliti dai dubbi. Ma se vi siete preparati bene non avrete problemi. Partite, in qualche modo poi ci si arrangia sempre. La parte difficile è fatta: ora basta pedalare.