Sentirsi uno dei migliori
Si potrebbe definire Eli Iserbyt oramai quasi un gigante di questa disciplina e come a tutti quelli che vanno forte anche la fortuna gli dà una mano.
Mentre pedala nel fango verso il traguardo del quinto dei sei giri della prova di Coppa del Mondo a Besançon, guarda la ruota posteriore del suo avversario Aerts.
Poi succede qualcosa, la faccenda già la conosciamo pur essendo un popolo smemorato a dismisura. Aerts va lungo e cade, rialzandosi sembra persino tentare uno sgambetto – un colpo a metà tra il tackle e la arti marziali di cui Aerts, col fisico che si ritrova, potrebbe esserne un degno rappresentante. Ma nessuno può conoscere con sicurezza le vere intenzioni, anche analizzando il fotogramma o chiedendo lumi ai santoni del VAR; bisognerebbe chiedere consiglio a chi sa leggere la mente per capire cosa ci fosse in quel gesto che magari era semplicemente un modo per fare leva sul suo corpo su un terreno fangoso e scivoloso, per poi rialzarsi.
Dopodiché sarà stato il puro caso o per una questione di spazio e tempo, Eli Iserbyt passava di lì in quel momento esatto e lo evitava, fate voi come chi. Quando si è bravi, quando si sta per diventare giganti, tutto fila liscio, persino la Signora Fortuna tende a stare dalla tua parte.
Beh comunque, intervento difensivo di Aerts e fortuna a parte, Iserbyt va forte, e tutto gli va dritto ciclocrossisticamente parlando, a prescindere da quello che è successo.
Nemmeno elenchiamo il palmarès, ma stiamo sull'attualità: 12 (dodici!) vittorie in questo inizio di stagione che è roba proprio à la van der Poel (Alamathieu). Avversari? Van Aert è tornato e li ha già messi in croce; Aerts è sempre lì, ma non basta, a Sweeck manca sempre qualcosina, sarà per quella faccia da tenerone, Ronhaar è esaltante se non altro perché la carta d'identità fa impressione, mentre van der Haar dà spettacolo a intermittenza come la luce di una vecchia insegna al luna park. E il luna park è quell'enorme sagra paesana del ciclocross, un fatto viscerale per i belgi, di folklore, tradizioni e campanili. Ci sono state sfide selvagge a dir poco, mentre oggi tutto appare più tranquillo. Una passione che va oltre tanto che «quando vai per strada la gente ti riconosce perché d'inverno tutti guardano il ciclocross» racconta Iserbyt. Ciclocross che riversava in altri momenti migliori per l'umanità fiumi di birra e quintali di grasso dentro tendoni con musica folk dance - mentre ora, ahinoi, si ricominciano a vedere le gare a porte chiuse.
Prendiamo solo a margine la polemica di Nys: secondo lui non è proprio giusto, no, no, pagare van der Poel e van Aert per partecipare alle gare di Coppa del Mondo (ma d'altra parte l'attenzione gira tutta intorno ai due re della pista da ballo, e lo diciamo a scanso di equivoci che le vittorie di Iserbyt sono arrivate senza la presenza dei due); mentre a Iserbyt diamo quello che è di Iserbyt, e non sono solo bici e guanti, casco e premi, o un bacio come ha fatto la sua ragazza subito dopo il traguardo l'altro giorno. Diamo a Iserbyt i suoi meriti.
Sentendolo parlare non è proprio uno di quelli banalissimi, ma nemmeno uno che staresti ore a sentirlo discutere, diciamo una bella via di mezzo come è giusto per un ragazzo di 24 anni che va in bici: Iserbyt dice di se stesso di non poter mai arrivare all'altezza di van der Poel - tanta franchezza ci mancava.
Se qualcuno volesse conoscerlo fuori dalle corse sappia che arriva da Bavikhove, Fiandre occidentali, ha due cani e parla quattro lingue, che giocava a calcio, ma il suo primo amore (pensiamo in senso sportivo) è stato il ciclocross che praticava inizialmente per diletto quando lo vedeva in televisione nei week end. Su strada sarebbe valido e (come tutti, grandi e piccini) sogna di partecipare al Tour de France, ma servirebbe solo qualcuno che glielo facesse correre, anche in funzione ciclocross: dal punto di vista del motore, forse, potrebbe essere la svolta della sua carriera.
Iserbyt, che per caricarsi ascolta musica dance, per coricarsi non sappiamo, non sempre corre con i guanti e si considera forte, sì, ma soprattutto: uno che dà sempre il massimo (beh!). In una recente intervista afferma come intorno a lui «tutto sembra diventato più grande, ma nonostante le vittorie non mi sento il migliore al mondo. Cerco solo di vincere il più possibile». Onestamente, Iserbyt.
Qualcosa è cambiato
Qualcosa è cambiato ma non tutto negli ultimi due anni di Heinrich Haussler. A fine 2019, di questi tempi, scopriva la bellezza del ciclocross. Si sarebbe preso a botte in testa per non averlo scoperto prima, sognava di non farsi doppiare da van der Poel al Mondiale e restava a bocca aperta guardandolo passare nelle ricognizioni dei percorsi.
Qualcosa è cambiato ma non tutto; quest'anno, come quello prima, Haussler deve fare i conti con un budget che dipende da quello che ha in tasca. Paga lui: bici, trasferte, persone che lo supportano e lo aiutano e quelle persone spesso sono amici e tifosi.
Lo prendono per pazzo per come riesce a portare avanti il suo amore per lo sport ma è che solo così riesce a stare concentrato e sopportare i sacrifici; a Tabor, un paio di settimane fa, è caduto, si è ferito, sanguinante ha chiuso la gara, finita la gara non ha nemmeno fatto la doccia e ha guidato per sette ore ed è rientrato a casa alle 2 di mattina.
Ama freddo e pioggia e - sappiamo bene - corre le classiche del Nord senza guanti. Pare sia questo che lo abbia spinto a provare il ciclocross. Gli inverni che passa gareggiando, sostiene fermamente, lo aiuteranno ad avere una carriera più longeva. 37 anni, ha avuto alti entusiasmanti e sbandate che potevano costargli più che una semplice fine anticipata della sua vita agonistica.
La storia nell'ultima stagione lo ha raccontato di fianco a Colbrelli, presente con profitto alla Roubaix (1° Colbrelli, 10° Haussler), lo ha abbracciato in lacrime tagliato il traguardo: era stato fermo due mesi in estate per preparare al meglio l'Inferno del Nord.
Qualcosa è cambiato: «Sto invecchiando e il ciclocross mi aiuta a mantenere la forma d'inverno». Lo aiuta a stare sul pezzo e ad allungare la sua vita da corridore anche, o soprattutto, su strada.
Se gli chiedono cosa gli piace del ciclocross dice che è così bello che non sarebbe descriverlo a parole. Così bello che una volta disse che se un giorno i suoi figli gli dovessero chiedere di correre in bici, lui sarebbe persuaso di mandarli a praticare questa disciplina.
Questa parte finale l'abbiamo già raccontata tempo fa, ma meritava di essere ricordata. Perché qualcosa è cambiato in Heinrich Haussler, ma non tutto.
Kenny De Ketele: un attore nelle Sei Giorni
Probabilmente non doveva andare proprio così ma chi va in bici è abituato ai cambiamenti e agli imprevisti. Ti cade qualcuno davanti? O sei un funambolo o il più delle volte finisci a terra. Buchi una ruota nel momento meno opportuno? Uno dei grandi classici. (Ma poi esiste un momento opportuno per una foratura? No, non facciamoci ridere dietro; forse appena usciti di casa, ma non succederà mai, è molto più facile che bucherai quella volta che ti sarai dimenticato tutto il necessario per cambiare o riparare la ruota e avrai il telefono scarico e sarai nel punto più lontano della terra rispetto a casa tua a o qualsiasi altra abitazione, ma questa è un'altra storia).
Non doveva andare così per Kenny De Ketele - nome bellissimo, sfido a trovarne dieci che suonano meglio - presenza immancabile su pista per almeno una dozzina di anni. Non c'era americana senza Kenny De Ketele, non c'era Sei Giorni senza Kenny De Ketele, spesso non c'è stata nemmeno corsa a punti, o, più di recente, omnium, senza Kenny De Ketele. Insomma: presenza costante, quasi asfissiante.
Non doveva andare così per Kenny De Ketele ma chiariamo da subito: mica gli è andata male, anzi. L'ultima volta che ha corso ha vinto e non una garetta qualunque. La Sei Giorni di Gent, la "sua" Sei Giorni. Una di quelle corse un po' folli da sembrare irriverenti, tutta pathos ed ebrezza. Piena di colori e dove i suoni arrivano dal pubblico sugli spalti che esulta e poi trattiene il fiato, e dove tutto appare un eccesso di aggettivi enfatizzati.
Quelle che Rino Negri diverso tempo fa raccontava così: "Sono un circo, con la differenza che non c'è la puzza degli elefanti, dei cammelli, delle fiere, dei cavalli e degli orsi".
“Perché Folli?”, si chiedeva ancora retoricamente Negri nel suo "I Folli delle Sei Giorni", “per esigenze di spettacolo i seigiornisti sono tenuti a fare gli acrobati e a volte i clown. E corrono rischi che fanno accapponare la pelle. Quindi folli in senso buono, simpatico”. I tempi sono cambiati, è vero, ma in una Sei Giorni non manca mai agonismo ai limiti del gran varietà.
Kenny De Ketele (ripetiamo: quanto suona bene questo nome?) si inserisce a pennello nel contesto se non altro per qualità e fiuto: 22 Sei Giorni vinte, l'ultima pochi giorni fa a Gent (per la quinta volta, staccando, fermi per sempre a quota 4, Van Steenbergen e Merckx), nel velodromo Kuipke, dove è praticamente nato, in coppia con Robbe Ghys. Al termine di una rimonta che ha fatto impazzire il pubblico rimasto col cuore in gola per la brutta caduta che mandava Cavendish gambe all'aria e in ospedale.
Ma non doveva finire così: De Ketele ha salutato una parte del circus che lo ha omaggiato (e Ghys piangeva sotto casco e occhiali), ma avrebbe voluto farlo pochi giorni dopo in maniera definitiva, a Rotterdam, nell'omonima Sei Giorni in coppia con Terpstra. «Sarà la prima volta che correrò con lui - diceva -, ma lo conosco bene: meglio correrci assieme che contro» un concetto che intorno al passista olandese hanno espresso spesso diversi corridori. Ma nulla da fare: corsa annullata, niente congedo finale. A Gent ha salutato il suo pubblico, a Rotterdam voleva farlo con il resto del suo mondo seigiornistico, il concetto spiccio.
36 anni, nato in Belgio, De Ketele (ma che bel nom... ok basta) di cui 17 passati da professionista, specialista (si capisce) della pista, la prima volta che ha corso in un velodromo si dovette arrangiare. Era una gara omnium per ragazzi di 14 anni, proprio a Gent proprio al Kuipke, ma c'erano così tante persone iscritte che fecero una crono di 500 metri per selezionare il numero giusto: non riuscì a superare la qualificazione.
Ha attraversato un pezzo di storia della specialità sfidando Risi, Cavendish, Mørkøv, ha fatto coppia con il meglio della pista belga degli ultimi 20 anni, ha vinto medaglie mondiali ed europee e miliardi di titoli nazionali. Sostiene che i rapportoni esagerati siano un po' un rischio per i seigiornisti, ma che aumentano lo spettacolo.
E a proposito di spettacolo: ha annunciato che una volta sceso dalla bici vorrà provare a recitare nel cinema, ma nel frattempo è il maggiore candidato a diventare nuovo commissario tecnico della pista belga.
C'era qualcuno che sosteneva fossero matti, dei clown, sicuramente uno di loro potrà diventare un attore e se tutto andrà per il verso giusto pure selezionatore della nazionale. È andata come doveva andare, Kenny De Ketele. A proposito: bel nome.
Pidcock al Giro?
Forse. Almeno questo è il suo desiderio. Certo sarà un lungo periodo caotico e dovrà ricordarsi di cambiare bici - a meno che non si metta in testa di correre il Giro con una mountain bike o di provare a vincere l'Amstel con la bici da ciclocross, ma non divaghiamo.
Questo fine settimana lo vedremo all'esordio stagionale nel fango e poi in primavera a lottare con i soliti noti nelle classiche, e lui potrà puntarle tutte: da quelle italiane a quelle fiamminghe, pietre o colline poco cambia quando si va forte.
E poi vorrà correre in Italia e c'è quel desiderio espresso di fare il Giro: saranno squadra e forma ad avere l'ultima parola. Noi ci sfreghiamo le mani all'idea di Pidcock dalle "nostre parti", se fosse necessario potremmo pure raccogliere delle firme: "Pidcock al Giro". Tuttavia terreno per dare spettacolo ne avrà a patto di non arrivarci troppo stanco dopo l'intensa attività cross-classiche.
Oltretutto potrebbe essere anche un esempio da dare a quelli che, tanti, puntano sulle gare di un giorno in primavera e poi ricaricano le energie nel periodo che casualmente prende quelle tre settimane di maggio.
Ogni tanto un po' di partigianeria non guasta soprattutto se si parla di Corsa Rosa e di corridori che possono dare un valore aggiunto. E allora forza Tom, ti aspettiamo.
Ciclocross, cos'altro?
Abituati a tenere monitorati quei tre lì, segnandoci sul calendario il giorno del loro ritorno in gara, stiamo forse facendo passare sottotraccia le cose interessanti che sta regalando il ciclocross in queste settimane.
Ieri Besançon, per una volta Francia e non Belgio e Olanda, non è stata da meno, anzi. Il canovaccio era quello tipico di una tipica domenica di fine autunno; giornate che a noi comuni mortali ci tengono inchiodati sul divano: freddo e pioggia fuori, e a uscire di casa non se ne parla.
Toon Aerts ed Eli Iserbyt, invece, esseri umani uguali, ma così differenti da noi e tra loro, e soprattutto con una missione differente, loro sì erano fuori casa a darsele, scrivendo un altro capitolo dei loro duelli ridleyscottiani.
Proprio come nell'opera in questione, due strutture agli antipodi: Iserbyt piccolo e agile, Aerts lungo e potente. Un tratto li accomuna: la grinta.
Ieri a Besançon, in mezzo a tutto quel fango, con un sacco di gente a incitare (e parola di Iserbyt «A emozionare i corridori») su un tracciato tecnico e reso ancora più complesso dalle condizioni meteo, hanno inscenato una sfida spettacolare che inizialmente sembrava dovesse favorire il lungagnone (più a suo agio su un tracciato inscurito dalla pioggia) in confronto al piccoletto (che spesso non ama condizioni estreme).
A un certo punto, però, si era all'incirca al 51' di gara, ormai verso la conclusione, Aerts allungava e sembrava farlo in maniera definitiva, ma una leggera discesa e poi una curva insidiosa gli mostravano il conto.
Aerts, disarcionato dalla sua bici incastrata e impazzita in mezzo alle canalette create dal passaggio delle ruote sul fango, risaliva senza poter più colmare il gap che riusciva a scavare Iserbyt, arrivato lordo di fango e vittorioso al traguardo.
Ma ciò che ci premeva sottolineare in questo lunedì mattina non è tanto il risultato, ma è il fatto di aver visto Aerts, una volta superata la linea d'arrivo, francamente distrutto e deluso, scendere dal suo mezzo, avvicinare le transenne, mescolarsi tra il pubblico che lo guardava incredulo e incitare chi arrivava dopo di lui, in particolare il giovane compagno di squadra Ronhaar, campione del mondo under 23 e al primo podio in carriera tra gli élite (e terzo più giovane di sempre, indovinate chi sono i primi due?).
Quella qui in fondo al testo è una delle immagini dell'anno. Senza dubbio. Quello che abbiamo visto è ciclocross, cos'altro?
Messico e fango (ma non solo)
Prologo: un ragazzo in divisa nera attraversa un vialetto infangato in sella alla sua bici. È autunno, ormai, ed è da quasi un anno lontano migliaia di chilometri da casa. Lontano per coltivare una passione, la bicicletta; per divertirsi sì, guai altrimenti, ma anche per cercare di farne qualcosa in più che una semplice serie di gare con gli amici con i quali ha attraversato l'oceano, o restare a bocca aperta mentre di fianco passano i migliori corridori del vecchio continente.
Il ragazzo pedala senza infrangere alcuna regola della sua realtà, pur mescolandosi con la fantasia. Guarda verso l'orizzonte e sogna di diventare un professionista.
Attorno a lui è iniziato il fogliaggio. Macchie rosse, gialli e arancioni incorniciano la scena belga, di un belga fiammingo, diremmo per enfatizzare e colorire. Arriva in cima a una breve salitella dopo aver provato e riprovato curve insidiose; dopo aver tentato e ritentato a saltare gli ostacoli, dopo essere scivolato un paio di volte portandosi l'ingombro della bici sulle spalle. Ha guanti pesanti, le labbra gonfie per il freddo, si scrolla di dosso la fatica pensando all'indomani. Tutto è attesa per il giorno della gara.
I fatti: Gli appassionati di ciclocross saranno sicuramente rimasti incuriositi quando, un po' di tempo fa, hanno visto alcuni ragazzi messicani prendere il via a gare internazionali del calendario italiano. Figuratevi averli visti a Tabor, Repubblica Ceca, e poi a Koksijde, Belgio, per la Coppa del Mondo, e a Merksplas, sempre Belgio, quarta prova stagionale del Superprestige.
A Tabor una data simbolo: il 14 novembre infatti è stata la prima volta per un team e per atleti messicani nella storia di questa disciplina.
L'internazionalizzazione del ciclismo appare scontata ormai quando parliamo di strada, e di pista, quella del ciclocross decisamente meno, in un mondo, quello del fango, che attualmente per numeri e qualità è dominato dalla lingua neerlandese con inserimenti britannici, che fanno sistema, mentre la presenza di Blanka Vas ad esempio, ungherese, più che figlia di un movimento in fermento o che investe, è molto più semplicemente talento.
Il progetto della A.R. Monex, la squadra di cui parliamo, che ha avuto per lungo periodo base sul Monte Titano, San Marino, prevedeva esperienza da fare in Europa al cospetto dei più grandi, come ha raccontato il team manager della squadra Alejandro Rodriguez: «I nostri corridori volevano capire a che livello sono e adesso sanno quanta strada c'è da fare, di sicuro si portano dietro un bagaglio di esperienza incredibile». Un'esperienza che è partita già all'inizio del 2021: i ragazzi della A.R. Monex infatti hanno preso parte a diverse prove di mountain bike, con gettoni in Coppa del Mondo, e pure su strada si sono fatti notare e persino con buoni risultati sia tra gli Under 23 che tra gli juniores.
Dunque non è solo folclore, anzi, mentre è forte la curiosità nel vedere el tricolor messicano e quelle maglie nere con le bandine celesti sulle maniche.
Tra questi corridori c'è Isaac Del Toro, che nelle sue esperienze nel CX ha persino vinto a novembre una gara del calendario italiano, il Trofeo Bikeland Ciclocross a Città di Castello. Ha collezionato un 20° posto a Brugherio e un 22° posto al Trofeo Guerciotti: per nulla male considerata anche la giovanissima età: 18 anni compiuti nei giorni scorsi. 37° a Tabor, in Belgio, Isaac, sempre il migliore dei suoi, ha ottenuto un 40° posto nel Superprestige di Merksplas e un 41° a Koksijde in Coppa del mondo, misurandosi nella categoria élite con il meglio in circolazione.
Ora torneranno a casa, «L'obiettivo è crescere - racconta sempre Rodriguez - e chissà, magari un giorno diventare delle star del ciclismo in Messico e motivare così altri giovani a conoscere questa grande, meravigliosa e durissima disciplina».
Hanno un hashtag - #LoVamosALograr - ovvero ce la faremo, banale, volendo, ma così importante per loro. Come primo approccio ce l'hanno fatta, l'obiettivo è quello di diventare sempre più forti, magari trovare un contratto tra i grandi in Europa, e fosse possibile far parlare di sé.
Epilogo: la stagione per loro si chiude. Il ragazzo carica la sua bici nel pulmino e chiude gli occhi mentre rientra a casa ripensando all'autunno belga, al fango che gli ricopriva occhi e bocca. A quei mostri sacri del ciclocross. E in fondo a quel viale un tramestio di biciclette e freni. Il suono del ciclismo.
Un lavoro a lungo termine: intervista a Daniele Pontoni
Accostare il nome di Daniele Pontoni al ciclocross, in Italia, ma non solo, è operazione semplice, quasi istintiva. Da corridore: due campionati del mondo (uno tra i dilettanti e uno tra gli élite), due classifiche finali del Superprestige, una Coppa del Mondo e diverse corse di spessore in giro per l’Europa nel palmarès, hanno fatto di lui, per anni, uno dei nomi di vertice della specialità e sicuramente il più forte crossista italiano insieme a Renato Longo.
Corridore tecnico e grintoso, da pochi mesi, dopo aver fondato tempo fa, e poi seguito da vicino fino allo scorso anno il Team DP66, cercando di dare continuità a quella che è stata la sua vita in sella a una bici tra le brughiere di tutta Europa, apportando consapevolezza al movimento e insegnando i segreti di questa disciplina a ragazzi e ragazze, è stato scelto dalla Federciclismo come nuovo Commissario Tecnico della nazionale di Ciclocross: l'obiettivo è portare in maglia azzurra nuove idee e l'esperienza maturata negli anni, dando uno sguardo diverso rispetto al passato e verso il futuro della disciplina.
Racconta, Pontoni, di sentirsi «motivato per questo incarico, complesso, ma incredibilmente stimolante». La sua nomina è arrivata a fine giugno e dopo qualche mese è diventato effettivamente operativo.
Nuovo corso, nuove idee: rispetto al passato, quali cambiamenti stai portando?
Il nostro è un progetto a lungo termine che mira a salvaguardare le categorie giovanili, confrontandoci con le società, i nostri primi interlocutori, e con i comitati regionali. C'è da comprendere, però, che questo non si può fare tutto in pochi mesi; siamo a lavoro da agosto, circa, e stiamo cercando di tamponare il più possibile in questo inizio di stagione apportando i primi cambiamenti ma in maniera graduale. Tuttavia con i ragazzi, così come con direttori sportivi e team manager, c'è un dialogo costante: questo ci permette di essere avanti con il lavoro.
E poi, più che rispetto al passato, posso dirti qual è il mio modo: porto nel ciclocross, a livello tecnico, quella che è stata la mia esperienza: ciò che ho imparato sui campi di gara prima e gestendo una squadra poi. In sinergia con la Federazione arrivano le idee: intanto cercherò di lavorare di più sulle categorie giovanili, puntando anche sugli allievi; stiamo organizzando dei mini-ritiri dove vengono chiamati ragazzi delle categorie giovanili. Questo se vogliamo è un po' una rottura con il passato.
Hai anche uno staff di qualità a supporto. E sarete strutturati in un modo, permettimi di dirlo, più internazionale.
Uno dei punti emersi sin dai primi incontri è l'idea di strutturare la nazionale come fosse un team del World Tour. Tecnici e atleti saranno affiancati da esperti nel campo della scienza, dell'alimentazione, del supporto psicologico. Perché oggi fare ciclocross non è soltanto pedalare, ma c'è altro. Ti faccio un paio di nomi: avremo Borgia per la parte psicologica, Bragato per i test atletici, ovvero eccellenze assolute.
Come ci si interfaccia, in Italia, con l'attività su strada e con le varie squadre, visto che poi la strada, da noi, fagocita tutto.
Abbiamo iniziato a parlare anche con direttori sportivi e preparatori di corridori professionisti, ma arrivando a fine stagione per loro non è facile preparare il nuovo anno di cross perché è già tutto programmato per la loro stagione su strada.
Per le categorie giovanili è più semplice perché ce li troviamo ogni domenica in gara. Il programma della Nazionale è comunque un bel programma fitto: undici trasferte tra Coppa del Mondo, Europeo e Mondiale. Come primo anno è una partecipazione molto soddisfacente, ma dobbiamo fare un passo alla volta: teniamo presente come le categorie giovanili negli ultimi due anni hanno corso pochissimo, a volte quasi niente.
Quindi ci sarà una sinergia anche con squadre e corridori professionisti?
L'idea è quella. Per il mio settore sarebbe importante che qualche atleta venga anche nel ciclocross, una disciplina che sforna atleti e li manda poi a correre su strada: il problema è che è un rapporto unilaterale in quanto da noi non rientra più nessuno. Visto quello che succede anche con van Aert, van der Poel e Pidcock, ma non sono gli unici, sarebbe un vantaggio per tutte e due le discipline. Noi intanto abbiamo messo quattro, cinque atleti nel mirino, speriamo almeno di averne due, sono nomi importanti quelli che ho in mente che se accettassero darebbero inizio a un lavoro fondamentale, diverso, a una linea da perseguire in futuro che farebbe bene sia al ciclocross che alla strada.
Dal punto di vista del sistema, dell'organizzazione e degli investimenti, quali difficoltà ci sono in Italia non dico rispetto a Paesi come Olanda e Belgio, ma più che altro a nazioni emergenti come la Gran Bretagna.
La cultura e i numeri non sono paragonabili ovviamente con Belgio e Olanda. Noi partiamo adesso e partiamo da zero. Tu citi bene la Gran Bretagna: nazione emergente ma che è partita con il suo programma una decina di anni fa e ci ha messo un po' di tempo per arrivare al punto dove si trova ora, e lo ha fatto con idee, con il lavoro e con strutture messe a disposizione dalla Federazione. Ecco questo è quello che abbiamo in mente anche noi: strutture che la Federciclismo ci metterà a disposizione, idee che ti ho annunciato, altre che svilupperemo nel tempo: un po' alla volta e a lungo termine questo ci permetterà di pensare in grande per il futuro.
A livello organizzativo questa crescita si è già intravista, dopo l'Europeo 2019, fra pochi giorni ci sarà una prova di Coppa del Mondo in Val di Sole.
La gara in Val di Sole sarà soprattutto uno spot importante per tutto il movimento a livello globale (anche se purtroppo giorno dopo giorno arrivano importanti defezioni tra diversi nomi di punta NdA) e poi l'idea interessante è quella di far correre con la neve che se non ci sarà verrà sparata artificialmente. L'obiettivo è capire (e far vedere) se un domani il ciclocross potrà diventare uno sport olimpico. Perché eventualmente questo potrà fare tutta la differenza del mondo sotto tanti aspetti, di investimenti e visibilità.
Quali argomenti si usano per convincere una famiglia e un ragazzo a scegliere il ciclocross, in Italia?
Sicurezza, innanzitutto: corriamo sempre in luoghi sicuri e “al chiuso”: parchi, campi, sterrati dove è molto più semplice non trovare traffico. Però ora scelgono da soli senza tante argomentazioni: la bici in strada è pericolosa. Se io avessi dei figli ci penserei su prima di fargli fare attività su strada, inutile girarci attorno. E poi l'aspetto tecnico e formativo del cx: è una base importante anche per chi corre su strada.
L'UCI nel frattempo spinge sempre di più nel promuovere eventi Gravel. Ci sarà persino un mondiale.
Vediamo come saranno le norme, ora è in fase embrionale. Io, però, credo che possa andare a braccetto con la nostra disciplina e si potrebbero fare anche tante cose interessanti assieme. C'è da capire come l'UCI svilupperà idee e regole. Siamo solo all'inizio.
Parliamo un po' invece di questo inizio di stagione: podio europeo di Paletti e poi podio in Coppa del Mondo di Venturelli sono già i primi segnali del vostro lavoro?
È troppo presto per dirlo. Noi sicuramente abbiamo portato una sferzata di novità; li supportiamo in ogni cosa e a chi arriva in Nazionale non gli manca niente. Ci interfacciamo con loro, con le loro squadre, per fare un programma condiviso per arrivare al meglio agli appuntamenti clou. Per esempio appena sono stato nominato, quando c'era il Giro d'Italia femminile, le ragazze sapevano già dove sarebbero andate a correre in autunno. La programmazione è fondamentale.
Abbiamo visto finalmente ottimi segnali da parte di Toneatti, corridore che oltre al ciclocross potrebbe dire la sua anche su strada: emblematico il fatto che da febbraio correrà con l'Astana Development.
Negli Usa è andato forte, purtroppo all'Europeo è mancato nel momento clou, ma è giovane e ci sta. Poi ci sono anche Bertolini e Dorigoni, tra gli élite, e anche loro, rispetto al passato, non navigano più nelle retrovie, anzi. A Tabor sono finiti entrambi nei 10: un gran risultato da sottolineare. E Dorigoni è andato molto bene anche all'Europeo. Il livello delle corse è alto e ciò che stanno facendo non è scontato. Poi sicuramente interessanti Paletti tra gli junior e Venturelli che citavi prima, ma anche Corvi, ma sarei ingiusto a nominare qualcuno sì e altri no. Ma vorrei dire una cosa: c'è tanto materiale su cui lavorare, soprattutto tra i giovani, anche tra quelli che sono passati ora allievi. Io sono convinto che verranno fuori ragazzi su cui investire e che in futuro ci daranno grosse soddisfazioni.
Tra i nostri migliori talenti c'è Lorenzo Masciarelli, famiglia di corridori di un certo spessore, da un po' di tempo vive e corre in Belgio seguito da uno dei tuoi grandi rivali, Mario de Clercq.
È partito bene, poi purtroppo un guaio fisico lo ha rallentato: quando non sei al 100% nessuno ti regala nulla e a quell'età fai ancora più fatica. E poi attenzione al contesto: parliamo di un corridore giovanissimo: quando siamo andati a correre negli Stati Uniti qualche mese fa era ancora minorenne e ha disputato la gara tra gli élite difendendosi bene (28° nella prova vinta da Quinten Hermans NdA) contro corridori di spessore e esperienza.
Quali ambizioni possono avere in stagione Lechner, Realini e Arzuffi.
Realini tra le Under 23 può togliersi belle soddisfazioni. È sempre lì in zona podio ora e dopo un periodo di stacco spero che possa riprendere la brillantezza che aveva al Giro d'Italia femminile e negli Stati Uniti. Lechner e Arzuffi le conosciamo: da anni tengono alto il nome della nazionale. Ma c'è un altro nome che vorrei sottolineare.
Prego.
Silvia Persico. Sta arrivando. E quando imparerà un po' meglio la tecnica, quando imparerà a districarsi ancora meglio nelle difficoltà – cosa tra l'altro che sta già avvenendo – sarà una gran bella freccia al nostro arco.
Il Mondiale élite lo hai visto da vicino, sarà un affare tra i "soliti tre" - qualora saranno presenti tutti - o c'è spazio per l'inserimento di qualcuno?
Partiamo da una premessa, banale ma dovuta: loro tre li abbiamo lasciati come corridori superiori non di un gradino, ma almeno di tre gradini, rispetto alla concorrenza. Credo che rientreranno così e quindi sarà dura per gli altri. Poi vedremo. Il percorso del Mondiale lo abbiamo visto, sia con la pioggia che con il sole fa male, è molto impegnativo. Come Tabor: sembra che non sia dura, ma in realtà per un atleta è una delle gare impegnative: non hai un attimo di respiro.
E Iserbyt riuscirà prima o poi a batterli tutti e tre?
Ogni tanto David sconfigge Golia. A me i corridori piccolini piacciono, i lottatori, i grintosi: lui incarna bene questo spirito, è uno che non si dà mai per vinto. E poi c'è un altro corridore su cui spenderei due parole: van der Haar, fresco di titolo conquistato al Campionato Europeo. La gara però che ha vinto a Tabor per me è emblematica. Dico a tutti i ragazzi, ai preparatori e ai tecnici: guardate che gara ha fatto, analizzatela. Se vi chiedete che cos'è il ciclocross, van der Haar a Tabor vi darà tutte le risposte che cercate.
Natale in casa van Aert-van der Poel
Così come in foto ma nel ciclocross: van Aert contro van der Poel. Qui in azione ad Harelbeke, sull'asfalto, esattamente 8 mesi fa, affiancati: fra un mese li rivedremo (più o meno così) ma in mezzo al fango.
È vero, la stagione del CX ha già ripreso da un po'. C'è stata la trasferta a Fayetteville, Stati Uniti, per un assaggio del circuito che ospiterà i mondiali a fine gennaio; c'è quel folletto di Iserbyt che da settembre a oggi ne ha sbagliata una, massimo due. C'è stato il ritorno al successo dopo oltre un anno di Worst.
Ci sono gli azzurri che crescono bene sotto la nuova guida, ci sono volti nuovi e volti noti, rinascite e cedimenti, ma niente attira di più mediaticamente - ma non solo - dell'esordio stagionale dei due corridori in foto - ma certo non ci dimentichiamo che c'è anche Pidcock!
Così come in foto ma nel ciclocross, allora li aspettiamo, l'uno contro l'altro il giorno dopo Natale: rientreranno a dicembre entrambi, ma a Santo Stefano ci sarà il primo scontro diretto.
Se i loro programmi saranno confermati - e non dovrebbe essere altrimenti - saranno intanto cinque le sfide (le scriviamo per memorizzarle) a partire da Dendermonde (26 dicembre), passando per Diegem (29 dicembre), Loenhout (30 dicembre), Hulst (2 gennaio) ed Herentals, a casa van Aert, il 5 di gennaio.
Altro che Una Poltrona per Due o The Blues Brothers, altro che boxing day, o visite parenti, altro che panettoni e pandori: l'appuntamento per le vacanze di Natale sarà un nuovo capitolo della saga van Aert contro van der Poel.
Seduti sul divano con la pancia piena, oppure appena ritornati da un bel giro in bici per smaltire i bagordi natalizi sintonizziamoci per guardare come sgasano quei due. Jouissance: e chi vincerà poco importa.
Per essere un velocista: intervista ad Alberto Dainese
Alberto Dainese, 23 anni, nella prossima stagione al terzo anno tra i professionisti, ha un cruccio: quello della vittoria. «Mi do ancora due, tre anni per vincere, poi eventualmente capirò cosa fare, se andare a giocare a bocce oppure tirare le volate agli altri» ci racconta ironizzando su sé stesso, con disarmante sincerità. «Per un velocista conta solo la vittoria. Poco da girarci intorno». Secondo Dainese un velocista «con la v maiuscola è tale quando conquista almeno 6/7 corse all'anno» e lui che le braccia al cielo le ha alzato così poco di recente (ultimo successo a febbraio del 2020) si definisce «un "corridoretto velocino" al momento, nulla di più». Testuale.
Dainese passò professionista nel 2020 in maglia Sunweb (ora DSM) dopo aver conquistato, nel 2018, tra le altre corse, una tappa al Giro Under 23, e una, ottenuta in modo spettacolare, al Giro del Friuli, mentre chiudeva il 2019 conquistando la maglia da campione europeo sulle strade di Alkmaar - quel giorno sfruttò a meraviglia il lavoro di squadra e dimostrò che in quanto a punte di velocità nelle categoria giovanili aveva pochi rivali.
Fisico compatto, a metà tra le misure di Ewan (piccoletto) e quelle di Merlier (ben più alto) Dainese sin dagli esordi in bicicletta si era distinto per la capacità di andare a segno come un bomber di razza, diremmo, se fosse un calciatore. «Ma un conto è vincere nelle categorie giovanili un altro è fare il salto e confermarti da subito tra i professionisti. Il nostro sport è pieno di ragazzi che si perdono e la differenza tra le altre categorie è abissale. Personalmente sento di migliorare stagione dopo stagione, è vero, ma nel 2022 devo iniziare a raccogliere qualcosa».
Le prime due stagioni da professionista sono state complicate, lo scorso anno partì forte, vittoria in Australia all'Herald Sun Tour, podio alla Race Torquay, dietro Bennett e Nizzolo, poi vari intoppi tra cadute, corse cancellate per il Covid e via discorrendo.
Quest'anno la sua stagione è stata a due facce a tratti quasi paradossale con punte di accanimento. «La prima parte tutta a inseguire: le corse che dovevo fare da capitano sono saltate, quelle dove ero a disposizione del treno di Bol sono filate lisce e a giudicare da fuori pareva che fossi diventato l'ultimo o il penultimo uomo del velocista di punta. Poi, certo, non mi considero mica un fenomeno che non si mette a disposizione degli altri: per crescere, per essere un velocista serve fare anche quello». Ma lui giustamente si sente finalizzatore. È come, tornando alla metafora calcistica, se all'attaccante gli strappassimo dai piedi il pallone o gli vietassimo di calciare in porta.
Da agosto in poi le sue carte se l'è giocate (quasi) alla grande. «Dalla Vuelta tutta un'altra musica. È vero non ho vinto, ma per quello conta anche un po' di fortuna». Ha iniziato a prendere le misure e a battagliare con i migliori velocisti del World Tour. «Philipsen e Jakobsen sono fortissimi, difficili da superare ma anche solo da affiancare, ma quello che è veramente impressionante secondo me è Merlier. Mi ricorda il miglior Petacchi, ha una potenza e una rapidità senza eguali. Al momento lui è il velocista più forte del mondo, superiore anche a Ewan».
Dainese studia gli avversari, ma per essere un velocista sempre più forte quest'anno ha cambiato un po' il metodo di lavoro: «La prima stagione abbiamo puntato tutto sulle volate e sull'esplosività, ma poi si finiva di arrivare allo sprint senza energie. Quest'anno invece abbiamo impostato un lavoro più sulla resistenza e si sono visti i primi frutti». Fondamentale, dice, arrivare freschi al traguardo anche a costo di perdere il picco massimo di velocità: «D'altra parte la coperta per noi velocisti è sempre un po' corta»
Dainese ci spiega come ci si muove in gruppo a quelle velocità, con tutti quei rischi tra gomitate e spallate, ruote sfiorate e rischi assurdi, ci indica qualche trucco del mestiere, per essere un velocista, e che da fuori è impossibile conoscere. «Sì è vero, bisogna essere un po' matti, ma è anche divertente. Io gara dopo gara a furia di prendere bastonate nei denti sto imparando come ci si muove, sto acquisendo abilità e consapevolezza, ma anche guadagnando il rispetto dai miei avversari. Capita di trovarti a ruota di Ewan o Philipsen e se non sei nessuno magari ti becchi anche la spallata che ti sposta, ma se inizi a farti conoscere a suon di risultati allora ti lasciano lì a giocare le tue carte».
A chiudere Dainese, un po' Cavendish e un po' McEwen per il modo di stare in bici nelle volate, ci parla di un rammarico e di una speranza. Il dispiacere è legato al Giro del Veneto dove andò forte dimostrando di non essere solo quel velocista puro che credeva, ma di poter tenere duro anche su percorsi impegnativi. «È vero, ma ci sono anche un insieme di cose: intanto disputare un Grande Giro ti cambia il motore, ti dà brillantezza, ti permette di pedalare a certi ritmi e io aveva appena corso la Vuelta. Poi al Giro del Veneto il livello era alto sì, ma non certo quello del mondiale». Quel giorno tanto fecero le motivazioni. «Si arrivava letteralmente davanti a casa dei miei e c'erano anche gli amici a tifarmi. È stata una giornata indimenticabile. Peccato essere arrivati terzi».
Mentre la speranza appare scontata: «Ritornare a vincere, altrimenti che velocista sarei?».
Sul Giro d'Italia 2022
Ormai è passato più di qualche giorno (forse persino oltre una settimana) da quando il Giro d'Italia è stato presentato. Anzi "finito di presentare": che suona male, un po' strano. Strana presentazione perché divisa in puntate, inusuale, come se farne un racconto seriale desse un tono più contemporaneo all'evento o ne accresca maggiormente l'attesa.
A chi scrive, inizialmente ha creato solo più confusione che altro, per fortuna che c'era poi chi, contemporaneamente alle uscite, raccoglieva e metteva tutto assieme tappa per tappa e nel giusto ordine.
Tuttavia: primo episodio dedicato alle tre tappe ungheresi e dal titolo “Grande Partenza”; secondo episodio, quelle di pianura, “Volate” (oh-oh), poi quelle miste dal titolo “Tappe Mosse” (qui la fantasia si è sprecata), e a seguire “Tappe di Montagna” (ineccepibile).
A chiudere la presentazione della tappa finale “Grande Arrivo” con la cronometro di Verona che si chiuderà tra Piazza Bra e l'Arena come due anni e mezzo fa. Della brevità (contro il tempo) ne parleremo in seguito, ma se non altro sarà un finale estremamente scenografico e chissà che non sia di nuovo pieno di ecuadoriani come nel 2019, ma è prestissimo per parlarne.
Ora, invece, è tempo di dare un punto di vista veloce su come ci pare il percorso di questa edizione di Giro fermo restando che il Giro è sempre il Giro e, probabilmente, appassionerebbe anche se fossero 21 tappe di pianura - no, beh abbiamo esagerato, ma è per capirci: comunque vada la Corsa Rosa ci sta a cuore e non vediamo l'ora sia il 6 maggio, giorno fissato per la partenza - anzi “La Grande Partenza” - dall'Ungheria.
COSA CI PIACE - Le tappe mosse . Se chi scrive appartenesse alla generazione Z esclamerebbe (o forse in realtà lo ha fatto, ma in forma privata): “tanta roba!”. Sono la vera chicca della prossima edizione, una tappa più bella dell'altra: quella piemontese con arrivo a Torino sarà massacrante (un filino corta), quella friulana con arrivo a Castelmonte è ricca di trabocchetti (le discese mettono i brividi) e il Monte Colovrat è salita vera. Muri marchigiani e tappa calabro-lucana due gioiellini (e il chilometraggio è soddisfacente), arrivo a Napoli suggestivo. Saranno tappe insidiose per la classifica, che sorridono ai corridori da corse di un giorno (ma amaramente ci chiediamo: chi ci sarà fra i mammasantissima delle classiche dopo la campagna di Primavera?), saranno tappe che, sempre sulla carta ci potranno far divertire. Fuga all'arrivo e/o battaglia tra gli uomini di classifica ci penseremo a tempo debito.
Ci piace anche, e molto, la tappa con arrivo sul Blockhaus, ma soprattutto quella che termina sulla Marmolada. Forse ci vorrebbe qualche chilometro in più (anche 40, 50), ma l'arrivo sul Fedaia non teme confronti con nessun altro finale di nessuna corsa del mondo. Da Malga Ciapela in poi vengono le vertigini, male alle gambe e fioccano i ricordi.
E poi le cartine altimetriche del Giro restano sempre le migliori; sembra un fatto banale ma non è così. Realistiche, dettagliate, facilmente fruibili. Provate a controllare quelle del Tour (per altro quelle del 2022 ancora non ci sono) e a fare un'analisi basandovi su quelle e noterete la netta differenza.
COSA NON CI PIACE – Facile: 26 chilometri a cronometro sono pochissimi. Persino inspiegabili. Corsa sbilanciata e senza una vera crono lunga. Ma quanto erano belle le crono vallonate di 40/50 km di qualche stagione fa? E no, qui non si tratta di nostalgia anche se l'età avanza per tutti ed è più semplice rimpiangere e leggere il passato che rendersi conto del, e apprezzare il, presente.
Qui non c'entra la salvaguardia del, come si è letto in giro, “patrimonio Ganna”, qui si tratta di avere il dovere (sic) di arrivare almeno a 50/60 km di cronometro per rendere la corsa completa e meno sbilanciata. Per quale motivo dovrebbe essere meno spettacolare una crono lunga (o medio lunga?) rispetto a una crono di 9,2 km (la prima) e di 17,1 (!) , la seconda? Poi certo – e anche qui se ne parlerà a tempo debito – l'ago della bilancia, quello che sposterà ogni commento concreto sarà scoprire i nomi che si giocheranno la maglia rosa, oggi si commenta l'uscita delle tappe, non altro.
E la questione del chilometraggio è quella più calda: solo tre tappe sopra i 200 km (per altro appena sopra i 200 km) tra cui due piatte per velocisti e una messa pure di domenica, la prima domenica: certo non il miglior spot per tenere incollati in tv gli appassionati a inizio maggio. Diverso il discorso per noi malati della pedalata altrui: ce la guardiamo senza fiatare dal km 0, ci chiederanno perché ci facciamo così del male e il perché è sempre quello: il Giro è sempre il Giro e già facciamo il conto alla rovescia per quando inizierà (da oggi dovrebbero essere 168 giorni!).