Finalmente Paris-Roubaix
7112 giorni fa, oltre diciannove anni, l'ultima volta che pioggia e Paris-Roubaix si sono guardate negli occhi e poi parlate. Vinse Johan Museeuw, non uno qualsiasi, mai. Che su quelle strade rischiò di farsi amputare un ginocchio. Quel 14 aprile del 2002 fu praticamente il suo ultimo grande successo. Terzo arrivò Tom Boonen all'epoca giovane speranza belga e mondiale che nell'Inferno del Nord fece conoscere la sua leggenda fino a scoprirne poi la più grande beffa.
903 giorni dall'ultima Parigi-Roubaix. La più penalizzata delle corse causa pandemia. Quel giorno van Aert cadde, inseguì, poi saltò. Gilbert se ne andò via con Politt e lo superò dentro il velodromo intitolato a Stablinski. In mezzo tra quella e questa Roubaix il mondo ha conosciuto un po' di tutto, il ciclismo si è adeguato alle inevitabili trasformazioni.
Sagan ha smesso di dominare: 9 successi negli ultimi due anni e mezzo, su oltre 100 in carriera fino a quel giorno. Gilbert ha visto il suo declino accelerato da età, brutte cadute e infortuni. Froome non avrebbe vinto più un Grande Giro, anche lui invischiato tra cadute e tempo che passa. Sarebbe iniziata l'epoca degli sloveni e di Bernal, sarebbe arrivato Carapaz dall'Ecuador. Aru avrebbe smesso di correre, i danesi avrebbero raggiunto l'età dell'oro e Alaphilippe, in un paio di anni, avrebbe vinto due mondiali in fila. Evenepoel avrebbe fatto conoscere a tutti, sempre più velocemente, forza e spavalderia. E poi van Aert e van der Poel, e quel dualismo a riempire le pagine.
Già, van Aert e van der Poel (anche) oggi favoriti ma poi magari vincerà qualcun altro perché è il bello del ciclismo, perché è il fascino della Roubaix dove puoi essere in giornata di grazia, ma poi, appunto, il diavolo travestito da viscido pavé e (finalmente, diciamolo) da fango, ci mette sempre lo zampino. Figuriamoci domani che è prevista (altra) pioggia. E servirà una dose di fortuna incredibile oltre a malizia nella guida e poi quell'esperienza che arriva dal ciclocross risulterà fondamentale.
E allora sembrava veramente che non dovesse accadere più, come quando ti ritrovi a fare un incubo e non riesci a uscirne e ti senti soffocare e invece siamo qui a immaginarci il gruppo in fila per prendere Arenberg, a sperare che ne escano tutti intatti perché già è complicato di suo, immaginatevi dopo la pioggia, tutti sparati a limare che anche se guidi bene o salti come un grillo da un buco all'altro non sai mai cosa ti può accadere. E puoi forare nel momento decisivo, ti si può rompere la bici, eccetera.
Pensi alle Carrefour de l'Arbre e ai settori, e ai colori che saranno grigi e marroni, ai campi intorno pronti per la raccolta, all'erba più alta di quando è aprile, e a punti in cui ci sarà tifo indemoniato per tutti. E pensi a favoriti e outsider: da quanto tempo abbiamo sognato questo momento? Pensi all'armata Deceuninck che non ha i favoriti assoluti ma se sommi Asgreen, Sénéchal, Štybar e Lampaert puoi tirarci fuori il vincitore. Pensi a Stuyven che ha il colpo in canna ancora dal Mondiale; ti aspetti Sagan che per vincere quella volta si mosse da lontano e gli altri si guardarono. Pensi a Colbrelli (che sarà qui la prima volta e a Roubaix serve esperienza, tanta) o Moscon che qui ci fece sobbalzare per qualche istante quando entrò nel velodromo pizzicando il gruppo di testa e provò persino ad anticipare la volata.
E poi la lista dei nomi pare infinita ma non importa, quello che importa è che dopo quasi mille giorni torneremo a vedere quella che per la maggior parte del gruppo è "la gara che ho sempre sognato da bambino". Seppure sarà maledettamente dura, pure noi la sogniamo.
Bentornata Roubaix, Inferno del Nord, purgatorio di fatica, paradiso ciclistico.
IL PERCORSO
257 km: 54,5 di pavè diviso in 30 settori. Come da tradizione da una stella a cinque stelle per indicarne la difficoltà e dove a 5 stelle, i settori più difficili, i soliti tre: settore numero 19, Trouée d'Arenberg (95,3 km dall'arrivo) lungo 2.300 m, settore numero 11, Mons-en-Pévèle (48,6 km all'arrivo) 3.000 m di lunghezza, e infine settore numero 4, Carrefour de l'Arbre, (17,2 prima di tagliare il traguardo) 2.100 m di lunghezza. E in mezzo sarà il solito delirio dove quest'anno appunto, andrà pure aggiunto il fango.
I FAVORITI DI ALVENTO
⭐⭐⭐⭐⭐ Van Aert
⭐⭐⭐⭐ Van der Poel
⭐⭐⭐ Sénéchal, Štybar
⭐⭐ Stuyven, Asgreen, M.Pedersen, Kueng, Sagan, Politt
⭐ Van Baarle, Kwiatkowski, Moscon, Colbrelli, Lampaert, van der Hoorn, Turgis, Kristoff, Teunissen, Philipsen
Foto: ASO/Pauline Ballet
Tra le crepe dei sogni belgi
Chissà se i giganteschi troll di legno del parco di De Schorre, in Belgio, conoscevano già l'esito della gara. Ce ne sono sette, ma due in particolare sono interessanti, "Una e Jeuris" i loro nomi. Si dice siano raffigurati mentre sognano indicando le nuvole.
Tra quelle nuvole oggi si è infilato Julian Alaphilippe. Tra le crepe dei sogni belgi si infilano i suoi tre scatti: il primo, tribale come un rullo di tamburi, a 58 km dall'arrivo porta via la fuga decisiva di una corsa pazza, meravigliosa, velocissima, da bere tutta d'un fiato come una birra fresca quanto basta; il secondo una stilettata micidiale che screma ulteriormente; il terzo, decisivo, fatto di gambe e smorfie, di tic e scossoni. Spegne i bollori di van Aert, Colbrelli e tutti gli altri a seguire, e lo lancia verso il secondo titolo mondiale.
Il sole oggi a Leuven non è mai uscito in maniera del tutto convincente. Il cielo, coperto da un sottile strato di nuvole, è una patina biancastra. Mentre Alaphilippe taglia il traguardo si alza un urlo, bandiere fiamminghe smettono di sventolare, qualche boccaccia, cacofonici buuuu dei tifosi di casa.
L'urlo è un "fate spazio" in mondovisione, è il soigneur francese mentre regge il vincitore. La bocca di Alaphilippe, asciutta, pulsa in cerca di una bevanda zuccherata. Lo sguardo ha inflessioni incredule, mentre arrivano Štybar, Sénéchal, Madouas, poi pure van der Poel, ad abbracciarlo. Di nuovo Campione del Mondo - meritato.
L'autunno oggi è belga per una squadra di casa che accende una corsa sulla quale spendiamo elogi. Ogni gruppo che parte è pericoloso, ogni volta che va via qualcuno dentro c'è Evenepoel, come fosse nascosto nei cespugli.
Evenepoel, oggi il più fedele alla causa di tutto il Belgio. Una sorta di piccolo eroe. E se qualcuno avesse ancora dubbi su di lui, eccoci serviti, attacca a 180 dall'arrivo, tira il gruppo per van Aert, chiude, strappa e poi si fa da parte stremato in preda ai dolori.
È un sogno in bianco e nero la corsa: sembra di aver fatto un salto di quarant'anni indietro, quando i migliori si sfidavano da subito, da lontano, facendo brillare gli occhi e sgolare tifosi da tutto il mondo a bordo strada o a casa. Una volta attaccati alle radioline in attesa di notizie. Oggi incollati a televisori, tablet, telefonini.
Ci aiutereste, allora, a trovare una parola per definirla? Ci consigliereste un termine per una giornata che a quattro ore dalla fine vedeva già alcuni tra i favoriti andare in fuga? Ci vengono i termini spettacolare, meraviglioso. Esageriamo? Ma lo abbiamo detto ieri: è un Campionato del Mondo, ci aspettavamo tanto, sì, ma forse questo no. Come un sogno.
Il sogno dell'Italia pare infrangersi subito, quando Ballerini tampona Trentin e vanno a terra, e poi la Francia parte con Turgis e lo segue Evenepoel e l'Italia insegue, insegue, insegue e riesce a chiudere.
Poi il sogno matura perché Colbrelli e Nizzolo stanno bene, con un Bagioli da 9 in pagella che ci darà tante di quelle soddisfazioni in futuro: solo 9 perché 9,5 lo prende Evenepoel e 10 il vincitore. Stanno bene, dicevamo, Nizzolo e Colbrelli e sono lì davanti in quel gruppo a giocarsi le medaglie.
Poi arriva Alaphilippe che decide di infilarsi in mezzo ai sogni altrui. Parte e nessuno lo rivede. Vince ed è un bellissimo vincitore, mentre van Baarle e Valgren uccidono crudelmente i sogni belgi, cacciando dal podio al fotofinish il ragazzo di casa, di Leuven, Jasper Stuyven.
Forse Una e Jeuris conoscevano già lo svolgimento di questa gara indicando con meraviglia qualcosa tra le nuvole. Fortunati loro che sognano e hanno visioni. Fortunati noi per aver vissuto questa giornata.
PS. Qualche parola su quanto è forte Pidcock andrebbe spesa, ma tant'è. La scena oggi è di Alaphilippe.
Foto: Bettini
Domani c'è il Mondiale
Quella corsa che tutti sognano: chi corre e chi aspetta, chi scrive e chi tifa. Quella gara che ti dà una maglia che, se ce ne fosse bisogno, rende ancora più unico il ciclismo. Potevamo fare una lista di trenta, quaranta nomi, fra quelli che vinceranno e indosseranno la maglia arc-en-ciel per tutto il 2022. Talmente tanti i possibili finali del multiverso di Leuven: un percorso che pare meno duro di quello che si prospettava alla vigilia e che si apre a diversi scenari. Ne abbiamo scelti dieci: diteci anche la vostra.
𝐖𝐨𝐮𝐭 𝐯𝐚𝐧 𝐀𝐞𝐫𝐭 è il più completo e continuo del 2021 e potrebbe vincere in qualsiasi modo. Gli argenti conquistati in diverse occasioni fra poche ore vorranno fondersi e come per una strana alchimia diventare oro. Corre in casa, tutti sono per lui, il gruppo è contro di lui (come si è sempre contro il più forte), ma se dovesse vincere, paradossalmente, non farebbe scontento nessuno. Almeno così ci piace credere.
𝐌𝐚𝐭𝐡𝐢𝐞𝐮 𝐯𝐚𝐧 𝐝𝐞𝐫 𝐏𝐨𝐞𝐥 arriva a fari spenti che sembra un po' un paradosso quando si parla di lui ma è così. Naïf nel modo di correre a volte, e anche di organizzare la sua stagione che difatti gli lascia strascichi fisici. C'è quella rampa a sei dall'arrivo che pare fatta apposta per il miglior van der Poel. Ma sarà il miglior van der Poel?
𝐉𝐮𝐥𝐢𝐚𝐧 𝐀𝐥𝐚𝐩𝐡𝐢𝐥𝐢𝐩𝐩𝐞 più di testa che di gambe perché il campione uscente in rare occasioni quest'anno ha dimostrato quell'attitudine vista la stagione precedente. Il discorso è che lui è Alaphilippe, non uno qualsiasi, e, se pure non al meglio: scommettereste mai contro uno così? In Francia hanno in cantiere una serie di piani alternativi da fare impallidire uno sceneggiatore folle e che vanno da Laporte a Cosnefroy, passando per Sénéchal e Démare e finendo a Turgis. Squadrone.
𝐌𝐚𝐭𝐭𝐞𝐨 𝐓𝐫𝐞𝐧𝐭𝐢𝐧 per l'Italia. Perché potevamo dire Colbrelli e la forma della vita, o Nizzolo e Ballerini e il loro spunto finale, ma se c'è un azzurro che si meriterebbe di vincere è lui. Uscito bene dalla Vuelta è in crescita, ha l'esperienza giusta, e sogna uno svolgimento simile ad Harrogate 2019 ma con finale completamente diverso.
𝐄𝐭𝐡𝐚𝐧 𝐇𝐚𝐲𝐭𝐞𝐫 è il più giovane fra quelli su cui scommetteremmo. Se non si conoscesse la sua stagione sembrerebbe folle inserirlo qui, ma va forte e soprattutto, un po' con caratteristiche simili a quelle di van Aert, potrebbe vincere (quasi) in ogni modo. Da valutare sulla lunga distanza , ma per la Gran Bretagna più lui che Pidcock.
𝐌𝐢𝐜𝐡𝐚𝐞𝐥 𝐌𝐚𝐭𝐭𝐡𝐞𝐰𝐬 perché ovunque ti giri lui c'è sempre. Magari non vince ma è lì. Si attacca e non ti molla e poi, visto lo spunto veloce, può infilarti. Il percorso è tagliato per lui che corre sempre davanti e coperto a ruota altrui e ha la forza giusta per resistere alle accelerate. In casa australiana però non fanno mistero di guardare con buon occhio il finale di Ewan. Nel caso arrivassero davanti entrambi: chi si sacrifica per chi?
𝐌𝐚𝐭𝐞𝐣 𝐌𝐨𝐡𝐨𝐫𝐢č è la punta di una Slovenia che presenta i dominatori di Tour (Pogačar) e Vuelta (Roglič) i quali forse si sarebbero aspettati (come anche noi umili osservatori) un tracciato più duro, ma con quel talento mai darli per vinti. Mohorič ha tutto per vincere: scatto, spunto, fondo, scaltrezza, forma e capacità di guida della bici. Ha già vinto due mondiali in passato che male non fa. Si saprà ripetere?
𝐑𝐞𝐦𝐜𝐨 𝐄𝐯𝐞𝐧𝐞𝐩𝐨𝐞𝐥 perché se vogliamo una gara spettacolare con attacchi che partono magari dalla media distanza, scorribande già nel circuito fiammingo con uomini forti, guardiamo lui. Che si dice pronto a spendersi alla causa van Aert ma è così ambizioso che un modo per cercare di far saltare il banco lo troverà. O almeno ci proverà.
𝐌𝐚𝐠𝐧𝐮𝐬 𝐂𝐨𝐫𝐭 𝐍𝐢𝐞𝐥𝐬𝐞𝐧 esce dalla Vuelta come uno spauracchio. È una delle punte di una formazione danese che da più parti hanno definito gli Avengers. Completo, alla stagione migliore della carriera, come tutto il movimento danese è all'apice. Può adattarsi alle più svariate situazioni: volata ristretta, corsa dura, persino fuga. Due anni fa Pedersen, domani l'iride potrebbe prendere di nuovo la strada della piccola nazione nord-europea.
𝐌𝐚𝐫𝐜 𝐇𝐢𝐫𝐬𝐜𝐡𝐢: ci piacciono quei nomi che potrebbero fare corsa dura e Hirschi è uno che calza a pennello in caso di selezione. Non è l'Hirschi del 2020, ma è in crescita e, seppure giovanissimo, lo stiamo imparando a conoscere come profilo che si ingrossa non appena si alza la posta in palio. La Svizzera sin qui al Mondiale è arrivata più volte vicina al colpo grosso: magari con Hirschi, che ha fondo e resistenza e alla fine di 270km si difende bene anche in uno sprint ristretto, è quella buona.
E poi ancora Sagan e Stuyven, Lampaert e Teuns, Kristoff e Asgreen, Pedersen e Valgren, magari Aranburu (la Spagna ogni tanto qualche scherzetto lo combina), Degenkolb o Politt. Bissegger e Almeida, Simmons, Kwiatkowski o Štybar. Qualcuno magari ce lo siamo lasciati per strada, ma insomma l'elenco ci pare sufficiente.
E i vostri favoriti chi sono?
Foto: Luigi Sestili
Filippo, Campione del Mondo
Non crediamo che nel nome di una persona ci sia il destino, o almeno non fino al punto da determinarne vittorie o sconfitte in bicicletta, ma se ti chiami Filippo, in questi giorni, pare che nelle Fiandre tu possa andare discretamente bene. Se Filippo, inteso come Ganna, lo conosciamo bene, oggi è il caso di scoprire un po' chi è Baroncini, che per come è scattato a meno cinque dall'arrivo sarebbe subito da rubare l'idea già usata (e abusata) e scrivere il suo nome tutto in maiuscolo e tutto attaccato: FILIPPOBARONCINI.
Quando lo abbiamo incontrato qualche settimana fa a Trento ce lo ha detto: si sente bene, forte e motivato, ma soprattutto ambizioso. Che quando passerà professionista (Trek-Segafredo) vorrà da subito giocarsi le sue carte.
Ma oggi il suo cammino tra gli Under 23 era da portare a compimento. Esploso sul finire della scorsa stagione, l'ascesa di Baroncini è stata fulminea e ha visto l'apice della sua sin qui brevissima carriera su quella rampetta, quando al traguardo mancavano meno di una decina di minuti.
E lui scattava, «Dentro di me dicevo: vai, vai, vai» - ha raccontato a fine corsa. Con i suoi watt avrebbero acceso probabilmente tutte le luci del viale che lo conduceva verso l'arrivo, mentre dietro Zana, Colnaghi, Coati e Gazzoli (e Frigo nelle prime fasi a lavorare per tutti) lo coprivano, perfettamente, manco fosse una di quelle giornate fredde da passare sul divano a guardare la tv. A guardare ciclismo: gioco che regala oggi la maglia iridata a un solo corridore, ma quanto c'è di squadra dietro ogni successo.
Oggi Filippo Baroncini (che è pure caduto a metà corsa) ci ha fatto saltare da quel divano, ci ha fatto vedere cos'è il talento, la crescita graduale, la potenza del finisseur, ci ha fatto vedere cosa vuol dire finalizzare il lavoro di squadra - Colnaghi all'attacco e gli altri a lavorare per ricucire, Zana stopper come uno di quei cagnacci che ti morde le caviglie - lui che è capace di andare forte dappertutto, ma che non sembra di quelli buoni ovunque e basta, ma di quelli davvero competitivi su ogni terreno: salita, cronometro, finali vallonati e incasinati come quello di oggi.
E a guardarlo negli occhi a fine gara o a rivedere l'azione che lo ha portato a vincere, sembra impossibile che per lui finisca qui. La rampa sopra Leuven lo ha lanciato, ma non sappiamo bene ancora dove potrà arrivare.
Foto: Bettini
Quei cinque centesimi
D'altra parte cosa sono cinque centesimi? In realtà non sapremmo quantificarli in una gara di biciclette, perché arrivare davanti per cinque centesimi dopo cinquantuno (51!) minuti ha tanto il sapore della beffa o di quelle corse tipo lo sci alpino.
Ma il cronometro benedetto e maledetto ha sentenziato: gioia per i ragazzi azzurri, beffa per gli svizzeri che sarebbe stato meglio togliere quei distacchi dopo la virgola e assegnare la medaglia a tutti e dodici (12!).
È che ci stiamo abituando così bene a questa Italia, popolo di passistoni e abili cronomen, ma così bene che se ce l'aveste detto qualche anno fa ci saremmo messi a ridere o vi avremmo accusato di circonvenzione di incapace.
Ci stiamo abituando così bene a Filippo Ganna trascinatore, a Elisa Longo Borghini, Elena Cecchini e Marta Cavalli finalizzatrici, a Edoardo Affini e Matteo Sobrero carburanti per il motore, azzurri che oggi, tra Knokke-Heist e Bruges, si sono regalati un'altra medaglia.
Forse qualcuno ancora storce il naso per questa gara, ma noi ci siamo divertiti. Distacchi a fisarmonica tra la frazione maschile e quella femminile; una crono che racconta mille storie e la più intensa è quella di Tony Martin, all'ultimo ballo come va tanto di moda dire, all'ultima gara, all'ultima maglia, all'ultima medaglia.
Pochi giorni fa "Der Panzerwagen" ha annunciato il ritiro dalle competizioni e oggi ha guidato la Germania in una crono a mille, di alto livello; altro che "eh ma la staffetta mista". Ben venga la staffetta mista. È affiatamento, tecnica e potenza, mostra i progressi di una squadra, tasta il polso alla punta dell'iceberg di un movimento, sia maschile che femminile. E poi li unisce: nel risultato, nel tifo dopo il traguardo con Ganna e gli altri a spingere idealmente la volatina azzurra.
E Ganna, sempre lui, chi sennò, tecnica e potenza in un solo corpo, ha trascinato la nazionale con quella sua proverbiale tranquillità che lo contraddistingue sia nella vittoria che nella sconfitta. Pista e strada non fa differenza: basta seguirlo. E poi Affini e Sobrero vagoncini affidabili, Longo Borghini, Cecchini e Cavalli che l'hanno spinta in rete.
Cinque centesimi sono bastati, anche se qualcuno al traguardo non lo aveva capito. Cinque centesimi per un podio. Un niente, difficile da quantificare. Cinque centesimi, sì, e oggi ce li prendiamo tutti.
Spingere Wout van Aert
Secondo, secondo, secondo, secondo, secondo. No, non ci si è incriccato il cervello e nemmeno incantata la tastiera. Se ci pensate bene il ritornello assomiglia al ruolino di marcia di Wout van Aert tra prove olimpiche e mondiali, appuntamenti iridati nel ciclocross e su strada: parliamo più o meno degli ultimi 12 mesi.
Due volte secondo nel 2020 ai Mondiali di Imola: prima nella crono dietro Ganna, poi pochi giorni dopo nella prova in linea, dietro Alaphilippe.
Secondo poi al mondiale di Ciclocross a Ostenda dietro van der Poel; secondo qualche mese fa a Tokyo dietro Carapaz, secondo domenica dietro Ganna. E più che un ritornello sembra diventata una sorta di maledizione per lui che in carriera, almeno quando si infangava con regolarità, le sue maglie iridate le ha vinte.
Ma quella di questa domenica è la medaglia d'argento che fa più male, perché spinto dal suo pubblico che a un certo punto goliardicamente faceva persino segno a Ganna di rallentare all'imbocco di una strettoia.
Spinto dall'idea di consacrarsi numero uno del ciclismo mondiale dopo aver vinto quest'anno 13 corse tra cui Gand-Wevelgem, Amstel, campionato nazionale in linea, 3 tappe al Tour e 2 alla Tirreno Adriatico.
Spinto da un motore che è un tutt'uno con la testa: chi la conosce la descrive come senza eguali. Un motore che gli permette di andare forte in salita, in pianura, in volata. Una testa che lo ha fatto ripartire dopo un incidente drammatico al Tour di un paio di anni fa. Che lo fa spingere oltre ogni limite, perché a trovarne di corridori che ieri lottano con Ganna, domani con Pogačar e Alaphilippe, dopodomani con van der Poel.
Alla fine della prova di domenica ha abbracciato Ganna, nonostante tutto, a dimostrazione dello spirito e del rispetto che trasmette il ragazzo di Herentals.
Si è dichiarato deluso, non poteva essere altrimenti, e ha aggiunto che da un punto di vista razionale perdere una crono per 5 secondi da un "super specialista", così lo ha definito, come Ganna, normalmente sarebbe una gran cosa, ma resta un argento che brucia, perché arrivato in casa e dopo essere stato in testa per due terzi di gara.
Dice, poi, van Aert che analizzerà la gara con calma da lunedì, ma che in realtà un'idea su dove ha perso la corsa ce l'ha: in un punto ha rischiato di cadere, e poi nel finale, tra Damme e Bruges, Ganna ha spinto nettamente più forte.
Domenica, tra i tanti corridori al via, abbiamo già trovato per chi simpatizzare: nessuno ce ne vorrà. Abbiamo trovato chi spingere con forza verso il traguardo per vederlo a braccia alzate - se proprio non dovesse essere qualcuno in maglia azzurra.
Siamo schietti, un Wout van Aert iridato non ci dispiacerebbe. O almeno che non arrivi di nuovo secondo, ecco.
Un campione, un fuoriclasse
Oggi è una di quelle giornate che elevano i campioni a fuoriclasse. Dove si sposta l'asticella, dove resti con il fiato sospeso e vedi Evenepoel e ti chiedi: "e ora chi lo batte?". Dove vedi i polpacci di van Aert tiratissimi che pensi nessuno possa fermarlo; il belga spinto dal pubblico di casa in delirio a ogni curva e sembra che oggi si possa finalmente festeggiare con lui. E invece.
Oggi non era facile. Per nessuno. Perché la rassegna iridata iniziava nel peggiore dei modi: ieri Chris Anker Sørensen, ex professionista e inviato ai Mondiali come commentatore tecnico per una televisione danese, ha perso la vita sulle strade del Belgio, pedalando, come ha sempre fatto e come ha voluto fare ieri, fino al tragico epilogo quando un furgone lo ha investito.
Ma c'è stata la corsa, oggi: si sa, va così. E allora per un attimo dimentichiamo quei pensieri, anche se quel groppo in gola resterà per sempre, lasciandoci il fragore del mare a Knokke-Heist che si infrange alle spalle dei corridori in partenza.
Lasciamoci alle spalle i due intertempi dove van Aert era sempre davanti a Ganna. Chiudiamo gli occhi e pensiamo solo a quel rettilineo finale a Bruges, a quella spinta ideale, all'exploit, al "ce la fa, non ce la fa", al conto alla rovescia fatto a mente, ai riferimenti presi meno di un minuto prima, a quella maglia blu, a quelle gambe enormi, a quei 5 secondi e 37 centesimi che sono bastati a Filippo Ganna per diventare di nuovo campione del mondo della cronometro. Quei pochi secondi che bastano per cancellare il nome di campione di fianco a quello di Ganna e cambiarlo con il termine: fuoriclasse.
Lasciamoci alle spalle l'urlo strozzato dei belgi: le cronometro non vanno mai come si pensa. Scrivi un codice e premi invio, ma dall'altra parte c'è un firewall che ti blocca.
Lasciamoci alle spalle tutto e godiamo per Filippo Ganna, che corre la sua miglior cronometro della carriera, nel giorno più importante (l'ennesimo giorno più importante) della sua carriera. Lui che si lascia alle spalle quella piccola delusione all'Europeo o le critiche per quella medaglia sfumata a Tokyo.
Lasciamoci alle spalle tutto e anche questo racconto un po' a metà; perché se si potesse, oggi la medaglia d'oro la meriterebbero pure van Aert ed Evenepoel. Perché per chi scende dalla bici è stato un urlo un po' strozzato, negli occhi di tutti i protagonisti una gioia non goduta fino in fondo, un groppo in gola che rimarrà per sempre, perché avremmo sognato una giornata diversa questa mattina, anche se l'epilogo, per certi egoistici versi, ha funzionato come un palliativo.
Lasciamoci alle spalle tutto, almeno per un attimo. Tranne quella maglia iridata che, diciamolo francamente, su Ganna sta terribilmente bene.
A piccoli passi: intervista a Filippo Zana
Mancavano pochi chilometri all'arrivo della prova in linea per Under 23 dell'Europeo di Trento, quando Filippo Zana rompeva gli indugi. In Piazza del Duomo la gente si affollava davanti al mega schermo e si sentiva il boato della folla: tutto questo per aver visto le maglia azzurre davanti.
Il suo scatto faceva saltare la corsa come quando lo spumante cerca di uscire dalla bottiglia. Gli spagnoli, fin lì padroni del gruppo come cattivoni di un b-movie, si facevano da parte. Davanti restavano in sette.
«Baroncini e io stavamo bene» mi racconta Zana giorni dopo, soddisfatto per come è andata la corsa, nonostante il piazzamento finale: Baroncini 2° e Zana 6°. «Ho fatto il forcing: meno corridori fossimo rimasti lì davanti e più possibilità di medaglia avremmo avuto. Io non sono molto veloce, sono un passista scalatore e amo fare la differenza su salite di massimo 6/7 chilometri. Ho provato di nuovo la sortita arrivando in città. Alla fine non è andata male, una medaglia che ci dà fiducia per il futuro».
A sorprendere tutti Thibau Nys, che fa base nel ciclocross, ma mostra da tempo eccellenti qualità su strada e allo sprint. «Fare ciclocross ti dà qualcosa in più - afferma sempre Zana – l'ho praticato da ragazzo e quest'inverno tornerò anche io a sporcarmi nel fango. Parteciperò a qualche corsa per fare fatica e prendere freddo; per affinare il motore quell'ora che fai fuori soglia è tutto un guadagno quando riprenderai l'attività su strada».
Arriva dalla provincia di Vicenza, Zana, fa parte di quella classe '99 che tanto pare possa dare al ciclismo italiano. I suoi genitori hanno una birreria e lui ama i cavalli. Un doppio binomio: birra-fatica, cavalli-ciclismo che pare scritto apposta. «In realtà io sono la pecora nera degli Zana: da noi ha sempre dominato il calcio. Però i cavalli sono stati una parte della nostra famiglia. Me ne sono comprato uno qualche anno fa con i risparmi, le paghette, i premi vinti da ragazzo. Si chiama Vior; l'ho preso che si chiamava così e gli ho lasciato il nome: dicono che ai cavalli non vada cambiato». D'inverno, racconta, va nei boschi a fare legna per mantenere la forma fisica e Vior è sempre con lui.
Se scrivesse un programma politico, il suo impegno avrebbe un motto: "A piccoli passi". Dice di aver scelto di restare un altro anno in Bardiani-CSF-Faizanè perché è la realtà perfetta per uno come lui, perché se avrà la possibilità di passare nel World Tour vorrà essere pronto al 101% e qui trova lo spazio giusto per crescere con calma. «Se fai il passo più lungo della gamba rischi di bruciarti. Guarda tutti quei ragazzi che passano da junior a professionisti. Te lo puoi permettere se sei Evenepoel, ma se non sei un fenomeno cosa fai? Sbagli un anno e rimbalzi indietro e magari nemmeno una Professional ti vuole più».
Sesto all'Europeo, terzo all'Avenir, vincitore della classifica finale del Sazka Tour in Repubblica Ceca, risultati tutti ottenuti con la nazionale Under 23: la maglia azzurra lo gratifica, e lui vuole portarla in alto. «A inizio stagione con Amadori (il CT della nazionale Under 23, N.d.A.) ci siamo parlati e abbiamo programmato la stagione così. Che dite, secondo voi ho ripagato la fiducia?».
Vorrebbe far scorrere tutto il possibile sotto le sue ruote: ama la Roubaix, sogna la classifica in un Grande Giro («devo migliorare a cronometro e sulle salite lunghe, ma mi sono accorto di avere buone doti di recupero»), ma quest'anno l'infatuazione più grande è arrivata alla Strade Bianche. «Sullo sterrato e sugli strappi mi sono divertito un mondo. Certo che van der Poel ha fatto quello che voleva».
Racconta di non avere un proprio punto di riferimento in gruppo, ma di captare segreti da ognuno: «Ma soprattutto cerco gli errori per non commetterne in futuro io stesso». Si allena guardando watt e dati, ma in gara si lascia trasportare dalle sensazioni. Se pensa al ciclismo pensa al sacrificio, agli allenamenti, al “non si molla mai un metro”: freddo, pioggia o caldo che sia. Ma soprattutto, sostiene, il massimo è la soddisfazione che ti dà una vittoria. E prima o poi, a piccoli passi, arriverà anche quella importante.
Foto: Bettini
"Finalmente ho vinto"
Seduto sulla poltroncina - in (finta?) pelle grigia - che spetta al leader della cronometro dello Skoda Tour Luxembourg, Cattaneo ha visto passare avversari su avversari: gli finivano regolarmente dietro e nemmeno di poco.
Ha pennellato e spinto. Ha tagliato il traguardo ed era primo, ha battuto il danese Skjelmose, vent'anni, una carriera davanti che gli sorriderà dopo un passato che lo ha visto fare tempi à la Remco e poi l'ombra di una squalifica per doping.
Ma Cattaneo, dicevamo. Si è seduto su quella specie di trono di plastica. Ha visto scorrere i tempi: nessuno gli si avvicinava nemmeno lontanamente, e quando è stato il turno del compagno di squadra Almeida, quello che fino a ieri pomeriggio ha difeso come fosse una porta da tenere inviolata, ha tremato.
Abbiamo, poco sportivamente, ma ogni tanto capita, sperato che Almeida tirasse con meno precisione una curva, che rilanciasse con meno forza, perché i due erano vicinissimi. Quando ha chiuso la sua prova, il verdetto: due secondi di ritardo per il portoghese. O ribaltando: due secondi di vantaggio per l'italiano. Quanto bastava per vedere Cattaneo incredulo, felice e poi commosso. «Finalmente ho vinto». Le sue prime parole.
Cattaneo corre tra i professionisti ormai da quasi dieci anni. Prima promessa, poi dimenticato. Con Savio si è rilanciato e ora, in maglia Quick Step, vive una seconda parte di carriera che dà il giusto tributo al suo talento.
A Trento lui c'era a farsi in quattro per la Nazionale; quando è con la squadra di club l'atteggiamento non cambia: lo chiami e lui interpreta al meglio il suo compito.
Al Tour ha sfiorato la vittoria che oggi è arrivata. Ieri per Modolo erano tre anni e mezzo di digiuno, oggi per Cattaneo poco più di due. Ha vinto poco (tre volte) e proprio per questo ci pareva giusto omaggiarlo.
Foto: Bettini
Anche se ti chiami Valverde
Il finale di stagione di Alejandro Valverde non era quello che lui si immaginava, quello che i suoi tifosi sognavano, quello che i suoi colleghi pensavano - o temevano - vedendolo (in crescita di condizione) da vicino, alla Vuelta.
Poi una caduta, brutta, anzi, orrenda. In testa al gruppo a fare le linee giuste, ma di conserva, come gli sarà accaduto centinaia di migliaia di volte; la bici prende una buca, le mani perdono il controllo per un attimo, decisivo, del manubrio. Valverde va giù e, come ha raccontato pochi giorni fa sul sito ufficiale di Fizik: «La cosa che più mi ha colpito, dopo aver rivisto le immagini, è stato rendermi conto di quanto poco spazio fosse rimasto tra il punto in cui mi sono fermato e il burrone. L'incidente è stato molto peggio di quello che sembrava». Gli è andata male, sì, gli poteva persino andare peggio.
Il finale di stagione di Valverde era stato prestampato con caratteri diversi: senza quella caduta avrebbe continuato a tirare forte in Spagna, forse una vittoria (l'ultima l'ha conquistata al Delfinato e gli mancava da quasi due anni), l'avrebbe trovata; senza forse lo avremmo visto al via del mondiale nelle Fiandre, quelle Fiandre dove lui ha corso così poche volte che ci rimarrà un po' di amaro in bocca. Il percorso gli piace, ha detto, ma diplomaticamente sostiene come i suoi compagni siano più adatti di lui. La realtà è che cadere a 25 o a 30 anni è un conto, quando ti succede a 41 recuperare diventa più difficile, anche se ti chiami Valverde.
E quel Mondiale, strano dirlo, non vedrà Valverde per la sesta volta in vent'anni di carriera. Quel Mondiale che lo ha visto vincere nel 2018 e altre sei volte sul podio. E a quel Mondiale non ci sarà nemmeno Rojas che in quella caduta alla Vuelta lo ha soccorso. «Ho visto la sua bici - racconta Rojas, amico e compagno di squadra da una vita, dal 2006, di Valverde - e poi ho visto Alejandro che cercava di risalire tenendosi la spalla. “Fa male, molto male” mi ripeteva. La prima sensazione che ho provato è stato dolore per lui: perché prima di essere un grande corridore, Alejandro è un grande amico».
E lui, proprio perché si chiama Valverde, nonostante la caduta e la frattura, pochi giorni dopo era già in sella e lo rivedremo a breve. Niente Mondiale, sarà sulle strade italiane con poco allenamento però con l'obiettivo, difficile, ma mai scommettere contro gente come Valverde, di provare a vincere quella corsa che ancora gli manca: il Giro di Lombardia, che lo ha visto tre volte secondo. A Bergamo chiuderà la sua stagione, ma non la sua infinita carriera.
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