Il talento di Biniam Girmay Hailu
La vita di Biniam Girmay Hailu è così breve che di lui si conosce ancora così poco. Sappiamo che è nato nel 2000, in Eritrea, e che in quanto a talento sembra ne abbia in abbondanza. Di Ghirmai non sappiamo nemmeno con certezza come si scrive il suo nome: Ghirmai Binyam, Binyam Ghirmay, Biniam Girmai; con la ipsilon o con la i, con l’h o senza: lo abbiamo trovato scritto in diversi modi, ma quello che è certo è che in bici sa andare davvero forte.
Sappiamo per certo anche di quella volta in cui aveva compiuto diciotto anni da poche settimane e sconfisse Remco Evenepoel: è stato il primo segno del suo talento. Era una corsa in Belgio, restarono in due davanti e il ragazzo eritreo anticipò in una volata a due il ragazzo belga. Che forse quel giorno capì che per vincere sarebbe dovuto arrivare da solo, più o meno, sempre e comunque – mentre quanto possa fare la storia è un’altra storia.
Correva con la maglia del World Cycling Center di Aigle, Biniam, il centro di formazione dell’UCI che mette a disposizione degli atleti di nazioni considerate minori, strutture, allenatori, con la possibilità di misurarsi in Europa per provare a riscattarsi, a correre di fianco a corridori che dalla vita hanno avuto praticamente tutto, e poi un giorno diventare professionisti.
Oggi, invece, Biniam corre con una squadra francese, la DELKO One Provence, che lo ha messo sotto contratto fino al 2024 – nonostante le difficoltà legate alle sue origini. «Ci sono alcune squadre che hanno atleti africani, è vero – racconta a Cyclingnews.com Robbie Hunter, primo corridore sudafricano a vincere una tappa al tour e oggi procuratore di diversi corridori – ma quello che trovo folle è che se ho un ragazzo di diciannove anni come Biniam che va più forte dei suoi coetanei europei, lui non riesce a trovare un contratto, altri corridori invece sì. Quando vinse contro Evenepoel tra gli junior nessuno voleva saperne di lui».
Quel che si sa della sua vita, Biniam lo ha messo in fila in poche parole. Dice che arriva da una terra dove il ciclismo non è solo passione, ma roba di tutti i giorni, è cercare riscatto, e dice che i suoi genitori, tutta la sua famiglia, vivono il ciclismo come una religione. In Eritrea il ciclismo è vivo in effetti, e pulsa nelle arterie delle sue città: è persino un modo per combattere il traffico automobilistico.
Quasi ogni fine settimana, racconta un funzionario della federazione ciclistica eritrea, le strada di Asmara sono bloccate per un evento in bicicletta. «Se capita un week end dove non ci sono corse, la gente si stupisce: qui la bici non è solo segno di un’attività sportiva, fa parte della vita cittadina» sosteneva tempo fa. Sempre secondo Biniam Ghirmay, ogni anno in Eritrea ci sono circa un centinaio di corse in bici.
Il ciclismo in Eritrea arrivò ancora prima delle gare organizzate dagli italiani per le strade di Asmara negli anni ’30. La bici fu introdotta sempre dai nostri connazionali a fine ‘800, precisamente nel 1898 a Massaua: fondamentale fu il suo inserimento per lo scambio della corrispondenza. La federazione ciclistica esiste dal 1936, nel 1937 fu organizzata la prima corsa – nessun eritreo prese parte: non potevano nemmeno circolare per il centro cittadino, figuriamoci partecipare a una corsa. E oltretutto «La chiesa copta non vedeva di buon occhio tale mezzo chiamandolo addirittura “carro del diavolo” e quindi lo ostacolava» scrive Aman Abraha.
Nel 1939 c’è il dietrofront dal regime fascista: avrebbero potuto partecipare tutti a quelle corse, anche i colonizzati, per dimostrare quanto l’Italia fosse superiore a tutti. Anche in bicicletta. Vinse un certo Ghebremariam Ghebru: quella vittoria «infranse il mito dei coloni italiani sull’inferiorità eritrea» sostiene lo studioso Fikrejesus Amahazion. Nel giro di pochi anni la bicicletta diventa il mezzo prediletto dagli eritrei; nel 1946 nasce la prima grande corsa a tappe africana: il Giro dell’Eritrea e il ciclismo diventa sport nazionale tanto da avere un seguito maggiore di qualsiasi altro sport, pure ai giorni nostri.
In Eritrea la bicicletta si chiama proprio “bicicletta” nella lingua locale, il tigrino, e in giro è pieno di ciclofficine. Il governo ha promosso negli anni un lungo progetto sulla sostenibilità ambientale che ha previsto anche la distribuzione di biciclette importate dall’estero. La gente preferisce spostarsi in bici che in pullman o automobile. “Chi si affida ai mezzi pubblici deve sopportare lunghe attese prima di saltare su un autobus estremamente affollato. «Gli autobus sono così vecchi e così pochi», dice Salam, un laureato di 30 anni. «Avere una bicicletta salva la vita qui»” – riportava la BBC tempo fa.
Il fatto poi che la parte abitata della regione si estenda fino a quasi 2500 metri di altitudine e a temperature ideali non ha fatto che spingere maggiormente la pratica di questo sport e oltre a un fattore culturale diventa anche un fattore genetico: ad allenarsi a queste altitudini per forza di cose i talenti sarebbero emersi. Daniel Teklehaimanot e Merhawi Kudus sono stati i primi corridori di questo paese di quattro milioni di abitanti a disputare il Tour France: era il 2015. Mentre proprio Teklehaimanot è stato il primo africano a vestire la maglia a pois proprio in quell’edizione. Lo fece mica andando in fuga in montagna, ma mandando giù chilometri su chilometri nella prima settimana della corsa francese, racimolando un punto qui e uno lì su quelle piccole pendenze che costellano la mappa di ogni tradizionale inizio di Grande Boucle. In poche settimane la gente di Asmara e dintorni impazzì totalmente: si è raccontato di gente arrivata fino in Francia per seguirlo mentre su internet non si sono persi un minuto di corsa.
E così, in mezzo ad altri che già si muovono da diverse stagioni tra i professionisti, prima o poi un talento forte, ma davvero forte, doveva spuntare e quello sembra proprio Biniam Ghirmay. Biniam pochi giorni fa è stato premiato come “corridore africano del 2020”: è il quarto eritreo a vincere questo premio da quando è stato istituito nel 2012. Bernard Hinault dice che di lui ne sentiremo parlare come di un possibile grande corridore in futuro: «Ha già battuto Greipel allo sprint e cresce molto rapidamente». Biniam nel 2019 è stato il primo ragazzo nato nel 2000 a vincere una corsa tra i professionisti: prima ancora di un certo Remco Evenepoel, mentre nel 2020 si è messo in luce in gare in Francia e in Italia.
Una delle prime parole che ha imparato a dire in francese è anche la sua preferita ed è quella che forse meglio lo identifica: “Tranquillo” – lo ripete sempre. Quando lui si racconta dice che vorrebbe vincere la Parigi-Roubaix e il Tour de France. Va forte in salita e va forte allo sprint, ma soprattutto: «La cosa che fa paura di lui è che non sente la pressione, non ha paura di nulla. Deve solo vincere una gara dall’interesse mediatico e continuare a crescere» dice Philippe Le Gars giornalista dell’Equipe. Dall’Eritrea alla Francia in bicicletta, il talento di Biniam Ghirmai è un affare serio per un popolo intero, matto per quella che anche loro chiamano “la bicicletta”.
Foto: Tropicale Amissa Bongo
I fantasmi cartesiani di Miguel Ángel López
Miguel Ángel López è quello che è e che non è mai stato. Miguel Ángel López è essenza e metafisica, non è boria né vanità. È presenza costante, ma spesso deficitaria. Miguel Ángel López è uno degli scalatori più forti e che allo stesso tempo hanno dato più delusioni negli ultimi anni; un dato di fatto come i turbamenti di chi lo tifa o le parole sempre pronte a tagliare di chi lo critica. Tante volte, López è stato atteso, scalpitando, dietro a una curva, sul tratto più duro della salita, mentre dentro le orecchie si rimarcava l’urlo immaginario dei commentatori colombiani di RCN Radio. Quelli che nelle telecronache degli anni ’90 a volte si sentivano strepitare persino attraverso i microfoni degli inviati Rai.
López è quell’urlo. Una montagna russa di emozioni. È scalare pareti in bicicletta ricordandosi le sue origini da ragazzo montanaro. È pedalare all’aria rarefatta in punti della terra così alti che si sorpassano le nubi. Uno stretto telaio di metallo, acciaio o carbonio – dipende – e poi abituare muscoli già di loro segnati in maniera definita dal DNA e da quell’esercizio carnale, muscolare, fatto di ossigenazione che è il ciclismo.
López è dritto, ma pedala curvo, si fa attendere e lo attendiamo e lo abbiamo sempre atteso così tanto da ridurre il landismo a puro esercizio di stile narrativo. Landismo che suona bene, Lópezismo che è brutto anche solo da pensare.
LE ORIGINI ALL’ARIA RAREFATTA
Le origini di López vanno ricercate nel Dipartimento di Boyacá, nel paese di Pesca, un nome proprio così: fiabesco. E non è un caso, anzi fa sorridere, vederlo in diverse foto su Instagram intento a portare avanti il suo hobby preferito: la pesca, per l’appunto, alle trote perlopiù, delle quali va matto da sempre. Anche se in realtà “Pesca” in questo caso significa tutt’altro, deriva da un termine chibcha, la lingua che parlavano le popolazioni precolombiane, qualcosa come “chiuso ermeticamente”. López nasce a 2600 metri di altitudine – pare pure persino qualcosa in più. Un posto circondato dalle vette e così alto dove nemmeno le aquile oserebbero. Lui che del regno animale, come ogni colombiano in bicicletta, è uno stambecco.
Del dipartimento di Boyacà, sullo sfondo di questo tracconto, ne avete sentito parlare chissà quante volte e chissà quante volte ancora ne sentirete parlare. È terra di ciclisti. Un territorio non troppo vario, prevalentemente caratterizzato da montagna a tratti verde a tratti arida, e da valli scavate dal Rio Bogotà.
Le origini di Miguel Ángel López non sfuggono all’immaginario classico del ragazzo colombiano, piccolino, forte in bici, un viso pragmatico, un po’ sgrammaticato e leggermente rugoso; origini umili, lavoratore serio. Di quelli che tutti i giorni percorrono la strada per andare a scuola in bicicletta. Accade così anche con i corridori belgi: diventa ormai leggenda la storia di tale ragazzo che percorreva tale muro delle Fiandre o côte della Liegi per andare fino a scuola e che grazie a quell’esercizio costante, quotidiano, ha plasmato muscoli e volontà e la sua carne è diventata ferro.
Fino a quando lo sguardo, solitamente grossi occhi a palla da adolescente e che sembrano uscire dalle orbite, è riuscito a incrociare l’orizzonte che delinea il ciclismo dei professionisti.
Miguel Ángel López ha quegli occhi a palla, lo sguardo severo, furbo, deciso. Tutti i giorni percorreva la strada chiamata Pesca-Sogamoso per raggiungere la scuola Institucion Educativa Indalecio Vasquez di Pesca e lo faceva chiaramente in bicicletta. Attraversando strade, sentieri e un corso d’acqua, il Rio Pesca, circondato da quelle montagne verde chiaro che facevano da cornice al suo paesino. Strade strette e polverose di un grigio chiaro struggente, un noioso esercizio di su e giù in mezzo a campi e fattorie delimitate da pali e filo spinato e zeppe di felici vacche normanne stese al sole. Case di mattoni e fichi d’india, contadini con il sombrero vueltiao sulla testa nei giorni di festa.
Andava bene a scuola, raccontava suo padre anni fa, ed è uno dei motivi per i quali nel 2011 gli regalarono la sua prima bici. «Prima ne usava una mezza scassata appartenente ai fratelli, gliene regalammo una più nuova pagata poco più di un milione di pesos». Ma in realtà Santiago López e Marlene Moreno non volevano che il loro Miguel Ángel diventasse un ciclista. Troppi sacrifici, poco in cambio. Tanto allenamento, troppe lacrime versate per sbucciature e cadute. C’è una fattoria a cui badare, ci sono i campi su cui lavorare e se questo figlio, quarto di sette fratelli, non fosse mai diventato un ciclista professionista? E poi sempre quelle ferite. Tutte quelle volte che questo bambino – che sembra più piccolo di quello che poi in realtà è – tornava a casa malconcio, una volta col polso fratturato: immaginatevi, a proposito di occhi, quelli di un genitore a vedere certe scene. Poi sono subentrati i problemi al ginocchio sempre a causa di una caduta che gli aveva messo fuori uso i legamenti, era il 2013 e López, giovanissimo, nato nel 1994, era già lanciato per diventare qualcuno. E invece arrivò a tanto così dallo smettere.
SUPERUOMO O CAVALLINO?
Iniziamo a chiederci qual è il suo vero nome. Quello che faceva il giro tra gli scout di diverse squadre importanti a livello mondiale, non più locale, anche se per la verità lo si attendeva alle prime corse europee per capire meglio con cosa si aveva a che fare.
Una gemma da intagliare: aveva iniziato a correre da pochissimo e questa sua scarsa esperienza e fiducia nel mezzo si rifletterà poi nel mondo del professionismo nella scarsa abilità di guida e in reazioni umane, troppo umane ma non adatte agli occhi del sistema. Come quella volta in cui – nemmeno troppo tempo fa, è il Giro del 2019 – un tifoso lo fa cadere e lui, divorato dall’adrenalina ed esageratamente coinvolto dal momento, lo prende a schiaffi. Gesto non giustificabile, ma comprensibile in realtà. Si attendeva questo ragazzo che ancora doveva divincolarsi tra gli spettri che attendono anch’essi, come aquile in cima alle Ande, quei corridori che arrivano annunciati da sirene spiegate. Pronti a gettarsi veraci sulle carcasse, magari muniti di penna e taccuino e bava alla bocca. Pronti a distruggere carriere, in attesa del prossimo da divorare.
Il suo nome circolava, il suo nome che da un certo punto in avanti non è stato più soltanto Miguel Ángel López, ma è diventato Superman. Era il 2011, aveva da poco iniziato a correre in bicicletta e lo faceva agli ordini di Rafael Acevedo che, come vedremo, sarà una delle figure più importanti non solo della sua carriera, ma anche della sua vita privata.
Si stava allontanando proprio da casa di “Don Rafael” come lo chiamano con orgoglio e una punta di reverenza i genitori di López. Era in sella alla mountain bike che gli aveva regalato il padre. Incrociò due ladri che lo aggredirono accoltellandolo a una gamba, una-due volte, ma – almeno così leggenda vuole – Miguel Ángel López si divincolò riuscendo a strappare di mano il coltello agli avventori e facendoli fuggire.
Piccolo sì, ma con una forza d’animo che gli permetteva di fare tutto: persino di mettere in fuga ladri affamati e agguerriti e di salire in bici pochi giorni dopo, e vincere. Lui, affamato e cos’ agguerrito. Da lì il nome di Superman; ma se tutti lo conosciamo così, c’è qualcuno che lo chiama diversamente. “Ciavalìn” è il soprannome che gli affibbia Oscar Pellicioli.
IL SOL DELL’AVVENIRE
Miguel Ángel López è pronto. Un salto temporale narrativo che giustifica il passaggio dal 2011 al 2014. Per noi balzo temporale, per lui sono gli anni vissuti intensamente in quanto quelli della formazione, dei duri allenamenti agli ordini di Rafael Acevedo, ex corridore professionista che diventerà suo suocero: López sposerà sua figlia e sarà uno dei “segreti” della sua carriera. «Essere sposato con la figlia di un corridore è un passo fondamentale per la sua crescita. Perché vuol dire avere una persona vicina e abituata a vivere nel ciclismo e che ti sa dare tranquillità» ci racconta Giuseppe Martinelli per sei anni direttore sportivo di López all’Astana. «López è quello che vedete, un ragazzo tranquillo, fatto per il ciclismo, senza grilli per la testa» – nonostante da fuori le cose possano sembrare differenti.
Quando lo vedi perdersi tra alti e bassi, quando quei fantasmi vengono partoriti dalla sua testa. Perché López rappresenta quella categoria di corridori che li aspetti, aspetti, aspetti e poi *puf* si diradano in una nuvoletta di speranze svanite. «Perché ci sono corridori che quando arrivano a un valore che poniamo e definiamo con un numero: 100, riescono a dare qualcosa in più. Quelli sono i campioni assoluti. López è un gran corridore, un campioncino, ma gli mancherà sempre qualcosa per fare quell’ultimo passetto in avanti», ci rivela nuovamente Martinelli.
Ma torniamo alla sua di rivelazione. Al 2014, quando López ha appena vent’anni e conquista la Vuelta de la Juventud (il Giro di Colombia Under 23): un lasciapassare che gli schiude le porte dell’Europa, prima con un viaggio in Europa con la sua nazionale, poi con il contratto con la squadra di Vinokourov.
Al Tour de l’Avenir, Miguel Ángel López è guidato, in seno alla nazionale colombiana, da un team di tecnici italiani agli ordini di Carlos Mario Jaramillo e tra i quali spicca Oscar Pellicioli, quello che, quando lo incontra lo chiama “ Ciavalìn”. «Così lui si volta e sa che sono io: non c’è nessun altro che lo chiama in questa maniera. Perché Ciavalìn? Perché mi ricorda un cavallino. Perché fisicamente è un po’ come ero io e per questo motivo mi sono affezionato a lui. Piccolo, forte in salita. Certo, io andavo bene in salita, ma mai forte come va lui» sono le parole di Pellicioli scalatore, protagonista tra i professionisti a metà degli anni ’90, uno capace di chiudere al sedicesimo posto il leggendario mondiale disputato proprio in Colombia a Duitama e raggiunto telefonicamente per farci raccontare il Tour de l’Avenir del 2014.
E a quel Tour dei giovani il fuoco divampa dentro López. «Lo dovevamo tenere a freno. Perché lui è così. Umile, ma istintivo».
Per prendere confidenza con le corse europee, un mondo distante da quello a cui López era abituato nella sua Colombia, López, prima dell’Avenir disputa alcune corse del calendario italiano. A Capodarco rimedia un ritiro. «Il ritmo nelle corse europee è spaventoso. Totalmente differente», ricorda López del suo primo approccio all’Europa. Nei giorni successivi Pellicioli si occupa proprio della ricognizione in Francia pronto a lanciare il giovane colombiano in quelle ultime tre tappe di montagna che lo consacreranno in vetta al Tour dei giovani. «L’ultimo giorno è stato davvero duro» ricorda ancora oggi l’ex corridore bergamasco. «Dovevamo difendere la maglia gialla di López, ma avevamo in gruppo un solo compagno di squadra: Brayan Ramirez. Vervaeke (che vinse quella tappa verso La Toussiere e chiuse quinto in classifica generale, classifica che tra l’altro vide Geoghegan Hart al decimo posto N.d.A.) andò via sulla salita precedente a quella finale e López, agitato, fremeva».
Non c’erano radioline e quando prepari una corsa nella riunione del mattino spesso i piani si ribaltano. «Con l’ammiraglia abbiamo affiancato il gruppo. Abbiamo cercato di tranquillizzarlo perché lui voleva partire subito per inseguire il belga. A un certo punto, a circa dieci chilometri dall’arrivo, il vantaggio dei battistrada diminuiva e López partì riguadagnando il tempo necessario per vincere la classifica finale di quella corsa».
E a casa come reagirono? Beh a casa non riuscivamo ad avere notizie immediate: niente immagini in Colombia. In quei giorni non riuscirono nemmeno a comunicare con lui per telefono, racconta L’Espectador, e tutto ciò che scoprirono lo scoprirono grazie alle notizie recuperate su internet dai fratelli di Miguel Ángel. E l’attesa per la sua partenza era enorme: «Ci riunimmo nella nostra fattoria a Pesca il giorno prima della partenza cucinando per lui “pollo sudado (piatto tipico colombiano), verdure e spremuta di frutta». Così come importante è il richiamo di quei successi. Appena Miguel Ángel López tornò dall’Europa viene decorato con il titolo di Ufficiale dell’ordine della libertà da parte del governatore di Boyacá.
PROFESSIONISTA
A qualsiasi persona, addetto ai lavori, tecnico, domandi: «ma che tipo è Miguel Ángel López?» la risposta è unanime: «Un bravissimo ragazzo. Umile, simpatico, un perfetto compagno di squadra». Quando arrivò all’Astana sembrava poco più di un adolescente: con quelle fossette e il sorriso sempre in tiro. «Nonostante quei risultati al Tour de l’Avenir pensavamo di tenerlo monitorato un’altra stagione, ma su di lui si scatenò l’interesse di altre squadre e così decidemmo di farlo firmare». Il talento c’era ma Martinelli si sorprese «Quando arrivò era una bambino che arrivava da una realtà totalmente differente, ma si integrò subito in una squadra con diversi campioni come Nibali, Scarponi, Aru. Veniva da un infortunio al ginocchio che lo tormentava eppure i risultati arrivarono subito». Anche se pure lui si portava dietro il fardello di tutti quei ragazzi provenienti dalla Colombia. La nostalgia di casa è sempre stato il suo punto debole, anche se magari lo ha sempre sofferto meno degli altri grazie alla vicinanza della moglie e agli anni vissuti in Spagna a casa di Vicente Belda, ex corridore e suo primo procuratore. «Quando ci si radunava a inizio stagione chiedeva sempre: ma quando posso tornare a casa? Quanti giorni devo stare qui? Ed è un po’ la storia di tutti i colombiani questa: sono molto legati alla loro terra e quando devono stare qui in Europa soffrono di nostalgia. Non sono come i nordici o soprattutto i russi che vengono in Italia e si stabiliscono. Loro hanno nel cuore la loro terra e strappare le radici dalla loro Colombia è impossibile. Una cosa, però», puntualizza Martinelli, «A differenza di altri corridori non si è mai presentato in sovrappeso, nonostante quando quei ragazzi tornano nel loro paese è facile mollino un po’».
A fare un elenco statistico di quello che López ha ottenuto in questi anni di professionismo si finirebbe per intaccare il senso o persino rovinare il ritmo di questa storia.
Vittorie parziali e podi nei grandi giri arrivano con la stessa facilità con la quale ne riuscirà a buttare via altrettanti. Su otto Grandi Giri disputati a parte due ritiri, sei volte su sei finisce nei primi otto in classifica generale con due terzi posti uno al Giro e uno alla Vuelta. Cade spesso, forse troppo, anzi senza il forse. Non solo non è un drago a guidare la bicicletta, ma la sensazione è che se esistesse una magia sovrannaturale lui ne sarebbe vittima.
Capitomboli, ruzzoloni, in maglia di leader oppure semplicemente a inseguire un sogno scappando da quegli spettri che si pongono davanti alla vita di ognuno. In fuga un po’ per paura, un po’ per vocazione visto che, appena la strada si impenna, sono pochi a potergli stare dietro o a poter rispondere a quelle infide rasoiate.
L’ultima caduta in ordine di tempo arriva al Giro 2020 nella prima tappa. Prende una buca, perde il controllo della bici da cronometro e si schianta contro le transenne. Di nuovo a chiacchierare in corsa con quei fantasmi – reali o irreali sempre fantasmi sono.
Qualche settimana prima al Tour aveva vinto la tappa più bella e spettacolare dell’edizione 2020 nello scenario del Col de la Loze, staccando Roglič e Pogačar. Poi sul più bello, quando è in lotta per il podio, il penultimo giorno a cronometro è di nuovo il López che soffre e che lotta contro quella sensazione che più che sensazione è un dato certo: è un ottimo corridore, ma forse non sarà mai un campione.
Il 2021, quando cambierà maglia e vestirà quella della Movistar, ci dirà davvero chi è Miguel Ángel López e capiremo, o forse lo capirà lui prima di tutti, se finalmente sarà riuscito a liberarsi dai suoi fantasmi.
Foto in evidenza: A.S.O./Angel Gomez ©PHOTOGOMEZSPORT2019
Un ragazzo buono per tutte le stagioni: Jakob Dorigoni
Il colmo per un ragazzo altoatesino che corre in bici e va forte nel ciclocross è non amare il freddo. «Più che non amare il freddo, vado più forte col caldo, ecco», ci racconta con disarmante semplicità e franchezza Jakob Dorigoni, ventiduenne di Vadena in provincia di Bolzano, un paesino con così pochi abitanti che probabilmente tutti si conoscono e tutti tifano per lui.
Proprio da quelle parti, a Nalles, si è corsa nei giorni scorsi una gara che ha avuto un’eco importante per come è riuscita a trasmettere quello che è il ciclocross, immagini di corridori che si davano battaglia in un campo ghiacciato, con la neve che gelava mani e piedi e il fango fin dentro le orecchie. Sofferenza, atroce realtà di uno sport crudo che mette a nudo e sposta i limiti. «Freddo, freddo, freddo, ricordo solo questo. Pozzanghere gelate e a ogni pedalata piedi inzuppati e sempre più freddi. A due giri ho mollato e sono salito nel camper. Ci ho messo ore per riscaldarmi: è stato bruttissimo. È una giornata che voglio dimenticare».
Ha iniziato a gareggiare presto, prestissimo. Aveva sette anni e ha provato ogni disciplina come fosse nato con due ruote al posto delle gambe e con in testa gli ingranaggi giusti, tanto da aver ancora memoria di quell’episodio ormai risalente a 15 anni fa. «Era un giovedì, eravamo usciti per un lungo. Poi c’è stata una gincana e da lì è iniziato tutto». E quando Jakob Dorigoni dice tutto, intende proprio tutto, tutto. «Ho praticato ciclismo su strada, prima, e poi mountain bike, ma da esordiente pure un po’ di pista. Il ciclocross invece è stata l’ultima specialità». L’ultima, ma non per questo la peggiore, direbbero gli inglesi, anzi. “Although the last, not least” spiegava il Re Lear parlando con la figlia Cordelia e definendola “l’ultima, ma non meno cara”. Tutt’altro; nel suo caro ciclocross Jakob Dorigoni ha assunto una dimensione a livello nazionale – sette titoli italiani conquistati in tutte le categorie, tre tra gli under 23 e uno tra gli élite di cui è campione in carica – ma anche internazionale. Quinto nel 2019 nel mondiale di Bogense tra gli Under 23 quando Iserbyt vinse davanti a Pidcock. «Il ciclocross mi piace perché le gare sono sempre varie, diverse, da una domenica all’altra quando magari ti ritrovi una volta a gareggiare nell’asciutto e al caldo, una volta al freddo nel fango, ma non c’è una specialità tra le due ruote che preferisco rispetto a un’altra. Da ognuna di loro prendo qualcosa. La mountain bike è la più dura, d’inverno mi diverto nel ciclocross: sforzi brevi e intensi, d’estate mi piace la strada». Gli piace fare “giri lunghi” precisa.
Nel 2021 ci sarà un cambio di prospettiva. Un’occasione presa al volo da Dorigoni che tornerà a correre proprio in mountain bike dopo qualche stagione, accettando la proposta del team Torpado Südtirol. «Ma no, non penso assolutamente a Tokyo» umile e sincero nel rispondere se per caso la sua scelta fosse dettata dalla possibilità di gareggiare ai Giochi Olimpici. «Intanto riprendiamo a divertirci con le ruote grasse, poi si vedrà. In Italia ci sono tanti atleti forti e meritevoli della maglia azzurra e io al momento non ci penso».
Se invece pensa agli anni di ciclismo su strada Dorigoni più che rammaricarsi ha una punta di amarezza per come è finito l’ultimo Giro Under 23, quello vinto da un altro corridore che dà spettacolo nel ciclocross, come Pidcock. «Stavo facendo una buona classifica generale, ma l’ultimo giorno sono caduto e mi sono dovuto ritirare. Però sono stati anni importanti, ho vinto delle corse, ma soprattutto il mio motore e la gestione delle corse è migliorata grazie all’esperienza maturata e grazie alla possibilità che ho avuto nel correre tre volte il Giro Under 23, una volta il Val D’Aosta e una volta la Ronde de l’Isard».
E a proposito di motore, a quei due lì, dinamitardi, – van Aert e van der Poel – ruberebbe la capacità di fare sforzi intensi per un breve lasso di tempo. «Loro due e Alaphilippe hanno questo che li differenzia da tutti gli altri. Forza esplosiva. Tengono l’ora di corsa molto bene perché sono resistenti, ma anche su strada i risultati arrivano grazie alla loro esplosività e resistenza nei periodi brevi». In cinque minuti di corsa ti mandano in tilt.
Per Jakob Dorigoni, van Aert è un maestro nel preparare le corse più importanti, mentre van der Poel «va forte sempre», raccontando quasi divertito, ma è cosciente che nel Ciclocross vince anche chi sbaglia meno. Giro dopo giro, traiettoria dopo traiettoria è fondamentale saper guidare, saper gestire le proprie forze. Che sia caldo, che sia freddo, estate, autunno o inverno a Jakob tuttavia basta pedalare. Nato non per la bici, ma praticamente in bici.
Foto: Per gentile concessione di Jakob Dorigoni
Ciclismo è letteratura: la Biblioteca del Ciclista
La forza “mediatica” – diremmo oggi – di uno sport come il ciclismo è sempre stata quella di poter creare attorno a sé una sorta di attrattiva letteraria. Epica, pathos (niente etica, né etnica: non stiamo scomodando i CCCP) ingredienti che messi assieme sono la ricetta di uno sport che sembra, sin dai suoi pionieri, perfettamente adatto a raccontare e celebrare i protagonisti e le loro imprese. Retorica? A bizzeffe. D’altronde, quando si parla di fatica, di muscoli, di sforzi, di imprese, di salita e di discesa, di ossa rotte e tenute su non si sa come, di tragedie, di paesaggi, di corse sotto la pioggia e sotto la neve, con il sole, sull’asfalto che si scolla e si incolla, e di quelle che noi più volte tendiamo a definirle “immagini indelebili” il rischio c’è sempre, che poi è un rischio azzardato ma calcolato visto che tutto ciò poi resta impresso su libri e riviste che vengono lette e tramandate fino ad accrescere il nostro bagaglio culturale. E partendo da libri e riviste, dalla forza della letteratura, dalla passione per quello che è stato il ciclismo dei pionieri, che nasce l’idea di Vittorio Landucci: un paio di anni fa ha deciso di fondare la Biblioteca del Ciclista.
Che tempi i nostri! Verrebbe da dire: in un altro momento storico quella che segue sarebbe stata l’intervista perfetta da fare sul campo e non al telefono, osservando una collezione di oltre settecento libri, foto e illustrazioni, riviste, anche solo perdersi dentro l’odore di carta che ti avvolge quando entri in uno spazio del genere. Vedere scaffali su scaffali pieni, panche e tavoli fitti; sfogliare, prendere appunti, sprofondare nella storia del ciclismo e delle sue immagini in bianco e nero. Ma questi sono tempi bislacchi, o forse sarebbe meglio dire “bischeri” se volessimo prendere in prestito un termine caro alla verace dialettica toscana, la terra da dove arriva il protagonista di questa storia.
Un pizzico di follia va mischiata alla passione: si pedala sì, ma soprattutto si mette assieme una serie di libri che a Castiglion Fiorentino, in provincia di Arezzo, vanno a comporre la sua biblioteca. «Pedalare ho sempre pedalato: sin da quando sono bambino. Oggi ho 46 anni e gli ultimi otto li ho passati praticando podismo. Ma il ciclismo da sempre scorre nelle mie vene, soprattutto quello scritto e raccontato: partendo dalle prime riviste comprate quasi quarant’anni fa, fino ai libri», si presenta così, Vittorio Landucci.
La Biblioteca del ciclista nasce, come molte vicende che poi assumono un carattere determinante, un po’ per caso, un po’ per gioco, in mezzo a una chiacchierata con uno sfondo di bici, telai, maglie d’epoca. «Un paio di anni fa ero alla presentazione della Ciclostorica organizzata da Gibo Simoni: la Gibostorica. Dopo le prime edizioni che si sono svolte nel suo paese in Trentino, Simoni diede il compito di farla organizzare a dei ragazzi di Arezzo. Io ero a quella presentazione e un certo punto parlando con i presenti spiegai: “A casa ho circa un centinaio di libri sul ciclismo: come vi può sembrare l’idea di allestire una stanza con questi libri?”. L’idea fu accolta subito e nel giro di poco tempo da cento libri circa che c’erano, oggi ce ne sono più di settecento. Tutti, o quasi, comprati di tasca mia a parte qualche donazione di autori o case editrici».
L’idea si tramuta in concretezza, prende corpo, piace, diventa unica e conosciuta all’interno della nicchia che si muove nel mondo del ciclismo. Letteratura, collezionismo, rarità, luogo di aggregazione. «Sono riuscito ad avere una stanza a Castiglion Fiorentino, provincia di Arezzo, il paese dove vivo, e la Biblioteca è diventata da subito un luogo di incontro, di scambio, di conoscenza tra persone. Magari su dieci che entrano solo uno sfoglia un libro, ma non è questo quello che conta. Ciò che conta sono le idee, il continuo divenire di quello che è la Biblioteca del Ciclista. Ciò che contano sono le persone che ho conosciuto e che mi permettono di portare avanti questo progetto».
Come Giancarlo Brocci «A lui devo molto. Mi ha invitato all’Eroica e sono stato dal giovedì alla domenica sulla terrazza delle Cantine Ricasoli dove passavano tutti quelli che andavano a ritirare il pacco gara. Per cui ho avuto modo di fermarmi a parlare e di conoscere tante persone: da lì ho capito che sarei dovuto andare avanti» oppure Carlo Delfino. «È il numero uno in Italia quando si parla di storia del ciclismo. Oltre ad aver scritto tanti libri ha una conoscenza profonda della materia. Quando gli dico che sto leggendo un determinato libro lui mi dice “Fai caso che in quella pagina c’è questo errore” e così via. Grazie a lui ho iniziato a darmi un’inquadratura molto critica su quello che gira e che si legge. Perché tante volte si dà per oro colato quello che troviamo scritto nei libri e poi spesso scopriamo che sono pieni di errori: bisogna fare tanta ricerca per capire dove sta la verità. Quando uno scrive in maniera poetica come Gregori o Pastonesi, allora va bene, ma quando uno scrive date e statistiche e i numeri sono errati allora è tutto profondamente sbagliato. E difatti se potessi tornare indietro ci sono tanti libri che non comprerei perché pieni di errori».
Non si può stare fermi se si ha in mano un’idea del genere, un gioiello che esprime letteratura e ciclismo: il massimo per un appassionato, per chi corre e anche per chi scrive. «La mia è una ricerca costante: all’inizio compravo nelle librerie, in posti come il “Libraccio”, però prendevo di tutto. Ora sto diventando selettivo: meno libri, ma ricercati e magari più costosi. Sono partito con la mia piccola collezione di libri, poi ho avuto modo di allargare i miei orizzonti: inizialmente grazie alla donazione di diversi numeri de “Lo Sport Illustrato” che mi ha fatto un signore di Bologna. E questo mi ha portato a capire una cosa fondamentale per la ricerca storica, statistica e di archivio: le riviste hanno un’importanza fondamentale in quanto è tutto materiale preciso, perché fresco, perché scritto magari al massimo nel giro di una settimana dall’evento e quindi risultava difficile portarsi dietro un errore».
All’interno della Biblioteca del Ciclista – che specifica, Vittorio, ora apre solo su richiesta e su appuntamento – si possono trovare oltre a libri e riviste una piccola collezione di DVD e VHS, ma i confini si fermano qui per strategia. «Niente gadget, oggettistica, né cimeli, magliette o borracce per diversi motivi. Economici e di spazio: mi verrebbe a costare troppo. Ma anche per una scelta che mira alla differenziazione. Di posti come il mio in Italia ce n’è solo un altro, mentre musei con enormi collezioni di bici e magliette ne trovi tantissimi: c’è persino un libro di Beppe Conti che racconta di tutti i musei della bicicletta sparsi in Italia».
Ma l’attività di Vittorio Landucci non si ferma qui: toscanaccio vulcanico pieno di idee e di voglia di sperimentare e di raccontare il ciclismo di una volta. «Come Biblioteca del Ciclista collaboro con la rivista “Biciclette d’Epoca”, ma ho organizzato anche la presentazione di libri e quest’anno, nonostante tutti i problemi noti, sono riuscito a far partire la “Festa della Bicicletta”: una due giorni organizzata con dentro numerosi eventi. La presentazione del libro di Brocci, la “gara di lentezza”: una gara dimenticata che si faceva tra fine ottocento e primi del novecento e pure una giornata ecologica dove siamo andati a pulire le strade. Una gincana per i bambini, una cronoscalata virtuale su un segmento in salita molto noto ai cicloamatori locali». Perché è importante per lui il legame e la riscoperta del territorio e mantenere viva la memoria. «È fondamentale capire l’importanza del ciclismo locale e allora assieme a un’altra persona abbiamo ideato anche due mostre: la prima sulle squadre professionistiche che ha avuto la provincia di Arezzo. Una piccola mostra che le presentava tutte, e poi una sui ciclisti nati nella provincia di Arezzo che sono ben quarantadue. Da Bennati a Nocentini e Capecchi, passando per Mealli e Chioccioli. Uno degli obiettivi che mi prefiguro è quindi recuperare la storia del territorio, nel tentativo di non perdere il valore di tutte queste storie».
Nell’incipit di questa intervista siamo partiti da parole come retorica, impresa, ciclismo dei pionieri, follia e passione e prima di chiudere, sentendo sulle nostre mani il freddo che ci attanaglia battendo compulsivamente le dita sulla tastiera, oppure pensando alla neve che mai come nei giorni scorsi scendeva copiosa fino in pianura, come fossimo immersi in una realtà d’altri tempi, chiediamo a Landucci qualche curiosità attorno alle grandi corse disputate sotto la neve – anche in ricordo di Aldo Moser, recentemente scomparso e protagonista di una delle più indimenticabili tappe del Giro d’Italia, nel 1956 sotto la neve che aveva sommerso il Bondone e soprattutto i corridori.
«Le grandi corse con la neve sono sempre state o al Giro o alla Sanremo per ovvi motivi “stagionali”, salvo rare eccezioni. La prima grande corsa con la neve è stata la Milano-Sanremo del 1910 vinta da Cristophe. Arrivarono in quattro: il secondo a un’ora, il quarto a oltre due ore. Fu epica e appartiene al ciclismo dei pionieri. Che è quello a cui sono maggiormente legato e che mi affascina di più. Ora ci sono tutte queste regole, giuste o sbagliate non lo so, con questo protocollo che prevede come, con determinate condizioni, la gara viene fermata. Sotto un tot di gradi ci si ferma; se nevica ci si ferma. Per una fetta di storia di questo sport non è mai stato così: l’epica del ciclismo esiste grazie a imprese come queste. Ora si è un po’ appiattito tutto: ci si basa sui watt, si studiano le cartine, si è persa la poesia: si è andati da un opposto all’altro. Nel Giro del 1911, quando si affrontò il Sestriere per la prima volta, in cima passò Ezio Corlaita e la tappa la vinse Petit-Breton. Si partiva alle 5 del mattino e Gerbi prima del via disse all’organizzatore: “Dobbiamo andare lassù? Fa già freddo qui”. “Certo”, gli rispose quello, “Siete uomini o signorine?”. La leggenda racconta che poi Gerbi all’arrivo tirò una borraccia addosso a uno degli organizzatori, ma d’altra parte Gerbi era il Diavolo Rosso mica per caso: era uno parecchio fumantino. Poi tra le più celebri corse sotto la neve c’è stata la Liegi di Hinault del 1980, il Fiandre di Zandegù nel ’67 quando beffò Merckx. Il Giro del 1968 con le Tre Cime, il Gavia di Hampsten nell’88, ma il Bondone del ’56 resta l’episodio più epico della storia del ciclismo».
Foto: per gentile concessione di Vittorio Landucci
Adrien Niyonshuti non dimentica
Di primo acchito, a tutti noi agiati sportofili, il 1994 ci fa venire in mente il mondiale americano di calcio, il culo-di-Sacchi, Pagliuca che bacia come a benedire il palo che lo ha salvato da un gol certo (e da una clamorosa papera) oppure le imprecazioni per i rigori di Baggio e Baresi. È un anno tragico (Senna), ma anche così clamorosamente evocativo ed ispirante (Pantani): ricordi che ancora oggi fanno male in modi del tutto differenti.
Il 1994, però, è anche l’anno del genocidio del Ruanda. Da aprile a luglio del 1994 circa ottocentomila persone vengono uccise, è una stima che, più che ufficiale, diventa un numero simbolo: in realtà potrebbero essere state molte di più. Persone uccise, massacrate, sterminate in nome di non si sa che cosa e anche a cercarne una spiegazione valida sembrerebbe di mentire o di fare qualche torto; sarebbe del tutto inutile, anche se il potere della parola è importante così come è importante non dimenticare. «Sebbene la guerra civile fosse il suo sfondo, in realtà non fu altro che un massacro di persone», riporta il The Guardian in un lungo reportage apparso ormai sedici anni fa in rete.
Kibuye fu teatro di uno dei peggiori episodi: ventuno mila persone tra Tutsi e “Hutu moderati” trucidate in pochi giorni dalla maggioranza Hutu. Una parte in una chiesa o nei suoi dintorni dove stavano cercando rifugio: furono braccati usando il fumo di copertoni bruciati e una volta dispersi fuori da quel luogo sacro furono uccisi a colpi di lancia, bastoni e machete. Un’altra parte perse la vita dentro uno stadio dove era stata portata con l’inganno dal governatore Clement Kayishema, dottore ed ex direttore dell’ospedale di Kibuye. Chi è sopravvissuto a quei giorni, sia da una parte che dall’altra, non ha mai potuto dimenticare.
L’odore dei corpi putrefatti divenne caratteristico in certe zone del paese e non lo ha dimenticato certamente chi ha cercato di salvarsi nascondendosi sotto una montagna di cadaveri e osservando moglie e figli fatti a pezzi col machete, o chi vedeva ragazzi che, fino a poco tempo prima, avevano le sembianze dei propri vicini di casa e d’un tratto si aggiravano con maschere o volti dipinti, brandendo bastoni e fucili e cantando:
“Cacciamoli nelle foreste, nei laghi e sulle colline. Staniamoli nelle chiese. Puliamoli dalla faccia della terra”.
Negli anni una larga parte dei colpevoli di quel massacro sono stati rilasciati e si racconta come girino per le città in numero superiore ai sopravvissuti. “Sopravvissuti”: orfani, malati di AIDS, affetti da disturbi post traumatici, tutti vivono nella paura per quello che è successo e le testimonianze si sprecano: Savera Mukarashango si è gettata nel lago per il dolore ed è morta annegata dopo aver incrociato per strada l’uomo che dieci anni prima aveva ucciso suo padre.
Non ha mai dimenticato Adrien Nyonshuti. Mai dimenticherà e quei mal di testa che ogni tanto fanno capolino sono testimoni. Adrien nasce in Ruanda nel 1987 e all’epoca di quei tragici eventi ne aveva poco più di sette. I suoi sei fratelli sono morti, lui e i genitori invece no. Senza avere nulla da bere e da mangiare per giorni, Adrien, sua madre e suo padre sono scampati scappando tra i boschi, tra i laghi, tra le colline di quel piccolo stato africano senza alcuno sbocco sul mare e schiacciato in mezzo a Tanzania, Uganda, Burundi e Congo.
Quando lo intervistano lui cerca di non parlarne, ma inevitabilmente il discorso cade sull’argomento, queste le sue parole sempre riportate dal The Guardian. «Ti venivano a prelevare in casa: davano fuoco a tutto e ti facevano a pezzi. Noi siamo riusciti a scappare, i mie i fratelli no, nemmeno gran parte della mia famiglia. Ho perso circa sessanta persone in quei giorni, della maggior parte di loro non abbiamo mai più avuto notizie».
Per tentare di salvarsi, per cercare di non andare a pezzi, Adrien Nyionshuti si è rifugiato nel ciclismo. Ha iniziato a pedalare con una bici vecchia appartenente a uno zio dopo aver visto le tre tappe che caratterizzavano il Giro del Ruanda del 2001. Tre anni dopo corse quel Giro, aveva solo sedici anni, ma nessuna regola gli impedì di partecipare e lui chiuse al settimo posto assoluto. Nel 2006 partecipa una gara di Mountain Bike organizzata da Jack Boyer – primo ciclista americano della storia ad aver disputato il Tour de France poi condannato per reati di molestie sessuali – con il contributo di Tom Ritchey leggenda della mountain bike statunitense che aveva lanciato proprio in Ruanda un progetto mirato a produrre biciclette per i coltivatori di caffè. Dovete sapere come, fino a quel momento, i contadini ruandesi trasportassero i loro prodotti a piedi oppure con bici di legno con ruote di legno, senza freni né sellino, né alcun tipo di ingranaggio. Il progetto, denominato Coffee Bike e portato avanti da Ritchey insieme ad alcune aziende americane, cercava in qualche maniera di aiutare la catena di trasporto di quei chicchi che servono poi ad allietare il mondo occidentale, il paradosso della società contemporanea in uno Stato che fa della coltivazione del caffè e del tè uno dei cardini della propria economia.
Ma l’obiettivo di Ritchey e Boyer era anche quello di creare un movimento ciclistico. Fondano nel 2006 il Team Ruanda e organizzano allenamenti, corse, addestramenti per i ragazzi del paese. Adrien realizza il sogno di «correre in Europa con i professionisti» e prenderà parte con la sua nazionale ai Giochi Olimpici del 2012 a Londra nella prova di mountain bike e nel 2016 a Rio in quella su strada. Sarà entrambe le volte il portabandiera di quella piccola nazione che non ha mai dimenticato. «Ad aprile, quando sono in bicicletta, a volte mi viene il mal di testa perché ricordo molte cose che riguardano la mia famiglia e il genocidio» – sono le poche parole spiccicate all’interno di un documentario dal titolo Rising From The Ashes, narrato, nella versione originale, dalla voce di Forest Whitaker, il detective Kavanaugh di The Shield o il Ghost Dog dell’omonimo film diretto da Jim Jarmusch, per intenderci, e che racconta come la bicicletta sia diventata uno strumento di riscatto per un’intera nazione.
Rising from the Ashes parla della nascita del Team Ruanda del quale Boyer e Ritchley ne sono parte attiva e grazie al quale decine di ragazzi ruandesi sognano un futuro migliore. Un piccolo stipendio, la possibilità di aiutare famiglie africane con il ciclismo, portare scolarizzazione ed educazione insegnando l’inglese e dando sbocchi professionali. Grazie al Team Ruanda, nel 2009 Adrien inizia a correre nel mondo del professionismo e lo farò per quasi dieci anni. Si misurerà in Europa e arriverà a correre a tempo pieno anche nel World Tour con il Team Dimension Data (quello che oggi è diventato Qhubeka Assos ed è sopravvissuto a malapena poche settimane fa) disputando alcune tra le corse più importanti del calendario.
Oggi Adrien Niyonshuti è rimasto nel ciclismo e continua ad alimentare sogni che sono suoi e che appartengono ad altri. Sono sogni per una generazione che è nata dopo quel massacro ma che ne porta dentro, per forza di cose, le cicatrici. Non corre più in bicicletta, ma è parte attiva nel cercare di aiutare i ragazzi ruandesi a inseguire il riscatto attraverso la bicicletta: verso qualcosa di concreto sfuggendo al supplizio di Tantalo. Nel 2013 ha fondato una scuola di ciclismo che nel 2020 è diventata persino una squadra Continental: la Skol Adrien Cycling Academy – dove Skol è una birra prodotta dalla multinazionale Carslberg: si diceva dei paradossi. Sotto la sua egida crescono ragazzi interessanti come Mugisha oppure Habimana, uno che, come riportato da un’intervista apparsa su Cicloweb tempo fa, si diletta nel suonare la chitarra: in Ruanda la musica ha una componente culturale importante e radicata. Quel Ruanda che non vuole dimenticare, che vuole che si parli di quel genocidio nonostante lo shock e la disperazione. E Adrien Niyonshuti anche se cerca di non pensarci sa che quel ricordo lo accompagnerà per sempre. «Nel 2009 ero in Sudafrica per una corsa, quattro persone entrarono nel mio appartamento per derubarmi e io mi nascosi in un armadio: in un attimo vidi davanti a me le immagini del massacro a cui ero sfuggito». Niente potrà cancellare quei ricordi cicatrizzati dentro l’anima di un popolo intero, ma la bici ancora una volta ha la forza di salvare un’intera generazione.
Foto: Adrien Niyonshuti/Facebook
Nessuno è più veloce di Caleb Ewan
Tempo fa, durante un’intervista a un giornale inglese, Caleb Ewan raccontava quale fosse la prima visione all’interno del suo immaginario ciclistico. Affermò, sostanzialmente: il Tour de France del 2003. Ciò che ricordava meglio, sosteneva, ancora più che lo sprint finale sui Campi Elisi, erano le scintille emanate dalla bici di Jan Ullrich dopo la caduta nella cronometro. Ullrich, con la maglia verde-acqua della Bianchi, quel giorno avrebbe dovuto recuperare sessantacinque secondi ad Amrstrong per interromperne la strisce di quattro Tour vinti consecutivamente. Finì a terra malamente e ne perse undici. La maglia gialla amministrò, a vincere la tappa fu lo scozzese David Millar e tutto questo restò scolpito dentro il mondo delle idee di Caleb Ewan.
Lo stesso David Millar, un anno dopo circa, mentre era a cena con David Brailsford in un ristorante sulla costa vicino Biarritz, ultima citta francese prima di entrare nei Paesi Baschi spagnoli, fu avvicinato da tre poliziotti in borghese e portato nel suo appartamento dove vennero trovate siringhe usate. Venne arrestato, e primo di condurlo in cella gli tolsero tutto: persino i lacci delle scarpe – poche settimane dopo Lance Armstrong avrebbe vinto il sesto Tour. Quello del 2003, invece, era il quinto dei sette Tour del texano, e l’ennesima delusione per il panzer(otto) tedesco. Era un ciclismo appartenente a un’epoca fa – basta vedere gli ordini d’arrivo – prima del rimescolamento causato da quello che successe ad Armstrong e ai diversi protagonisti del ciclismo di quell’epoca; i Tour tolti, gli albi d’oro riscritti, strascichi – ancora vivi – decenni di menzogne, ferite apertissime, concetti che oggi solo ad accennarli si rischia di far danno. Questa, tuttavia, è una storia sulla quale è inutile soffermarci.
VELOCISTA TASCABILE
Era il 2003, si diceva. In Australia era pieno inverno. Caleb Ewan aveva appena compiuto nove anni, precisamente nel giorno del successo al Tour di Alessandro Petacchi, davanti a Baden Cooke, nella tappa con arrivo a Lione. E mentre quel ragazzino guardava la corsa francese, fuori dalla sua finestra pulsava la luna australe. Già, perché Caleb andava a dormire prestissimo per alzarsi tutte le notti alle tre. A volte svegliava i suoi genitori, per esempio quando si faceva prendere dal troppo entusiasmo vedendo scorrere le immagini di una corsa che, in un futuro all’epoca lontano, avrebbe visto protagonista anche lui. Aveva appena iniziato a pedalare proprio in quei mesi e non si sarebbe mai immaginato che, piccolo com’era, avrebbe schizzato energia sui rettilinei confusi e convulsi del Tour de France. Lo avrebbe fatto negli anni successivi in mezzo ad altri panzer (stavolta Ullrich non c’entra) come Kittel uno che avrebbe potuto nasconderlo nelle taschine della maglia, o a omini michelin con il turbo come Groenewegen, a facce sempre sorridenti ma che in realtà nascondono strani intenti come Ackermann, o rivali dalle più svariate caratteristiche e provenienze come Gaviria, Sagan, Bennett e Viviani. In una corsa come il Tour de France che per Ewan è sempre stata talmente grande e importante da preferirla ai Giochi Olimpici. «Partecipare a un’Olimpiade sarebbe bello, ma il Tour de France è la corsa più importante di tutte» uno dei suoi ritornelli preferiti. Saranno le nottate passate sveglio durante l’estate europea del 2003 ad avere fatto maturare questo pensiero? Quella fu un’edizione particolarmente sentita nell’altro emisfero, McGee vestì la maglia gialla il primo giorno, mentre Cooke e McEwen contesero quella verde a Zabel fino all’ultimo: alla fine vinse proprio Cooke. Tanti elementi che facevano sognare il Caleb Ewan bambino e ne illuminavano gli occhi a mandorla come quella luna che gli teneva compagnia.
Era piccolo Caleb Ewan, sia quando guardava il Tour in piena notte, sia quando si gettava in pista prima ancora che su strada. Piccolo è sempre stato e sempre lo sarà: 166 centimetri per un peso variabile a seconda del momento della stagione. Talmente piccolo e leggero da affermare che alle volte, quando era impegnato nella Madison, rischiava di venire sbalzato fuori dal velodromo dall’altro componente della coppia nella famigerata, quanto spettacolare, americana a punti. «Quelle corse le ricordo con piacere: mi divertivo da matti. Quando il mio compagno di squadra mi dava il cambio mi lanciava a una velocità supersonica, un effetto elastico che mi dava tantissima adrenalina. La prima volta che l’abbiamo provato mi sono pure schiantato contro la ruota di quello che stava davanti».
Ha sempre avuto animo competitivo e sempre lo avrà – non si diventa corridori così per caso. L’esplosività se la costruisce con il passare del tempo. «In realtà con doti da velocista ci devi nascere», racconta sempre l’australiano – «Vi immaginate Nairo Quintana lottare per gli sprint di gruppo?». Anche se inizialmente non era proprio così. Non solo non era un predestinato, ma neppure un vincente – parole sue riportate dai media. «Fino a sedici anni non ho mai vinto nulla, al massimo facevo secondo o terzo. Ho dovuto lavorare tanto per impormi».
Iniziò con la mountain bike in un circuito a Bowral, nel Nuovo Galles del Sud – vicino a dove Ewan è nato e dove tutt’ora vive la sua famiglia. Da quella zona arriva uno dei più grandi sportivi della storia del continente: Sir Donald Bradman. Non solo, Bradman è considerato ancora oggi il più grande giocatore della storia del cricket, il più forte battitore di uno sport dove vista e riflessi hanno una particolare funzione; più che particolare, suona meglio dire: Fondamentale. Vista e riflessi che sono Fondamentali anche per permettere a Ewan di liberare quella potenza che abbiamo imparato a inserirla tra i suoi punti di forza, vedendolo sprintare. Con muscoli a guidarlo che non sono solo un casuale coacervo di fibre e tessuti ma che svolgono una funzione che, col passare del tempo, diventa sempre più armonica. Strumenti che fanno suonare in modo perfetto l’orchestra diretta dal Maestro Caleb.
E inizialmente Ewan, che nel giro di qualche anno inizia a far vacillare la leadership di Sir Bradman come sportivo australiano più importante di sempre, aveva provato a giocare con la palla, ma era, appunto, troppo piccolo. Calcio, insieme al fratello Josh, persino rugby australiano. Se abbia mai provato il cricket non se ne hanno notizie, mentre è noto come, grazie alla passione trasmessa dal padre, è il ciclismo a diventare la sua vocazione. Dopo la mountain bike approda alla pista per diventare forte su strada, prendeva tutto quello che veniva inizialmente con una certa predilezione per quegli ovali, dove girare con bici senza freni gli permetteva – a lui così impulsivo in bicicletta, esplosivo, generoso – di trovare il modo per stimolare la sua attitudine. Anche se «quando dovrò scegliere prima o poi propenderò principalmente all’attività da stradista. La pista dopo un po’ risulta monotona, su strada non sai mai cosa può succedere». Aveva circa diciotto anni quando si raccontava così.
DALLA KOREA
Vi siete mai chiesti perché Caleb abbia gli occhi a mandorla? Forse lo avrete certamente letto da qualche parte. Sua madre Kassandra arriva dalla Korea e lui negli anni non è mai riuscito a imparare quella lingua: più complessa dello zigzagare tra maglie strette e telai in carbonio lanciati a oltre settanta chilometri orari. Ha un tatuaggio con il suo nome scritto nella lingua materna e nel 2015 corre il Giro della Korea venendo acclamato come una vera e propria star.
Ewan ha solo 21 anni quella volta, è alla sua prima stagione nel World Tour eppure ha già iniziato a impressionare. «Essere qui a Busan per me è qualcosa di incredibile. Amo la Korea e questa cultura anche se è solo la seconda volta che vengo qui. Adoro la cucina koreana e da piccolo sono sempre cresciuto assieme ai miei parenti di qui», dirà alla vigilia della prima tappa. Vincerà quattro frazioni e la classifica finale. Solo due mesi dopo alla Vuelta a España conquisterà la sua prima vittoria nel massimo circuito battendo allo sprint John Degenkolb e Peter Sagan – e pensate che, riprendiamo quel suo concetto, non si era mai sentito un predestinato.
E su quegli zigomi alti e gli occhi a mandorla ci puoi scommettere sopra come tratto inequivocabile del suo diventare ciclista: non c’è nulla di fraintendibile nella sua fisionomia né nel suo modo di essere o di lavorare. Sangue asiatico, ligio e determinato, passione ed estro australiana. Brucia le tappe in fretta: a diciassette anni conquista il titolo mondiale tra gli juniores nell’Omnium, entusiasmante prova multipla su pista. Erano i mondiali di Mosca e in quell’esibizione incrociò, come ci racconta Jean-François “Jeff” Quénet, uno dei suoi grandi rivali di questi anni di volate su strada: Pascal Ackermann, protagonista con la maglia della Germania e quarto nella gara dell’Omnium vinta proprio dal piccolo australiano.
LA FRANCIA DEL “PETIT CALEB”
Una delle svolte della carriera arriva grazie all’incontro con la famiglia McGee. Bradley “Brad” McGee è stato uno dei ciclisti più importanti e influenti in patria negli anni ’90, insieme all’altro “MAC”, ovvero Robbie McEwen, velocista spettacolare al quale spesso negli anni Caleb Ewan verrà accostato. Caleb inizia a lavorare nel negozio di biciclette dei McGee, gestito da Brad e Rod, due che daranno lustro al movimento su pista australiano laureandosi campioni del mondo dell’inseguimento a squadre nel quale era una presenza costante anche un certo Stuart O’Grady, primo corridore extraeuropeo capace di vincere la Parigi-Roubaix – il secondo e ultimo? Un altro australiano: Matthew Hayman. Quella volta che sconfisse Tom Boonen non è mai stata storia: è entrata subito nella leggenda di questo sport.
Brad, che in carriera conquisterà anche cinque medaglie in diverse edizioni dei Giochi Olimpici, gli fa da mentore, lo aiuta a crescere guidandolo nella New South Wales Institute of Sport (NSWIS), una sorta di accademia dello sport della sua regione. Lo dovrà abbandonare quando Caleb diventa professionista per una sorta di conflitto d’interesse. McGee dal 2017 è è anche il selezionatore della nazionale australiana, eppure non ha mai avuto occhi di riguardo per lui. «In nazionale sono stato poche volte. Per i percorsi misti mi si preferisce Matthews e direi anche a ragione visto i risultati che raccoglie», ma il suo sogno resta il mondiale del 2022 che si correrà proprio dalle sue parti, a Wollongong. «Fatemi il nome di un australiano che conosce meglio di me quelle strade» afferma convinto a Bicycling Australia.
Nel 2011 McGee decide di mandare Ewan in Francia per fare di questo ragazzo un corridore vero. Contatta “Jeff” Quénet, con il quale si conoscevano per gli anni passati in Française de Jeux, e lo spedisce da lui qualche mese per fargli ottenere confidenza con il ciclismo europeo. «Quando andai a prenderlo all’aeroporto di Nantes mi trovai di fronte questo ragazzo piccolino accanto al suo bagaglio bici» ci racconta Quénet «simpaticissimo, occhi vispi e che trasmettevano una determinazione incredibile. Ebbi l’impressione da subito che non sarebbe venuto in Francia per fare una vacanza, ma per studiare per diventare un campione».
Vivrà tre mesi in Francia in un appartamento di proprietà di Quénet ad Angers, dipartimento della Loira, giusto il tempo per capire di che cosa si parla in Francia quando si parla di ciclismo. «La prima cosa che Caleb mi disse fu: “Jeff, c’è una sola cosa che non mi piace del ciclismo: le cronometro! Sapete io cosa ho fatto? Chiamai subito Marc Madiot mi feci mandare una bici da crono e la prima corsa a cui lo iscrissi fu proprio una prova contro il tempo. Mi odiò per questo». L’anno dopo, con quell’esperienza maturata, Caleb Ewan diventa campione australiano proprio della cronometro. «Stavolta chiamò per ringraziarmi, aveva vinto il titolo nazionale davanti ad Alex Morgan, un passista e pistard d’eccellenza all’epoca».
Eppure, in quella breve esperienza francese, non è che fece numeri indimenticabili. La seconda corsa a cui partecipa è una gara internazionale. Vince Oliver Le Gac, all’epoca il campione del mondo juniores in carica. Ewan arriva a giocarsi lo sprint per il quinto posto. Finirà settimo e quella volata la vincerà Guillaume Martin. Anni dopo tra i professionisti i poli si invertiranno: Martin non sarà mai capace di vincere uno sprint di nessun genere, sviluppando ben altre doti, Ewan diventerà uno tra, e a volte il velocista più forte del mondo. «Al Tour di quest’anno ho mandato un messaggio a Martin con la classifica di quel giorno: “Te lo ricordi?” gli ho detto. “Come faccio a dimenticarmi di quella volta che ho battuto Ewan in volata? Mi ha risposto» ci racconta sempre Quénet.
L’unica vittoria di quel periodo arriva in una gara in Bretagna che serve a capire quello che ancora era Caleb Ewan: vince per distacco, in solitaria. «Era la corsa del livello più basso che puoi trovare in Francia in quella categoria, ma Caleb dimostrò di essere comunque più maturo di tutti i suoi coetanei francesi».
Quando Ewan torna in Australia al termine dei quei tre mesi all’apparenza non sembra migliorato, anzi. Torna leggermente sovrappeso perché tra il finire di quel periodo di gare e la partenza per casa sua passano due settimane nelle quali Jeff Quénet gli fa conoscere la cultura enogastronomica francese. «Tornato in Australia sua nonna koreana si lamentò di averlo trovato ingrassato! E lo stesso Caleb si è lamentato che i suoi risultati non eccelsi di quel periodo erano dovuti a una dieta di certo non adatta a un corridore. Ma io non l’ho mai messo in condizione di diventare un corridore, l’ho messo in condizione di scoprire se stesso. Aveva solo diciassette anni e avrebbe avuto tutto il tempo per diventare un campione».
E difatti quella Francia rimarrà sempre dentro Caleb, ne formerà i tasselli del suo vigore protoplasmico, come Jack London definiva i muscoli di Oscar Mathæus “Battlin Nelson” Nielsen nel suo lungo reportage sul “match del secolo” tra James Jeffreis e Jack Johnson e apparso nel 1910 sul New York Herald. Quel disputare cronometro controvoglia, partecipare a corse dove si corre davvero il ciclismo e dove il tifo poi, ricopre un ruolo fondamentale: tutto serve a far cuocere Ewan in un brodo gourmet. «Rimase impressionato dai tifosi» e sempre Jeff Quénet che ce lo racconta. «Quando i suiveur del ciclismo scoprirono che sarebbe venuto da me questo ragazzo di diciassette anni, la casella postale di casa mia si riempì di decine su decine di fotografie con il giovane Ewan, da autografare. Era famoso in Francia nonostante fosse “solo” un campione del mondo juniores su pista. E per non parlare della gara vinta in Bretagna: migliaia di persone a fare il tifo: immaginatevi lui abituato in Australia dove i tifosi sulla strada all’epoca erano solo gli stessi ciclisti o i loro genitori. Ne rimase colpito, strabiliato».
IL PIU FORTE VELOCISTA DEGLI ANNI 2020
Nel Gennaio del 2012, Caleb iniziava la sua seconda stagione tra gli juniores e forte dell’esperienza francese si iscrive, accompagnato da Jeff Quénet, al Jayco Bay Classic, una quattro giorni di kermesse cittadine tra Victoria e Melbourne, in programma i primi quattro giorni dell’anno. Una challenge particolarmente sentite dalla Orica GreenEdge la squadra australiana che negli anni sarebbe diventata riferimento nel mondo del professionismo e che in quei giorni faceva proprio la sua prima uscita della storia. Immaginatevi: il team, praticamente di casa a Melbourne, schiera un terzetto che avrebbe dovuto fare incetta di traguardi per iniziare a far conoscere il suo nome in giro: Allan Davis, Baden Cooke e Robbie McEwen; si punta su tre fra i più forti velocisti del mondo degli anni 2000. I più forti della storia del movimento aussie. Alla partenza della seconda prova, con arrivo al Geelong Eastern Park, Quenet si avvicina a Baden Cooke. «Conosci ‘sto ragazzino?», indicando il piccolo Caleb Ewan. «No», gli risponde con convinzione la maglia verde di quel già citato Tour del 2003. «Beh, a fine corsa imparerai il suo nome». La prova la vince Ewan, contro professionisti più grandi ed esperti, lo fa indossando la maglia della NSW Institute of Sport e guanti e calzetti della Saxo Bank. Caleb vincerà anche la quarta e ultima prova, precedendo Howard, campione del mondo su pista e Davis, bronzo mondiale su strada due anni prima proprio in Australia. Il direttore di corsa John Trevorror ricorda così quel giorno su cyclicst.co.uk. «Leigh Howard precedeva Allan Davis nell’ultima curva e sembrava scontata la prima vittoria del team Orica. Caleb è uscito dalla terza ruota e ha superato due velocisti di livello mondiale così facilmente da farmi girare la testa. Ricordo che Phil Liggett (storico giornalista inglese N.d.A.) disse all’epoca che Mark Cavendish e Robbie McEwen non avrebbero potuto fare di meglio». Ma non solo, per Phil Liggett Ewan era superiore a Cavendish alla stessa età e si sarebbe immaginato dall’australiano un futuro «Più da corridore alla Gilbert che alla Cannonball».
E qui arriviamo alla domanda che avremmo dovuto porci all’inizio: che velocista è Caleb Ewan? Iniziamo col riprendere le sue parole, di quando era ragazzino e rispondeva ai giornalisti del suo paese dicendo che: va bene la tanta attività in pista, va bene andare forte nell’Omnium (e quindi in tutte le discipline che lo compongono), la velocità di punta e la buona resistenza, ma teniamo presente come lui, inizialmente, era considerato uno che sapeva facilmente scollinare davanti le brevi salite. «Le mie caratteristiche? Qui in Australia mi considerano praticamente uno scalatore, mi difendo bene quando la strada sale, ma se dovessi diventare professionista mi vedrei meglio come velocista». E tra gli Under 23 Caleb Ewan era uno che ti ritrovavi sovente negli ordini d’arrivo delle corse più impegnative del calendario. La vittoria al Palio del Recioto, al suo primo anno da dilettante, è un segno utile a identificare le caratteristiche di un corridore che “diventerà uomo da classiche”. Non solo la prova internazionale che si corre a Negrar, provincia di Verona; la settimana dopo conquista La Côte Picarde, prova di Coppa delle Nazioni su un tracciato impegnativo andando via nel finale con gente come Simon Yates, Sean De Bie e Jan Polanc e regolandoli allo sprint. E i risultati ottenuti dal 2012 al 2014 nelle rassegne iridate giovanili non possono che rafforzare questo concetto. Argento mondiale juniores a Valkenburg su un percorso da classiche, quarto a Firenze e secondo l’anno dopo a Ponferrada tra gli Under 23 sempre distinguendosi più come corridore resistente e dallo spunto veloce che come sprinter puro.
Ma passato professionista qualcosa cambia, scatta una molla che lo rende veloce, velocissimo. Potente – il famoso vigore protoplasmico di Jack London. Una pallottola senza gravità con quel suo modo particolare di sprintare curvo abbassato al limite della coerenza sul manubrio della bici, il colpo d’occhio da giocatore di cricket, l’abilità nel saltare da una ruota all’altra e di emozionare in quei momenti così convulsi chiamate volate, quelle azioni che a volte vorresti fare a meno di vedere per quanto ti preoccupi per i loro protagonisti, come fossero i personaggi di un film d’azione a cui ti sei affezionato. Velocista ci nasci, lo aveva detto, lo abbiamo scritto all’inizio di questa storia, ma diventare velocista è una questione di pratica, di immersione totale, di coraggio. Di scelte dolorose ma condivise, e di sacrifici.
La prima scelta dolorosa è il divorzio dal gruppo Orica, quello che lo ha portato al professionismo, che gli ha permesso di vincere una tappa alla Vuelta al primo anno nel World Tour e di imbarcarsi dall’Australia all’Europa e di viaggiare, ma non solo semplicemente viaggiare: pagato per viaggiare. Quella cosa che, quando chiedi a un corridore cosa ti piace del tuo mestiere, lui la metterà sempre al primo posto. Con quel Shayne Bannon che lo volle fortemente nel progetto Orica-GreenEdge dopo averlo conosciuto ragazzino alla presentazione del Tour 2012. Era l’autunno del 2011 e Caleb andò insieme a Jeff Quénet al Palazzo dei Congressi di Parigi. «Caleb non poteva crederci: era estasiato. Erano presenti cinquemila persone per quell’evento».
E quindi Caleb è ormai chiaro come corra a pane e Tour. Lascia “casa” Orica (ormai diventata Mitchelton Scott) dopo essere rimasto per l’ennesima volta escluso dalla selezione per la corsa francese: le tappe vinte al Giro e alla Vuelta non gli bastano, nemmeno quelle semiclassiche dove il piccolo australiano riesce a mettere la sua ruota davanti a tutti,. Il Tour è quel sogno inseguito sin da quando si alzava la notte d’inverno da bambino.
Allora chiude con l’Australia e viaggia in Belgio. Lascia la sua squadra per correre in maglia Lotto. Sempre grazie al ricordo di Jeff Quénet, scopriamo di quando Caleb nel 2011 andò a Parigi e si fermò sugli Champs-Élysées per fotografe la zona dove ogni anno arriva la Grande Boucle. «Ricordati Jeff» gli disse «un giorno io vincerò su questo traguardo». Seppure in leggero ritardo sulla sua tabella di marcia, quella vittoria arriva nell’estate del 2019.
Ma parlavamo di scelte: la seconda è straziante, ancora più che dolorosa. Nel 2019 infatti, Caleb e sua moglie Ryann hanno la loro prima figlia. La piccola nasce prematura di sei settimane ed è costretta a restare per un mese in ospedale proprio a ridosso della partenza del Tour per il quale Caleb aveva sacrificato anni della sua vita e ne aveva condizionato anche le scelte professionali. «Non poteva respirare da sola, non poteva mangiare da sola e io ho dovuto andare via proprio un paio di giorni prima che lei uscisse dall’ospedale. Avrò sempre il ricordo di non essere stato io a portare a casa mia figlia» e la prima volta che Caleb la vede senza macchine attaccate è il secondo giorno di riposo della corsa francese. «Concentrarmi per il Tour è stato difficile, quasi impossibile: pensavo solo a lei a casa, volevo solo passare del tempo con lei, e allo stesso momento mi stavo preparando per la corsa più importante della mia vita» Quella per il quale il Caleb bambino si alzava in pieno inverno alle tre di notte.
Oggi Caleb si gode la figlia facendo «quelle cose che fanno tutti i papà». È un corridore affermato e tra 2019 e 2020 ha vinto diciassette corse, tra le quali cinque tappe al Tour, due al Giro, la Brussels Cycling Classic e lo Scheldeprijs – senza dimenticare il secondo posto alla Sanremo anticipato solo da Vincenzo Nibali. Qualcuno ancora mette in dubbio il suo status di migliore (e più spettacolare) velocista al mondo: beh quel qualcuno vada a rivedersi la volata della terza tappa al Tour de France di quest’anno. Ai 150 metri Ewan è ancora in sesta, settima posizione, dribbla tutti come un Maradona sui pedali e infila Sam Bennett sulla linea del traguardo. Pochi dubbi: il piccolo Ewan è diventato grande. Il piccolo Ewan, oggi, è il velocista più forte del mondo.
Foto in evidenza: ASO / Pauline Ballet
Il viaggio di Luca Mozzato arriva fino al nord Europa
Luca Mozzato arriva dal Nord e, ci concederà questa licenza, probabilmente più che dal nord Italia avrebbe preferito arrivare dal nord Europa. Corre in Francia con la maglia della B&B Hotels – Vital Concept P/B KTM dove pedala per trovare la sua dimensione, ma non solo, prova a migliorare in tutto per realizzarsi; cerca di imparare la lingua «mi arrangio, ma mi faccio capire» ci spiega, e vuole correre sempre più forte tra le infide stradine fiamminghe. È in Belgio, infatti, magari proprio al termine di una gara che prevede muri e pavé, che vorrebbe scagliare i suoi sogni.
Parlando con lui sembra di avere dall’altro capo del telefono un quadro di questo tipo: elettrico, frizzante, gioioso ma allo stesso tempo un po’ spigoloso quanto sincero. Dice che era uno di quei bambini irrequieti che non riusciva a stare mai fermo: nei pomeriggi liberi da studio e scuola giocava a pallone, nuotava, girava con lo skateboard e quando ha iniziato a correre in bici era poco più di un ragazzino, un po’ come tutti i suoi colleghi – ma in realtà non proprio tutti tutti. Aveva nove anni quando si mise in luce e mica lo fece in una corsa normale: era una gincana organizzata nel suo paese. Quando gli chiedo qual è il suo paese me lo spiega, ma precisa: «Sono nato e vivo nella provincia di Vicenza, ma ciclisticamente sono cresciuto in quella di Verona. Abito a Sarego che praticamente è al confine tra le due province e spesso quando mi presentano c’è un mezzo equivoco: “il veronese Luca Mozzato” dicono». La cosa non è che gli dia fastidio, puntualizza ulteriormente, e pensiamo lo dica con il sorriso, anche se attraverso un telefono possiamo solo dare spazio all’immaginazione.
La guerra dei campanili evidentemente non gli interessa, pensa ad altro, e più che fantasticare è concreto. Ambizioso: altrimenti non avrebbe mai iniziato un viaggio che lo ha portato a dividersi tra Francia e Belgio. E non avrebbe potuto prendere decisione migliore lui che, sin da ragazzino ammira Boonen. «Sono cresciuto guardando la rivalità tra Boonen e Cancellara, ma il mio cuore ha sempre battuto per il belga. A crono non sono mai andato forte e in più ho sempre avuto spunto veloce e passione per le pietre del Nord». Quale corridore migliore da scegliere come modello in gara se non uno vincente (e trascinatore di folle di appassionati) come Tornado Tom?
Sin da ragazzino Luca Mozzato ha avuto caratteristiche ben definite – fatto tutt’altro che scontato. «Ho sempre avuto una buona manualità con la bici (altrimenti non si sarebbe mai messo in luce in una gincana! N.d.A.), e da subito veloce ma con la capacità di difendermi anche sui percorsi impegnativi». Gli faccio notare come alcuni suoi colleghi, su tutti lo sloveno Žiga Jerman, quando tra gli juniores chiedevano chi fosse il corridore da battere in una determinata corsa, il suo nome era il più gettonato. «Mi fa piacere e mi rende orgoglioso, vuol dire che si riconosce il buon lavoro che ho fatto, però precisiamo una cosa: eravamo dei ragazzini, ora tra i professionisti la musica è cambiata».
È preciso e deciso nell’analizzare le fasi della sua maturità puntando l’attenzione più sulla crescita che sui risultati. «Se guardo agli Under 23 il mio percorso è stato ottimo. Sono cresciuto, maturato, mi sono adattato bene alle situazioni dimostrando di essere un ragazzo che si sa gestire in corsa. Se invece guardo ai risultati un po’ di amaro in bocca resta». Una punta di insoddisfazione data dalle poche vittorie ottenute e che probabilmente non danno merito al talento e allo spunto veloce. «Però mi chiedo: meglio passare con dieci vittorie, e poi magari ritrovarsi a fare fatica tra i professionisti anche rispetto a quei corridori che battevi?» – non sarebbe né il primo né l’ultimo – «Oppure passare con poche vittorie, ma la consapevolezza di aver fatto il percorso giusto, e di avere ancora margine di crescita?». No, Luca Mozzato non farebbe mai a cambio di situazione. Tuttavia ci tiene a specificare che non sembri la favola della volpe e l’uva: «Chiariamo, però: avrei voluto vincere comunque di più. Vincere ti provoca una gioia senza paragoni, è come una sorta di liberazione».
Si parla di lingua, di squadra, di Belgio, di Francia e di pietre del Nord e allora Luca si apre e quasi non riesci più a fermarlo come se dovesse andare in fuga con in testa il traguardo del Fiandre o il velodromo della Roubaix. «I belgi sono incredibili: parlano qualsiasi lingua e ti capiscono». E con Backaert, De Backer e Boeckmans – sembra una filastrocca – è come andare all’Università. «In corsa mi aiutano, mi spiegano tutto. Io arrivo da un contesto culturale diverso e senza l’esperienza necessaria per queste gare. Il loro supporto è fondamentale soprattutto nei finali di corsa quando tendo a spendere troppo, ad agitarmi, ad alimentarmi male. E loro invece mi guidano, mi aiutano: “no tu devi fare come ti dico io, devi starmi a ruota, non pensare, poi se hai le gambe per il finale bene, altrimenti, se ne riparla”. Mi hanno portato un paio di mesi su un palmo di mano dandomi tutto l’aiuto possibile, sia legato alla corsa sia legato a tutto il resto, insegnandomi i trucchi del mestiere».
Al Fiandre 2020 le cose non sono andate come sperava, si è ritirato, ma era pur sempre la prima esperienza e non può che riuscire a vederci il lato positivo, come per il resto del periodo che ha trascorso in Belgio. «In primavera ho fatto un mese tra Francia e Belgio prima di rientrare a casa per il lockdown: la cultura che hanno della bici è incredibile, anche lo stile di vita. Backaert abita praticamente sul percorso della Ronde e conosce a memoria ogni pietra e difficoltà del Fiandre». La corsa che, insieme alla Roubaix sogna sin da bambino. «Muri fiamminghi e foresta di Arenberg sono luoghi che mi hanno sempre affascinato. Prima quando li vedevo in tv, poi quando ci ho corso le prime volte. Da Junior ho corso la Roubaix: prima di entrare nei settori di pavé arriva questo stato di agitazione difficile da descrivere e che si differenzia da qualsiasi altro momento di qualsiasi altra corsa. E poi c’è un’atmosfera! La gara si corre lo stesso giorno dei professionisti, si passa circa due ore prima di loro e c’è già il pubblico che fa il tifo. Mai vista una situazione del genere: mi ha letteralmente travolto».
E Se Luca Mozzato è un tipo elettrico, il più esuberante del gruppo dei “Men in Glaz” è decisamente Coquard. «È il jolly: se non c’è te ne accorgi. Trascina, scherza, tiene alto il morale, ha sempre buone parole per tutti e cerca di coinvolgerti. Ha un’incredibile capacità di allontanare la pressione: è l’anima della squadra». E quando gli chiediamo se si rivede in lui come caratteristiche, si fa discreto: «Di strada devo farne ancora tanta. Io, pensando al 2021, mi definisco un neoprofessionista del secondo anno. Ho fatto un po’ di esperienza ma per ovvi motivi non abbiamo corso molto e dunque non ho assorbito ritmo e gamba. Per il 2021 l’obiettivo principale sarà imparare ancora, assimilare ulteriormente, migliorare tutti gli aspetti, anche quelli mentali e se avrò la condizione arriveranno anche i risultati. Anche perché poi c’è un problema: sapete qual è? Vogliono vincere tutti, e allora prima puntiamo a fare esperienza, poi la vittoria arriverà di conseguenza». Il viaggio di Mozzato verso le pietre del Nord sta per ricominciare.
Foto: FRJ | B&B HOTELS – VITAL CONCEPT p/b KTM
L'orgoglio di un giovane campesino
Foto: Diego Camargo, Facebook
Sulla strada - La storia di Andrea fedi
«Quando racconto quello che mi è successo faccio fatica a far capire quello che ho passato». Inizia così la storia di Andrea Fedi. Simile alle altre, diverse da tutte. Non c'è riscatto, né resurrezione, almeno a leggere il suo racconto, almeno da un punto di vista strettamente agonistico: la bici, una volta abbandonata nel 2017, la lascerà in garage senza mai più toccarla. Nel vero senso della parola. C'è un cambiamento così veloce al proprio modo di vivere che sembra appartenere all'esistenza di qualcun altro – non dice proprio così Fedi, ma il senso è quello.
Un balzo, un cambio che lo porta da un'altra parte, dopo aver annusato il vertice del ciclismo e aver sognato di diventare campione: ciò per cui ti batti quando sei ragazzino e inizi a pedalare, a fare sacrifici, a crescere più in fretta degli altri tra privazioni e sacrifici: «Però c'è un compromesso: fare il ciclista è il mestiere più bello del mondo».
Perché c'è l'adrenalina delle corse, c'è la sfida contro te stesso, c'è la semplice passione che diventa come un corso d'acqua che passa e raccoglie tutto e poi si ingrossa fino a sfociare da qualche parte.
C'è la strada che nasconde un'insidia dietro l'altra. «Quello che mi ha portato a smettere è stato veloce, repentino». Travolto, trascinato come se invece di essere lui quel fiume, ne fosse stato colpito. Passa professionista tra belle speranze. Un secondo posto a Plouay, mica la Corsa del Prosciutto – e non ce ne voglia lo stesso Fedi che a San Daniele, patria del prosciutto, vinse una delle classiche più celebri del panorama Under 23.
Il secondo anno da professionista inizia col botto: prima nei risultati, poi quello che mette fine alla sua carriera facendogli iniziare un calvario dal quale scende solo una volta deciso di mollare per sempre la bici. Quarto a Camaiore, vince il Lagueglia pochi giorni dopo con un'azione che sarebbe potuta diventare un marchio di fabbrica, ma che invece resterà solo qualcosa da raccontare come inizio della fine, almeno quella in bicicletta.
«Passano venti giorni dalla mia vittoria a Laigueglia, cado alla Coppi & Bartali e picchio il ginocchio sinistro. Risultato? Una lesione tendinea che però non mi viene diagnosticata in tempo e che mi rovina il ginocchio e mi distrugge la carriera. L'ho trascurata; sono entrato in un circolo vizioso condizionato in parte della squadra, in parte da tutti quelli che mi stavano attorno. In parte da me. Era la stagione in cui dovevo dimostrare chi ero. I risultati stavano arrivando e tutti mi mettevano pressione, io stesso mi mettevo pressione. “Non puoi mollare adesso, non puoi mollare adesso”, mi ripetevano e mi ripetevo come un mantra. E io ho insistito sul dolore, sulla botta, che poi proprio una semplice botta non era».
I problemi si sommano, «arrivano a cascata» - puntualizza Andrea con il tono di chi ormai ha saputo mettersi alle spalle quei momenti, di chi ha saputo trovare in una nuova vita un presente e un futuro a cui aggrapparsi, per guardare col sorriso a quello che è stato il suo passato.
«Mesi di riabilitazione che parevano infiniti. Era marzo quando mi feci male, sono rientrato alle gare ad agosto e senza risolvere nulla. Ho continuato a fare riabilitazioni su riabilitazioni, ma il ginocchio aveva perso elasticità, non lavorava più bene. Poi ho affrontato l'inverno tra 2016 e 2017 mettendomi il cuore in pace, ma con l'idea di ripartire bene, facendo solo fisioterapia in un centro specializzato a Forlì. Da qui iniziano le frustrazioni».
I medici gli ripetevano: “Andrea il ginocchio è a posto”. «Ma io, come salivo in bici, avevo un dolore tremendo. Non riuscivo a saltarne fuori. Ho girato mezzo mondo per salvare la carriera. Consulti con dottori, specialisti, osteopati, e tutti mi dicevano: “questo è un ginocchio un po' problematico ma per lo sport che fai tu non ci sono complicazioni”. E le frustrazioni continuavano».
Andrea Fedi non riusciva a spiegare a chi gli stava intorno quello che stava succedendo. Come un film che nessuno ha mai visto, un sogno, in questo caso un incubo, che in quanto tale appartiene solo a te stesso e dal quale non riuscire a venirne fuori. Un rompicapo. Uno spettro che fa capolino. «Dalla squadra, ai familiari, al procuratore, alla mia ragazza. Io tornavo a casa e dicevo: “non riesco ad allenarmi, non riesco più a gestire questa situazione, non riesco più a sostenere e a combattere contro questa frustrazione”». A maggio 2017, Andrea decide di smettere. «Non ce l'ho più fatta. Non ho retto la pressione. Come essersi liberato di un macigno di due tonnellate che pesava sulle spalle».
Più leggero, dopo essersi scrollato di dosso quei pensieri che nel giro di poche settimane da granellini di polvere divennero blocchi di zirconio. Capace finalmente di mandare giù il boccone, dopo aver eliminato quel groppo in gola che rischiava di strozzarlo, Andrea stacca da tutto e tutti e vola in America. «È stata la mia salvezza. Vedete, io amo il ciclismo, ma c'erano tanti, troppi interessi dietro la mia scelta, nascosti dietro la mia vita: contratti, sponsor, procuratori, squadra. Però amo anche viaggiare e allora l'unico modo per immaginarmi lontano da questo mondo era staccare completamente. Andai a Los Angeles, affittai un'auto e iniziai a fare il turista». Fuggire dalla strada e cercare catarsi e purificazione sulla strada. «Avevo bisogno di stare lontano da tutte le persone che altrimenti avrebbero continuato a dirmi: ”ma che hai fatto? Perché hai smesso?”»
Ma quel viaggio non poteva che ricondurlo prima o poi al ciclismo. Andrea ricarica le batterie, riprende contatti con quel mondo che aveva rifiutato e rientra dalla porta di servizio. «La mia vita è sempre stata il ciclismo. E dopo quel periodo di stacco volevo ritornare, ma non come corridore. Avendo sempre avuto la passione della meccanica presi contatto con Citracca e iniziai a lavorare come autista e meccanico». Ora lavora per la Bardiani CSF Faizanè Pro Team, si occupa del magazzino, dei fornitori: poche settimane fa ha fatto il suo primo Giro d'Italia in ammiraglia come meccanico. Un'esperienza fantastica, la definisce.
È di nuovo raggiante Andrea Fedi, nel raccontare la sua nuova vita. «E da qui cambia tutta la prospettiva nel valutare un ragazzo che corre in bici. Quando sei tu a correre, quando sei sotto i riflettori, non ti accorgi di tante cose. Solo ora vedo i sacrifici e le rinunce. Solo adesso sto vivendo una vita normale. Se tornassi indietro non so se riuscirei a rifare di nuovo la vita del corridore. Sin da bambino cresci facendo il ciclista, quindi sei abituato a correre, sei mentalizzato e stimolato per arrivare, per vincere, hai fame di successi e quindi riesci a sopportare tutto. Ma quando vedi com'è l'altra vita ti fai una domanda alla quale sai anche come rispondere: ma come sono riuscito a fare tutto questo?».
Oggi Andrea, oltre a essere meccanico è anche padre, felice, nonostante quando ci ha risposto al telefono stava ancora aspettando l'esito del tampone, dopo aver passato le ultime settimane a casa in quarantena, perché positivo. «Però la verità è che non potrei stare meglio. A casa, con un bimbo appena nato, con la mia famiglia, finalmente mi godo un po' anche loro». Oggi a casa, da domani ancora sulla strada.
Foto: Bardiani-CSF-Faizanè
La ciclista che voleva dare una mano al mondo e a se stessa
Il fuoco che divampa dentro Elise Chabbey è una di quelle sensazioni difficili da spiegare – intime, personali, il cielo dentro ognuno di noi. Chi ne viene colpito a volte cerca di sfogare faticando, sudando, stando continuamente in attività nel tentativo di assecondare quel non riuscire mai a stare fermi. Aiutare se stessi per conoscersi meglio. Spostare i propri limiti per definirsi o semplicemente per mettersi alla prova come atto di vita.
A volte aiutare se stessi non basta. E infatti Elise Chabbey ha spostato la propria asticella preferendo dare una mano agli altri. Erano i primi giorni di marzo. Squilla il telefono. È il suo insegnante del Master in medicina che gli dice di come la situazione sia iniziata a essere difficile anche in Svizzera. "Tesa" è la parola esatta che usa, si sbilancia, ma fino a un certo punto: è un medico e cerca un modo equilibrato anche in un momento di questo tipo. Fatto sta che la richiesta è diretta quanto semplice da fare, ma così complicata da esaudire: l'evolversi dei noti fatti in Svizzera stanno precipitando e ci sarebbe bisogno di aiuto all'HUG, che non vuol dire abbraccio, ma è l'acronimo di Ospedale Universitario di Ginevra.
Sì, perché Elise Chabbey, che arriva proprio da Ginevra, dopo essere stata quattro volte campionessa svizzera di kayak, partecipando pure ai Giochi Olimpici di Londra, dopo aver lasciato l'acqua per correre maratone e mezze maratone, aveva abbandonato lo sport a livello agonistico per studiare medicina riuscendosi, infine, pure a laureare.
A Marzo 2020 ormai la pandemia era diventata non solo un termine in uso e ahinoi diffuso, non solo qualcosa con cui avere a che fare marginalmente, ma stava uccidendo, mettendo a terra il sistema, la società, riempendo ospedali e, per ultimo, costringeva alla chiusura temporanea della stagione ciclistica - che sarebbe poi ripresa diversi mesi più tardi.
Elise, che nel frattempo, dopo essersi laureata, è diventata anche una ciclista professionista di livello importante, si stava preparando per la Strade Bianche – corsa poi annullata - quando arrivò la chiamata. All'inizio, ha raccontato spesso, fu difficile dire di sì. La situazione era incerta a trecentosessanta gradi, lei si era preparata durante l'inverno badando con minuzia a ogni particolare, facendo sacrifici, allenamenti duri, curando l'alimentazione, per quella che sarebbe dovuta essere la sua ultima stagione in bicicletta. «Ma non potevo mica starmene con le mani in mano! Anche se quella laurea in medicina l'avrei sfruttata a fine carriera. E invece...». E invece Elise smette i panni del corridore e indossa il camice.
Pochi mesi dopo si riapre la stagione ed Elise torna in bicicletta. «E i risultati mi sorpresero» racconta a un giornale francese. «Avevo valori importanti» wattaggi, li definisce, per esattezza. «Nonostante fossi impegnata ogni giorno in ospedale riuscivo a trovare nelle ore di pausa la motivazione per allenarmi e non perdere la forma». Medaglia d'argento nella prova a cronometro a squadre dell'Europeo, ventiquattresima al Giro Rosa, tredicesima alla Liegi-Bastogne-Liegi: in mezzo alla crema del ciclismo mondiale. C'è chi ha passato ore estenuanti finendo per farsi venire la nausea pedalando sui rulli, c'è chi è riuscito ad allenarsi ugualmente in strada, infine chi ha diviso la sua attività tra ospedale e allenamenti. «Psicologicamente lavorare in ospedale mi ha aiutato molto di più che se fossi stata ferma ad aspettare o semplicemente andando solo in bicicletta: sono tornata in corsa più motivata che mai».
Poche settimane fa, prima della chiusura della stagione, Elise Chabbey si presenta al via della prova in linea del campionato svizzero. Nebbia, freddo, un percorso difficile per corridori in un piccolo paese del Canton Turgovia tra Winterthur e San Gallo: parte a settanta chilometri dalla conclusione e arriva da sola a braccia alzate.
«Ultimamente le persone sono più interessate a me per quello che ho fatto fuori dalla bici, ma non è un problema, anzi. Se quello che faccio può far sognare le persone? Tanto meglio. Se quello che faccio può essere utilizzato per pubblicizzare il ciclismo femminile? Meglio ancora. Quello che ho fatto non è un motivo di orgoglio personale, ma semplicemente una bella esperienza» racconta alla fine di quella corsa.
A fine stagione avrebbe dovuto smettere di andare in bicicletta – come la sua squadra, che chiuderà i battenti - e invece continuerà con il sogno di correre un'altra Olimpiade. Elise, oggi, ancora non sa se ritornerà in corsia a dare una mano, ma si dice pronta a tutto. «Intanto posso dire di essere stata campionessa nazionale nel kayak e poi nel ciclismo: sembra una cosa divertente». Il fuoco che divampa dentro Elise Chabbey potrebbe anche essere quello che si accende dentro di noi, ma di storie come la sua non se ne sentono tutti i giorni.
Foto: Facebook/Elise Chabbey