FLANDRIEN CHALLENGE, SFIDA TOTALE

Prendete tre amici, appassionati di ciclismo, dategli un furgone nero, anzi, Nerone! Macinate 1.200 chilometri per raggiungere con brio le Fiandre, il tempio del ciclismo, e condite il tutto con delle barzellette anni ’80, qualche puzzetta e un sacco di risate. Aprite uno Strava fresco fresco e preparatevi a fare il pieno di muri… Ops, segmenti.
Annaffiate il tutto con dell’ottima blanche e ovviamente patatine fritte a volontà. Questa è la ricetta per la felicità, questa è The Flandrien Challenge…
Amigo, i campioni sono così!

Intervista: Claudio Ruatti
Ospiti: Davide Caccia, Stefano Francescutti, Matteo Serone
Sound design: Brand&Soda


IL TOUR A CASA ZILIOLI

Italo Zilioli è stato una delle figure più intriganti, misteriose e persino divertenti del ciclismo a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, gli anni del passaggio dall’epoca eroica alla contemporaneità, tra Coppi e Merckx. Lo scorso luglio siamo andati a trovarlo per farci raccontare la sua storia, dagli esordi in bicicletta alla forte amicizia che ancora lo lega ad Eddy Merckx. Una chiacchierata a 360°, nel salotto di casa sua, prima di accendere la televisione e guardare assieme la tappa dell’Alpe d’Huez (di cui potete leggere sul numero 22 di Alvento).

Intervista: Filippo Cauz e Gino Cervi
Sound design: Brand&Soda


A base di Champagne

“Champagne per brindare a un incontro”, cantava Peppino di Capri. Nonostante l’allontanamento dalle capitali di questo nettare, toccate ieri, le bollicine non abbandonano la corsa, la costeggiano, come le vigne. Oggi si è festeggiato un tipo particolare di incontro, quello della Grand Boucle al femminile con i percorsi non asfaltati dei chamin de celles.
Si fa presto a dire sterrato ma, se si guarda bene, lo si può vedere con molti occhi diversi: chiedessimo a Mavi Garcia cosa sia, lo sterrato, risponderebbe che è qualcosa di simile a una condanna, una maledizione: in quattro tratti in tutto, Mavi, è riuscita a forare due volte, a essere coinvolta in due bizzarri incidenti – uno con una compagna di squadra più uno con la sua stessa ammiraglia che l’ha portata a terra. Tanta polvere mangiata e un minuto e trentuno secondi lasciati sul terreno gibboso: non ci si possono certo aspettare parole positive.
La musica cambierebbe assolutamente chiedendo cosa significhi sterrato a Marlen Reusser, vincitrice di giornata: le è riuscito, infatti, in una giornata così impestata per tante sue colleghe, di scattare a più di venti chilometri dal traguardo per arrivarci da sola e festante. Sabbia, polvere e pietre più o meno taglienti le devono essere sembrate qualcosa di molto simile alla buona ventura. Deve essersi divertita quasi quanto il pubblico sulla strada, la gente numerosissima che popolava i viottoli in mezzo ai campi. Anche per loro lo sterrato oggi deve aver assunto la forma della felicità, come per i bambini urlanti, le famiglie che banchettavano, gli agricoltori impegnati a decorare i campi con grandi coreografie, oppure come per il tifoso travestito da Babbo Natale che per una volta, invece di distribuire i regali, li aspettava dalle ragazze in corsa e li ha ricevuti, in questo strano Natale di fine luglio che è il Tour de Femmes.
Porsi questa domanda, però, significa spingersi ancora oltre, e chiedere anche a Elisa Longo Borghini cosa significhi sterrato: lei direbbe che è lavoro di squadra ben riuscito, quello che le ha permesso di concludere con le migliori nonostante una foratura, grazie al provvidenziale passaggio di bicicletta effettuato da Elisa Balsamo; aggiungerebbe anche che questi tratti così sconnessi, benedetti, maledetti, fondali di immagini indelebili, sono semplicemente “fighi!”. Non c’è niente da aggiungere, solo da concentrarsi sui festeggiamenti, naturalmente, a base di champagne.


Quando Nibali andò all'inferno

Il cielo è pioggia, la strada è un sentiero, i corridori procedono in fila indiana. E’ una processione dolorosa.
Grande pubblico, due ali di folla che accompagnano i corridori, il popolo del ciclismo incoraggia tutti, dal primo all’ultimo, soprattutto gli ultimi.

Nella sporca dozzina di corridori in testa alla corsa, infangati, c’è anche la maglia gialla del leader della classifica generale. E’ Vincenzo Nibali.
Vincenzo stringe i denti, assottiglia le labbra, affila il naso, riduce gli occhi a due fessure. E allunga. Mancano 10 chilometri al traguardo. Ora, si dice, o mai più.

E’ il 9 luglio 2014. E’ il Tour de France. Ed è la quinta tappa: da Ypres ad Arenberg, in programma 155,5 chilometri con nove tratti di pavè, ma due tratti – quelli di Orchies e Mons-en-Pévèle – vengono subito condonati per le proibitive condizioni del tempo e della strada, è una giornata invernale in piena estate, e i chilometri sono d’autorità ridotti a 152.

Al ritrovo di partenza, a Ypres, in Belgio, e in Belgio il cielo sembra sempre più basso che altrove, bandiere gialle con il leone delle Fiandre che sventolano fra gli ombrelli, davanti alla Lakenhalle, il mercato dei tessuti, capolavoro dell’architettura gotica. L’atmosfera è tesa: quella di oggi è la temutissima tappa del pavé, una parte del percorso comprende le pietre della Parigi-Roubaix, “l’inferno del Nord”. In una giornata asciutta, questa corsa è polvere; in una giornata bagnata, è fango; in una giornata di ciclismo, è – sempre e comunque – guerra. Cento anni prima, proprio qui, si combatteva la Grande Guerra: il dipartimento del Nord era stato il teatro di stragi immani sul fronte franco-tedesco, e la Parigi-Roubaix veniva considerata il suo equivalente ciclistico, una lotta per la sopravvivenza, da cui bisognava sentirsi fortunati a uscirne illesi. E un po’ così, lotta per la sopravvivenza, cento anni dopo, la Parigi-Roubaix continua a esserla. I corridori dicono: portare la bici al traguardo.

Nibali guida la classifica del Tour de France già dal secondo giorno. Ha vinto, a sorpresa, sorprendendo anche sé stesso, la York-Sheffield, la seconda tappa interamente corsa in territorio inglese, sotto la pioggia: uno scatto nel finale aveva sorpreso gli avversari, forse timorosi, forse infreddoliti, forse impreparati a rispondere a quella che sembrava soltanto una provocazione. Si dice che la maglia gialla, così come la maglia rosa, sia importante indossarla l’ultimo giorno, non il primo e neanche il secondo. Ma Vincenzo pensa che sia importante indossarla, prima o poi, meglio poi che prima, ma anche meglio prima che mai. Perché la maglia gialla è onore, è orgoglio, è privilegio, e fa la storia.

Alla firma del foglio di partenza da Ypres gli avversari di Nibali – il campione uscente britannico Chris Froome, con i suoi compagni l’australiano Richie Porte e il gallese Geraint Thomas, e poi gli spagnoli Alberto Contador, Alejandro Valverde e Purito Rodriguez, lo statunitense Tejay Van Garderen… – lo guardano, lo osservano, lo scrutano. C’è elettricità, c’è timore, c’è attesa. La pioggia spoglia, rivela, mette a nudo, a rischio, anche se i corridori indossano le mantelline per proteggersi dalla pioggia, e sotto le mantelline hanno giubbetti impermeabili per non patire il freddo. Più a loro agio sembrano gli specialisti delle classiche del Nord, abituati al freddo e al pavé, e più muscolosi, più pesanti: lo slovacco Peter Sagan, lo svizzero Fabian Cancellara, l’olandese Niki Terpstra…

Al raduno di partenza ci sono, come sempre, anche i campioni di ieri a onorare quelli di oggi: il belga Eddy Merckx, è lui che ha la bandierina a scacchi in mano, perché è lui che darà il via, poi i francesi Bernard Hinault, Bernard Thevenet e Gilbert Duclos-Lassalle, il più amato è il loro vecchio connazionale Raymond “Poupou” Poulidor, che indossa una camicia gialla (lui, che la maglia gialla, in 14 Tour de France, non è mai riuscito a indossarla neppure per un solo giorno), e “Poupou” firma autografi e si concede per i “selfie” dei suoi tifosi. E c’è anche Filippo, il re del Belgio.

Dieci minuti prima del via una campanella ordina ai corridori e al pubblico di abbandonare il villaggio e di portarsi alla partenza. Pronti, via, il via ufficioso alle 13.48 dal cuore della città medievale. Davanti, i leader delle classifiche (la maglia gialla Nibali, la maglia verde Sagan, la maglia a pois Cyril Lemoine, francese, e la maglia bianca Romain Bardet, francese), protetti fino all’ultimo istante dagli ombrelli delle miss. Dietro, tutti gli altri, confusi, uniti, silenziosi. In tutto, 194 dei 198 che hanno cominciato il Tour quattro giorni prima. I corridori pedalano ordinatamente dietro l’ammiraglia di Prudhomme. Il via ufficiale dopo una passerella di tre chilometri e mezzo per le vie della città, alle 13.57, dal cimitero militare. Qui il silenzio si fa ancora più pesante, e consapevole.

Poi, ed è una fortuna, la corsa. Chilometro zero. Striscione. L’andatura è subito forte, si va a più di 50 all’ora. Per spezzare l’attesa, per combattere il freddo, forse anche i timori, se non la paura.

Il Tour de France è la più importante e imponente corsa per i professionisti del ciclismo. Nacque nel 1903, sei anni prima del Giro d’Italia. Consisteva in sei tappe, per un totale di 2428 chilometri. Si iscrissero in 80, partirono in 59, arrivarono in 21. Vinse Maurice Garin, uno spazzacamino valdostano, che però era emigrato in Francia per trovare lavoro e, trovato il lavoro, come per ringraziamento, aveva scelto la cittadinanza francese. Garin era un faticatore inesauribile: in quel primo Tour staccò il secondo, il francese Lucien Pothier, di quasi tre ore, e il terzo, anche lui francese, Fernand Augereau, di quasi quattro ore e mezza.

Garin – un’aria più vecchia dell’età, i capelli corti e i baffi a manubrio, e un’altezza, 1,62, ideale per intrufolarsi nei camini ma anche per scalare le montagne o superare, ma sotto, i passaggi a livello chiusi – era una stella: nella prima Parigi-Roubaix della storia, nel 1896, era arrivato terzo, poi aveva vinto quelle del 1897 e 1898. E in quei giorni ottocenteschi era ancora italiano! Invece, nel secondo Tour, Garin venne squalificato perché durante la corsa aveva preso il treno… Dalla vittoria di Garin a oggi sono passati 111 anni, e il Tour si è fermato solo per le guerre: dal 1915 al 1918 per la Prima guerra mondiale, dal 1940 al 1946 per la Seconda. Poi si è sempre ingigantito, per fama, gloria, prestigio, anche soldi. Finora, cinque corridori italiani hanno conquistato otto volte il Tour de France: Ottavio Bottecchia nel 1924 e 1925, Gino Bartali nel 1938 e 1948, Fausto Coppi nel 1949 e 1952, Felice Gimondi nel 1965 e Marco Pantani nel 1998.

Dopo la vittoria di Pantani, è cominciata l’era di Lance Armstrong. Il texano ha scritto la storia: sette vittorie consecutive. Ma quando si è scoperto che, per vincere, lui e la sua squadra si erano dopati, le sette vittorie gli sono state cancellate. E pensare che Nibali credeva in Armstrong e nella sua favola: da un letto d’ospedale, operato di cancro al cervello, al podio sui Campi Elisi, padrone del mondo, almeno di quello che va a pedali.

Intanto il gruppo si è allungato. E poi già spezzato. Pozzanghere, rotaie, spartitraffico. Nibali – dorsale 41 – sa che deve concentrarsi soltanto sulla corsa, sgombrare la mente da pensieri e preoccupazioni, liberare il corpo da emozioni e timori. “Qui, oggi, non ci si può distrarre neppure per un solo istante”, ha detto il direttore sportivo Beppe Martinelli, nella riunione del mattino, sul pullman, prima della partenza. “Qui, oggi, ci giochiamo il Tour de France”, ha ripetuto Martinelli, cercando di cogliere lo sguardo dei suoi corridori e penetrare, se non nella loro anima, almeno nella loro testa. Non sono quei 2 secondi di vantaggio di Nibali sui suoi diretti avversari, ma sono quei 13 chilometri di pavé che li separano dal traguardo, e che sono rischiosi, crudeli, infidi, perfino fatali. “Qui, oggi, scriviamo la storia”, ha esclamato Martinelli alzandosi in piedi e chiudendo la riunione, convinto che la storia si faccia anche a forza di pedali.

Il primo ad attaccare è un francese, Samuel Dumoulin. “Occhio!”, urla Martinelli nella radiolina, “la miccia è già stata accesa, la corsa sta per esplodere”. E la pioggia, invece che spegnere gli spiriti, li incendia.

Nibali è circondato dai suoi compagni dell’Astana. C’è il bergamasco Alessandro Vanotti, il suo compagno di camera, magro e saggio. C’è l’olandese Lieuwe Westra, uno specialista nelle corse del Nord. C’è il danese Jakob Fuglsang, fin troppo bello per fare il corridore, che potrebbe fare il capitano, ma in un’altra squadra, e che qui a Nibali ha giurato fedeltà. C’è Tanel Kangert, un estone con la faccia pulita da ragazzino. C’è Andriy Grivko, un ucraino che abita in Toscana. Ci sono i kazaki Maxin Iglinskiy e Dmitriy Gruzdev, impenetrabili. E c’è anche Michele Scarponi, un marchigiano smilzo, allegro, scatenato, soprannominato “l’aquila di Filottrano” perché in salita va forte, qualche volta addirittura… vola. E “Scarpa”, come sempre, cerca di sdrammatizzare: “Ragazzi, ricordiamoci bene questi posti, ché l’anno prossimo veniamo a passarci le vacanze con la famiglia”.

Il secondo ad attaccare è un estone, Rein Taaramae. “Tira vento di guerra”, pensa Nibali. “Dentro!”, ordina Martinelli nella radiolina. Sembra che il comando di Martinelli sia stato ascoltato da tutti i corridori, non solo quelli della sua Astana. Infatti, nella scia di Taaramae, che ha già raggiunto Dumoulin, si lanciano i tedeschi Tony Martin e Marcus Burghardt, il colombiano Janier Acevedo, il francese Tony Gallopin, gli australiani Simon Clarke e Matt Hayman, e poi anche Westra, il compagno di Nibali. Totale: nove uomini in fuga. “E bravo il nostro olandese volante”, commenta Martinelli nella radiolina. Aggiunge: “Tu, Westra, davanti, dai cambi regolari”, “E gli altri, dietro, a ruota, ma sempre in testa al gruppo”. Ricorda: “Tutti per Nibali”. E conclude: “Oggi è vietato addormentarsi in corsa”.

Nibali studia le facce dei suoi avversari. Nel ciclismo le facce non simulano, non fingono, non nascondono: è anche per questo che la maggiore parte dei corridori usa gli occhiali scuri anche in giornate buie. Nibali studia le facce a cominciare da quella di Froome: “Oggi mi sembra ancora più magro, più bianco, più teso, perfino più sgraziato del solito”, pensa Nibali. E conclude: “Su queste strade è a disagio, in difficoltà”. Froome era caduto nella seconda tappa, porta i segni delle ferite e delle medicazioni su gomito e ginocchio, le cadute creano dubbi e certi dubbi sono difficili da nascondere o cancellare. Froome è un corridore misterioso: nato in Kenya, da ragazzo era l’unico bianco in una squadra, anzi, in un gruppo di neri. Al primo Tour de France lottava fra gli ultimi per arrivare entro il tempo massimo, e c’è stato un Giro d’Italia in cui è stato squalificato per essersi fatto trainare da una macchina, poi invece è diventato fortissimo, quasi invincibile: secondo al Tour del 2012, primo in quello del 2013.

Poi Nibali valuta Contador: “In salita è sicuro, spavaldo, spettacolare, un ballerino acrobatico, invece sotto la pioggia sembra paralizzato”. E commenta: “Anche per lui oggi sarà una giornataccia”. Contador è un fuoriclasse: ha già vinto tre Tour de France, due Giri d’Italia e due Vuelta di Spagna, anche se un Tour e un Giro gli sono stati revocati perché risultato positivo a un controllo antidoping. Lui si è difeso sostenendo di avere mangiato bistecche contaminate da farmaci, a sua insaputa.

Intanto il gruppetto dei nove fuggitivi perde i pezzi. Il primo è Acevedo: cade, si ferisce, viene ripreso. Nibali pensa: “Per lui sarà dura arrivare al traguardo”. Il secondo è Burghardt: la sua squadra lo richiama in gruppo perché ha deciso che è meglio che aiuti i suoi capitani Van Garderen e il belga Greg Van Avermaet stando accanto a loro, non davanti a loro. “Invece tu, Westra, rimani davanti, così dietro non dobbiamo tirare”, sentenzia Martinelli.

Bene così – pensa Nibali -, la fuga va”. E per un attimo disobbedisce al comandamento di tenere alta la concentrazione. La bicicletta è una macchina del tempo e della memoria: chi ha detto che pedalare aiuta a ruminare i pensieri?

Nibali ricorda quella volta, la prima volta, la prima corsa: a Sant’Antonino vicino a Barcellona Pozzo di Gotto, dalle parti di Milazzo. “Un circuito da ripetere più volte. La maglia con la scritta Vivai Pietrafitta. La bici Vetta. L’obbligo di rimanere in gruppo il più possibile. Poi quel tizio che scatta, io che lo inseguo, fino all’ultimo giro, quel tizio sempre più imbufalito, io sempre più incollato alla sua ruota, lo sprint, quel tizio primo e io secondo, ma tutti che festeggiano me come se avessi vinto io e non lui. E mio padre che mi confida che il signor Pietrafitta era così emozionato che si è fumato un intero pacchetto di sigarette”.

Attenzione: Froome è caduto”. E’ il km 29. Nibali viene avvertito da Martinelli, via radio, attraverso gli auricolari. Froome si rialza, è aspettato da quattro compagni di squadra della Sky, che lo aiutano a rientrare in gruppo. Ha una faccia grigia, grigia come la pioggia, come la strada, come il cielo.

Froome sta rientrando”, avverte Martinelli, che sull’ammiraglia siede nel posto del navigatore. Martinelli dice: “Ma si vede che ha una paura boia”. E incita: “Dacci dentro, Vincenzo”.

Vincenzo ci dà dentro. Quando un avversario cade o fora, una volta se ne approfittava per attaccare, invece adesso si è combattuti fra l’istinto dell’attacco e la ragione di attenderlo, senza infierire. Lo chiamano “fair play”, ma tutti sanno che è un concetto vago: dipende da dove succede, da quando succede, da a chi succede.

Si continua a pedalare a 50 all’ora. Si continua anche a cadere, e i tratti in pavé non sono ancora cominciati. E continua anche la fuga dei sette, che però diventano sei, cinque, quattro: Gallopin, Clarke, Hayman e Westra. “Bravo il nostro olandesone”, lo incita Martinelli. Così, dietro, Nibali può sempre risparmiare fiato, sostenuto da un altro compagno, Fuglsang.

La prima ora vola via: 49,2 chilometri. “Siamo matti, siamo tutti matti”, commenta Nibali. “Se non fossimo tutti matti, non avremmo fatto i corridori”, spiega Vanotti. “E matto sarà lo scacco che oggi molliamo agli altri”, profetizza Scarponi.

E’ una gara a selezione naturale. Alexander Kristoff, norvegese, cambia la bici. André Greipel, tedesco, soprannominato “il Gorilla”, cade. Cade anche Arnaud Démare, il campione di Francia. Cade anche il tedesco Marcel Kittel. Si rialzano, tornano in bici, ricominciano a pedalare, ma staccati. Il gruppo perde i pezzi, si sgretola, si sbriciola.

La corsa diventa un martirio, il percorso un calvario.

Altre cadute. A terra anche Tejay Van Garderen e Valverde. E mancano ancora 70 chilometri all’arrivo.

Al km 60 la fuga ha più di tre minuti di vantaggio. Sarà il massimo vantaggio della giornata.

Froome è caduto un’altra volta”, esplode Martinelli alla ricetrasmittente in ammiraglia. “Incredibile”, si lascia sfuggire il direttore sportivo, incollato a radio-corsa e al minischermo televisivo. E’ il km 85. “Stavolta non si rialza… cioè, si rialza, ma non risale in bici… si avvicina all’ammiraglia… stanno parlando… il meccanico gli prende la bici e lui sale in macchina… Froome si è ritirato”.

Il vantaggio dei fuggitivi è già sceso a due minuti e mezzo.

Nibali non ha pensieri, se non quello di lottare, di sopravvivere, di lottare per sopravvivere. Pedala, pedala, pedala. Pedala, e ogni tanto bevi. Pedala, e ogni tanto mangia. Pedala, e ogni tanto pulisci gli occhiali. Pedala, e non perdere mai di vista la strada. Pedala, e cerca sempre la migliore traiettoria. Pedala, e scegli sempre la migliore ruota. Pedala, e pedala sempre come se tu fossi una parte della bicicletta, il motore, ma anche l’anima, o come se la bicicletta fosse una parte di te, le gambe, oppure le ali. Pedala, e senti quello che ti dice il corpo. Pedala, e ascolta se il pedalare non è una musica, un ritmo, un’andatura, un’armonia, una canzone. Pedala, Enzino, pedala e basta.

Sta per arrivare il primo tratto di pavé. Temutissimo. E’ quello del Carrefour de l’Arbre, l’incrocio dell’albero. Il punto decisivo della corsa potrebbe essere proprio questo: è un falsopiano, leggermente in salita, 2100 metri di pietre irregolari e, stavolta, scivolosissime. E’ uno dei punti storici e simbolici della Parigi-Roubaix. Nibali è concentratissimo: suo padre gli ha raccontato, fino alla noia, di quando Francesco Moser si era lanciato verso il primo settore di pavé con tanto impeto da volare a terra non appena la sua ruota aveva toccato le pietre bagnate. Poi, però, si era rialzato ed era andato a vincere.

Comincia la pietraia. Le bici sobbalzano, le ruote rimbalzano, i corridori vibrano. Le pietre sono sconnesse come sulle strade consolari degli antichi romani. I corridori sembrano, forse sono gladiatori. “E’ la prima volta che la faccio in vita mia”, pensa Nibali, quasi impaurito di ammetterlo perfino a sé stesso. “Però”, cerca di incoraggiarsi, “non è poi così diverso dalle strade dove andavo da piccolo”. Strade bianche, sterrate, piene di buche e di sassi, dove era indispensabile fare acrobazie per rimanere in sella. “Finora il pavé l’ho visto sui libri o alla tv, ma da vicino, sopra, addosso, è tutt’un’altra cosa”. La terra trema, la bici trema, tremano anche i corridori. E le borracce schizzano acqua o saltano per aria e ricadono sulle pietre. E fra gli spettatori c’è perfino qualche ragazzino che, sfidando bici e moto, cerca di conquistare le borracce come un trofeo.

L’”ardoisier” – è l’addetto a segnalare i distacchi, seduto dietro un motociclista – mostra la lavagna: adesso fra fuggitivi e inseguitori ci sono due minuti.

Anche la seconda ora è volata via: la media è scesa a 47,8 chilometri orari, ma rimane altissima. Una velocità folle, se si pensa alle condizioni in cui si corre. Davanti ci sono i verdi della Cannondale, la squadra di Sagan, che vuole vincere la tappa. E il gruppo si spezza in due parti: davanti Nibali, Sagan, Contador, Bardet, Lemoine e il portoghese Alberto Rui Costa, dietro Kwiatkowski, Talansky, il francese Pierre Rolland, il lussemburghese Frank Schleck… E Valverde rientra nella prima metà del gruppo. “E’ un cagnaccio”, commenta Nibali.

Comincia il conto alla rovescia. Manca una cinquantina di chilometri all’arrivo. E comincia il secondo tratto di pavé, quello di Pont-Thibault, 1400 metri. Nibali svirgola, derapa, rischia di cadere, ma rimane fra i primi del gruppo, invece Contador e Valverde sono a disagio, tirano i freni, arretrano nella seconda parte del gruppo. Cade Andrew Talansky, americano, un altro dei favoriti al Tour dopo avere conquistato il Giro del Delfinato.

Contador e Valverde sono rimasti indietro”, conferma Martinelli.

Nibali cerca di ricordare quello che ha imparato studiando le imprese di Moser: “Non stringere troppo il manubrio, non affondare troppo le pedalate, non perdere mai di vista la strada”. Nibali cerca di fare quello che ha ascoltato dai racconti di Franco Ballerini: “Trovare quel ritmo, e quella armonia, e infine quella velocità, per poter galleggiare sulle pietre”. Nibali cerca anche di ritrovare quelle emozioni, e soprattutto quella voglia, e quella felicità, di quando andava per i sentieri, da piccolo, in Sicilia, su una mountain bike. E di quando tornava a casa, la sera, sporco e sudato, magari anche con le ginocchia e i gomiti sbucciati per una caduta, e la mamma Giovanna alzava gli occhi al cielo e sospirava, e il papà Salvatore corrugava la fronte e minacciava di segargli la bici.

Segargli la bici? Un giorno il papà Salvatore gliela segò veramente. Vincenzo aveva dieci anni quando portò a casa la pagella del primo quadrimestre, su cui era scritto: “Il ragazzo litiga violentemente con i compagni di scuola all’uscita di classe”. Salvatore – che gli amici avevano soprannominato “il Lupo” per il suo spirito anticonformista – annunciò: “Adesso ti sistemo io”. Vincenzo pensava a un castigo, come non uscire di casa, e temeva una pena, come una sberla o una cinghiata, ma il papà Salvatore aveva deciso per qualcosa di peggio. Vincenzo seguì il papà in cantina, e quando il papà aprì l’armadietto degli attrezzi e prese una sega di metallo, Vincenzo capì. Il papà Salvatore avrebbe segato la bici. Dicendo: “E noi che lavoriamo per farti studiare… Adesso ti faccio vedere io…”.

L’”ardoisier” espone la lavagna: 1’18” tra fuggitivi e gruppo maglia gialla, 30” tra gruppo maglia gialla e Contador.

Alé, alé, alé. Lo ripete Martinelli, lo dice con gli occhi Fuglsang, se lo dice anche Nibali. E’ il momento di fare la differenza. Ha 54” di distacco dai fuggitivi, ma 20” di vantaggio su Bardet e Van Garderen, e 45” su Contador. Alé, alé, alé.

Davanti Taaramae cede, e rimangono in sei: Dumoulin, Westra, Martin, Gallopin, Clarke e Hayman. Dietro cadono il belga Jurgen Van den Broeck e l’americano Talansky. E dal gruppo di Nibali evadono l’olandese Lars Boom e il belga Sep Vanmarcke. “Quei due vanno come il vento”, pensa Nibali.

Ai meno 34 all’arrivo, Martinelli ordina a Westra di rallentare e aspettare Nibali. Westra si mette subito a tirare. Ai meno 30 Boom e Vanmarcke sono ripresi, ai meno 26 si esaurisce la fuga, e il gruppo, davanti, è composto da 18 corridori. Contador ha più di un minuto di ritardo. Ai meno 17 davanti sono rimasti 12 uomini, che stanno per affrontare il penultimo tratto di pavé, quello da Wandignies-Hamage a Hornaing, 3700 metri che non finiscono mai. Westra insiste. Quando un corridore va forte, fortissimo, si dice che vada come una moto. Nibali lo vede proprio così: trasformato in una moto. E Westra fa selezione: attaccati alla sua ruota rimangono soltanto Nibali, Fuglsang, Boom, il belga Jens Keukeleire, Cancellara, Lemoine e Sagan.

I corridori hanno maschere di fango.

Meno 10 all’arrivo, ed è qui che Nibali si dice: “Enzino, ora o mai più”.

E’ asfalto. Nibali allunga. Gli tengono dietro solo Fuglsang e Boom. Gli altri mollano: spenti, sfiniti, esauriti, anche chi – come Sagan e Cancellara – non aspettava altro che queste pietre per primeggiare, e questo tempaccio per decollare.

Dai, Enzino”. Sei chilometri e mezzo di strada, e l’ultimo tratto in pavé, da Hélesnes a Wallers, 1600 metri. Boom accelera, veleggia, si allontana. Nibali e Fuglsang lo seguono, non lo inseguono.

Dai, Enzino”. Boom ha qualche secondo di vantaggio, alza le braccia al cielo, e vince: “Bravo”, pensa Nibali. Fuglsang secondo a 19”: “Bravissimo”, gli dice Nibali. Terzo Nibali, dietro a Fuglsang: “E adesso aspettiamo gli altri”. Avvolto da una coperta, rimane sul traguardo. Quarto Sagan a più di un minuto, poi Cancellara. Un altro italiano, Matteo Trentin, a 1’21”. Il tempo passa. Il tempo è dalla parte di Nibali. Arriva un gruppetto di fantasmi: c’è Tony Martin, c’è Gallopin. Sono trascorsi più di due minuti. I secondi scorrono, inesorabili. Ecco finalmente anche Contador: a 2’25”.

Interviste al volo, fra palco tv e zona mista. Boom: “La corsa più bella della mia vita”. Nibali: “Bisogna rimanere con i piedi per terra”. Westra: “Sapevo che Vincenzo avrebbe potuto farcela”. Nibali: “Bisogna vivere alla giornata, tappa dopo tappa”. Lemoine: “Tanto di cappello a Nibali”. Nibali: “Non è successo nulla, tutto può ancora succedere”. Contador: “E’ stata una giornata molto complicata”. Nibali: “Oggi è andata bene a me, domani chissà”. Sagan: “Contento di non essere caduto, ma deluso di non avere vinto”. Nibali: “Il Tour è ancora lungo, lunghissimo, e siamo appena arrivati in Francia”. Dave Brailsford, team manager di Sky: “Una tappa devastante per Froome e tutta la nostra squadra”. Nibali: “Il pavé? In certi momenti mi sembrava di essere dentro una lavatrice”. Scarponi: “Evviva, cento di questi giorni”.

Poi il podio. Mazzo di fiori e bacio delle miss per Boom, vincitore della tappa. Mazzo di fiori e bacio delle miss per Nibali, maglia gialla, primo in classifica. Mazzo di fiori e bacio delle miss per Sagan, maglia verde, primo nella classifica a punti. Mazzo di fiori e bacio delle miss per Kwiatkowski, maglia bianca, primo nella classifica dei giovani. Mazzo di fiori e bacio delle miss per Lemoine, maglia a pois, prima nella classifica della montagna. Premio per la Astana, prima nella classifica a squadre. E premio della combattività a Westra.

Interviste in sala-stampa. Giornalista: “Davvero era la tua prima volta sul pavé?”. Nibali: “Sul pavé sì, sulle pietre no. Da piccolo, sulla mountain bike, che io chiamavo ‘mauntebbai’, non esisteva più un centimetro quadrato, sterrato o accidentato, della provincia di Messina dove non avessi pedalato”. Giornalista: “C’è un segreto da rivelare”. Nibali: “Mio padre diceva sempre che la bicicletta è libertà. E spiegava che quando la vita si fa noiosa, o arrivano le preoccupazioni, per cancellare i cattivi pensieri basta saltare in sella e pedalare forte. Ed è quello che ho fatto anche oggi”. Giornalista: “A che cosa pensavi quando pedalavi sul pavé?”. Nibali: “A quello che ripeteva Albert Einstein: la vita è come andare in bicicletta, se vuoi stare in equilibrio, devi pedalare”. Giornalista: “Sei stato un eroe”. Nibali: “Gli eroi erano quelli che andavano, sono quelli che ancora lavorano in miniera. Noi siamo dei privilegiati, andiamo in bicicletta”. “Ultime due domande”, avverte l’addetto stampa del Tour de France. Giornalista: “E’ stata un’impresa?”. Nibali: “Niente confronto a quello che fece Alfonsina Strada, l’unica donna nella storia ad avere corso il Giro d’Italia, ma quello degli uomini”. Giornalista: “Una dedica a questa maglia gialla?”. Nibali: “Sempre a loro due, mia moglie Rachele e nostra figlia Emma Vittoria”.

Nibali scende dal palco, si nasconde in un angolo, estrae il telefonino e chiama casa. “Vincenzo!”. “Rachele!”. “Bravo, hai vinto”. “Ma no, sono arrivato terzo”. C’è anche la figlia, Emma. “Emma? Sono il tuo papà”. “Pa-pà”. “Emma, sono lontano, ma ti sento vicina. E ti vorrei svelare un piccolo segreto: oggi, in corsa, mi sei stata vicinissima, addosso, dentro, in tasca. Ho preso una tua fotografia, l’ho avvolta in una busta di plastica perché non si bagnasse e non si sciupasse, e l’ho messa in tasca, una delle tasche dietro, e da dietro mi hai spinto fino all’arrivo”. Nibali si asciuga la faccia – era una goccia di sudore o una lacrima sul viso? -, sale sull’ammiraglia dell’Astana, va in albergo, entra in una camera, fa la doccia, si stende sul letto, si affida ai massaggi di Michele Pallini, e finalmente si rilassa, si riposa, chiude gli occhi. Ed è qui che, finalmente, i pensieri si sciolgono in chilometrici sogni. Se il primo sogno è vincere il Tour de France, quel sogno diventerà realtà.

Testo e interpretazione: Marco Pastonesi
Sound design: Brand&Soda


Laurent Fignon, il professore

«Ah, ma io ti riconosco: tu sei quello che ha perso il Tour per 8 secondi!»
«No, signore, sono quello che ne ha vinti due».

La nuova puntata di Parole Alvento è un viaggio nell’universo dello sconfitto più famoso della storia del ciclismo. Un omaggio a Laurent Fignon, a quarant’anni dal suo esordio tra i professionisti e a pochi giorni dall’inizio del Tour de France, la corsa a cui più ha saputo legare il suo destino. Ripercorriamo la sua parabola ciclistica e non solo insieme a Filippo Cauz e Gino Cervi, curatore dell’edizione italiana di “Eravamo giovani e incoscienti”, l’autobiografia del campione parigino che testimonia il passaggio di un’epoca, la fine di un ciclismo all’insegna della spensieratezza, e forse anche l’ispirazione per un approccio al ciclismo che sta ritornando.

«Devo ammettere che non ho mai pensato che ai miei tempi fosse meglio di adesso. Era solo diverso, tutto qui. Come ogni epoca è diversa dall’altra. Credo, tuttavia, di aver attraversato la breve parentesi hippy del ciclismo. Credo persino di esserne stato uno dei principali ispiratori. Qualcuno mi ha definito un “capobanda”. Ma ero un capo curioso. Ed era una curiosa banda».

Voci: Filippo Cauz, Gino Cervi
Ospiti: Giovanni Fidanza, Laurent Galinon, Valerio Tebaldi, Stefano Zanatta
Sound design: Brand&Soda


La corsa in collina

Nella “Casa in Collina” Cesare Pavese descrive le fughe serali in collina del protagonista del romanzo per evitare i bombardamenti su Torino durante la seconda guerra mondiale. Nella lettura del libro il ricordo va ad una mia insegnante della scuola media che era solita raccontare delle sue fughe nella collina torinese durante la guerra, anche lei per evitare le bombe. Quindi fin da piccolo ho vissuto con un'immagine, un’idea di una collina torinese protettiva, materna, sicura.
Poi il caso volle che venni ad abitare proprio ai piedi della collina torinese, presente ogni mattina come sfondo alla mia colazione. La luce che passa tra i campanili di Superga vale più dell’orologio al polso per sapermi regolare con gli orari.

Pochi forse sanno che la collina torinese è stata dichiarata assieme al parco del Po “Riserva di Biosfera italiana UNESCO” all’interno del programma “Man and Biosphere”.

L’area è prevalentemente agricola, ma ricca anche di boschi e con una presenza urbana non ancora aggressiva. Fino all’arrivo della pandemia da Covid erano pochi i torinesi che si avventuravano nei sentieri e boschi a ridosso del centro città, molti invece i cicloamatori in bici da corsa o mtb.
Con la pandemia e il divieto di uscire dal territorio del proprio comune, la collina è diventata oggetto del desiderio di scampagnate in cerca di libertà e natura dopo il confinamento.

Le cartine dei sentieri della collina sono andate a ruba, ma soprattutto è rinato l’amore tra la collina e la città. La collina, che fa da sfondo alla città, è sempre lì pronta a regalarti momenti di relax dallo stress cittadino.
Finalmente quest'anno per la seconda volta nella sua storia il Giro percorre quelle strade. La prima volta fu nel 1961, in occasione del centenario dell’Unità d’Italia, fu organizzata una tappa a Torino in cui era prevista la salita dell’Eremo dei Camaldolesi passando da Villa della Regina, ma mai è stata sfruttata in tutta la sua potenzialità ciclistica prima di quel sabato 21 maggio.

C'è stato un cambio di percorso rispetto al disegno originale che non ha scalfito il nostro entusiasmo, anche perché il secondo circuito era solo poco meno duro della prima versione e aggiungeva il muro micidiale di Strada della Vetta e come veri e propri tifosi si facevano discorsi scaramantici: una serie di contro-gufate per esorcizzare la nostra fremente attesa.

Finalmente il 21 maggio arriva.
Di buon mattino decido di percorrere il circuito in scooter, pensavo in un primo momento di farlo in bici, ma avrei compromesso la possibilità di pranzare con un amico.

La luce dell’alba, già calda, rendeva luccicanti i prati e le piante; nei camper già appostati il silenzio dell’ultimo sonno mattutino; i primi camion dell’organizzazione iniziavano a scaricare le transenne e gli archi lungo il percorso.
Stava iniziando la vestizione della collina: tutto sarebbe dovuto essere perfetto.

A metà mattinata ancora non ho deciso dove seguire la tappa. Il primo progetto era un pic-nic al Parco del Nobile con la famiglia, ma la lunga salita a piedi con le borse del cibo sotto un caldo afoso come non mai ci ha fatto desistere.
Fortunatamente ho l’intuizione giusta, portare lo scooter dentro la zona rossa del circuito prima che questo venga chiuso al traffico.
Pranzo con mio figlio e un amico al seguito del Giro: non si parla che della tappa e di quello che può succedere.

Mai ho azzeccato un pronostico, ma una birra fresca all'ora di pranzo deve avermi ispirato per bene. Racconto di quanto possa essere decisiva la salita che porta da Revigliasco all’ingresso del circuito del Parco della Rimembranza, del caldo infuocato che ci sarà lì e di come volendo una squadra possa far scoppiare proprio in quel punto la corsa. -La Bahrain? La Ineos?- mi chiede l'amico -No, la Bora- rispondo.
E sapete com'è andata, no? La corsa scoppia a 80 km dal traguardo grazie proprio alla squadra del futuro vincitore del Giro; una corsa che ci regalerà distacchi e spettacolo come e forse più di un tappone dolomitico.

Intanto dopo pranzo mio figlio ed io raggiungiamo lo scooter e iniziamo a risalire la collina. Il primo intento è di salire a strada del Nobile, da dietro, ma la polizia ed un volontario alpino ci impediscono di fare l’ultimo tratto a piedi.
Non tutto il mal vien per nuocere. Non ci avevo pensato, ma il secondo tratto della salita che porta all’eremo è libera, da lì raggiungere la strada della vetta ci sarà circa un chilometro a piedi.

Rimontiamo in scooter, ancora delusi ma fiduciosi, e partiamo. Lungo la salita vedo ciclisti e pedoni sudati fradici risalire la strada.
Quanto grande può essere la passione per il Giro, da rischiare un collasso su una salita in una giornata afosa che nemmeno a luglio?! Pantaloni inzuppati, maglietta bagnata incollata, gocce di sudore sulla fronte, ma il passo in salita non cede, non manca molto al passaggio!
Mio figlio e io siamo più fortunati, ma tocca anche a noi farci la nostra bella sudata. Lascio lo scooter su un piccolo piano vicino ad un passo carraio, prendiamo la bottiglia dell’acqua e si inizia a salire.

Raggiungiamo Strada della Vetta, l’inferno, il punto più duro di tutta la tappa, forse la pendenza più dura di tutto il Giro 2022.
La folla è enorme, non è nemmeno scontato trovare qualche centimetro a bordo strada libero.
Dopo tanti anni di corse viste dal vivo, scelgo strategicamente l’ultimo tratto duro della salita. In questo punto, dopo che la salita ha fatto gran parte della selezione, è più facile vedere i corridori sgranati uno a uno oppure in piccoli gruppi.
Due battute con i vicini, regalare un po’ d’acqua a chi l’aveva finita e poi cellulare in mano a seguire la diretta.
Dietro di me si forma un capannello di appassionati, non tutti esperti di ciclismo, ma sinceramente presi da questa tappa.
I corridori sono sulla panoramica, rotonda Margaria, manca poco! Ripongo il cellulare, niente foto o video. Voglio godermela all’antica, senza l’ansia del ricordo, di una foto sbiadita, di un video mosso. I migliori arrivano. C’è Vincenzo Nibali tra loro e lo incito alla vecchia maniera. Gli urlo un lungo “Vai Vincenzo, forza!” con una grinta pazzesca.
Lui mi vede e mi fa un cenno con la testa - almeno così mi piace pensare - in realtà parlava a se stesso e alla sua fatica. Poi si fa il tifo per tutti, nessuno escluso. Un tributo a Valverde con uno spagnolo con la maglia di campione del mondo Movistar che gli corre accanto per qualche metro. Il giusto quadro che mi porterò dietro come uscita di scena di un fuoriclasse.
Al primo passaggio vedo ancora volti lucidi, tranne il povero Julius Van den Berg, che a mandibola aperta e storta disegna sul suo volto una smorfia da urlo di Munch.

Non mancano domande tipo: “Tu che li conosci, chi è questo?” Ovviamente non è facile rispondere, alcuni li riconosco, altri li manco completamente. Primo passaggio auto di fine corsa e nuovamente si torna al cellulare.
Nibali è ancora tra i migliori. Nel primo pomeriggio avevo ricevuto un messaggio da mio cognato “Vedo Nibali favorito”, tra di me ho pensato “Forse mio cognato segue poco il ciclismo ultimamente, preso dal suo Milan che sta soffiando lo scudetto alla mia Inter”.
Invece Nibali è ancora con i migliori. Io amo lo sport perché è giusto che vinca il più bravo e non il più forte, altrimenti è inutile gareggiare.
E oggi Vincenzo è davvero bravo, gestisce i tratti duri, tira fuori tutta la sua esperienza, controlla i ragazzini che lo affiancano come un fratello maggiore alla prima uscita serale del minore.

Al secondo passaggio Nibali è staccato di qualche metro da Carapaz e Hindley. Gli urlo, lo so sono ingenuo ma l’istinto mi ha detto così, -li riprendi subito perché sopra spiana!- Come se lui già non lo sapesse.
Al passaggio di Landa mulino il braccio velocemente, come se lo stessi tirando su con una corda. Un poeta si aiuta sempre!
Sempre più sgranati passano il resto dei corridori, alcuni in solitario, altri in coppia, spesso della stessa squadra, per incoraggiarsi.
Un bambino è preso di mira dai corridori per il regalo della borraccia. Lui è felicissimo, così tutti noi con lui.
Gli consiglio di non tenerla in mano, altrimenti non ne riceverà altre. Lui con uno sguardo sveglio capisce al volo, lascia la borraccia al nonno e riprende posizione. Verrà premiato altre due volte.
I due gruppi, quello di van der Poel e poi, dopo qualche minuto, quello di Démare sembrano soldati al ritorno dal fronte, con poca voglia anche di salutare e preoccupati solo del tempo massimo.

Infine passa di nuovo Van Den Berg, sembrava impossibile ma è avvenuto, la mandibola ancora più storta, ora tutto il corpo si contorce sulla bici, sta dando tutto! Da domani tiferò per lui!
Chi fatica di più e non molla è il vero campione di una corsa come il Giro. Non è retorica, guardate i loro volti, le loro smorfie, i tendini affilati e capirete che non c’è nulla di retorico in questo. Poi se avete sofferto una crisi in bici su una salita, sarà più semplice capirlo e rivivrete con orgoglio quel giorno in cui non hai mollato (sul Finestre, per quanto mi riguarda).
La macchina di fine corsa è passata, si riprende il cammino verso casa.
Il caldo è meno opprimente rispetto a prima, tutti sorridono, qualcuno si ferma a prendere un gelato all’Eremo dove una gelataio da strada ha parcheggiato la sua ape.
Scendiamo a Torino desiderosi di una buona birra per cancellare l’arsura e sentire e leggere subito i commenti della tappa.
Sono orgoglioso delle ”mie” colline, hanno fatto vedere al mondo cosa valgono. Speriamo RCS le sappia valorizzare a dovere, magari facendo della Milano-Torino, la vera decana, una corsa da sogno con un circuito in collina simile a questo del Giro.
Un mondiale? Perché no. Ma avere una corsa spettacolare come questa ogni anno è il mio desiderio.

Con lo scooter taglio per Val San Martino, la mia valle preferita della collina, amata anche da Salgari, a tal punto che la scelse come luogo dei suoi ultimi attimi di vita.
La temperatura è più primaverile qui e gli odori dei fiori si sentono bene. Il Giro è passato, la festa di Maggio. Sarebbe stato perfetto se avesse vinto Nibali, ma è stato bello così. Un quarto posto, conquistato con classe e fatica, è la migliore metafora della giornata.
La materna collina ci ha accolto, entusiasmato, protetto da un sole cocente e ci ha regalato l’ennesima lezione di vita: non c’è età per smettere di pedalare e divertiti in bici e anche se non arrivi primo, qui sarai sempre felice, affaticato, protetto.

Per Alvento magazine - Kristian Perrone
Foto Daniele Molineris


Lost in Tuscany

«Pedalare in Toscana è come mangiare la pasta al sugo della mamma. L’hai fatto mille volte, però poi capita il periodo che per un po’ non riesci a tornare a casa, oppure quello in cui hai la fissa dell’etnico, in cui hai voglia di quella cucina un po’ da fighetto e non la mangi per un po’. A un certo punto torni a casa e al primo maccherone ti dici che – sticazzi i cuochi stellati – quella è la cosa più buona del mondo.
Il Tuscany Trail è un bel piatto abbondante di pasta al sugo della mamma. Abbondante sì – per i chilometri, ovviamente – però di quelli che ci fai pure la scarpetta e se fossero avanzati due maccheroni nella pentola non ti tireresti di certo indietro. Ma andiamo con ordine e usciamo dalla metafora, perché comunque poi a rimanere in cucina toccherebbe spostarsi su pici, fiorentina e cantucci e andrebbe a finire che di bici se ne parlerebbe un’altra volta».Questa è la descrizione di Federico Damiani, su Alvento 16.
Quest’anno ci siamo andati proprio per realizzare una puntata del nostro podcast!

3.000 persone da tutto il mondo, per pedalare sulle strade della Toscana in uno dei trail più partecipati al mondo. 460 km e 6.600 metri di dislivello di cui il 66% su strade sterrate.

Abbiamo pedalato il Tuscany Trail in quattro giorni per raccontarlo in presa diretta e trasferire le impressioni live dei partecipanti e degli addetti ai lavori direttamente dalla strada!

Voce (e pedalata): Claudio Ruatti
Sound design: Brand&Soda


Unbound

Mentre l’UCI cerca di capire come, dove e quando fare un mondiale Gravel è opinione comune che Unbound sia la gara più importante al mondo quando si parla di strade sterrate.
Lo scorso weekend i più forti atleti gravel (e non) al mondo si sono dati appuntamento ad Emporia, Kansas, per darsi battaglia e celebrare un weekend di ciclismo e divertimento allo stato puro.
Circa 5000 i partenti, divisi su tre distanze di cui quella da 200 miglia (330 km) è indubbiamente l’evento principale del weekend. Al via nomi di spicco come Lachlan Morton, Nathan Haas, Peter Stetina ma anche outsider provenienti da altre discipline come Cameron Wurf e Ashton Lambie. Per la prima volta, anche un buon gruppo interessante di europei oltre al solito Laurens Ten Dam. Mattia de Marchi e Ivar Slik per fare due nomi.
La gara è stata durissima, complicata dai forti temporali che hanno trasformato le lunghissime strade dritte sulle colline in fiumi di fango nella seconda metà del tracciato. Mattia de Marchi e Laurens Ten Dam hanno provato il colpaccio da lontano, prima di essere ripresi e lasciare spazio a quello che restava del “gruppo”. In un finale strettissimo, ad avere la meglio è stato Ivar Slik: una prima volta quasi storica per un atleta europeo.
La festa è per tutti, perché per i più la vera sfida è portare a termine uno dei percorsi a disposizione, che sia quello da 200, da 100 miglia o da 350. Festa e show come solo in America si sa fare, con pubblico in partenza e all’arrivo degno di una gara World Tour. Poi domenica mattina tutto ritorna alla normalità di un modesto paesino di 25000 anime in mezzo ai campi e alle colline del Kansas.


Black Boy Fly

È stato il più grande campione afroamericano della storia del ciclismo, uno del primi campioni mondiali di velocità su pista, un’icona che va ben oltre l’ambito sportivo ma che per decenni ha finito per essere dimenticata.

La quarta puntata della seconda stagione di Parole Alvento è dedicata a Marshall ‘Major’ Taylor, in occasione dell’uscita di Black Boy Fly, il nuovo libro della collana Pagine Alvento.
Un viaggio nel ciclismo dei pionieri e nella cultura afroamericana, tra velodromi, corse e musica. Un racconto a tre voci, con Marco Ballestracci, autore di Black Boy Fly, Gino Cervi, curatore di Pagine Alvento, e Luca Mich, storyteller ed esperto di cultura black.

Voci: Marco Ballestracci, Gino Cervi, Luca Mich
Sound design: Brand&Soda


1909, primo Giro di ruota

Testo e interpretazione: Marco Pastonesi
Sound design: Brand&Soda

Due e cinquantatrè. Di notte. La notte del 12 e del 13 maggio, ormai 13 maggio, del 1909. Milano, Rondò Loreto. La zona nord della città. Centoventisette corridori ciclisti – a quel tempo si chiamano così per distinguerli dai corridori podisti – danno il primo colpo di pedale. Il primo colpo di pedale della prima tappa del primo Giro d’Italia. La prima lettera di una storia infinita, la prima lettera di un’appassionata dichiarazione d’amore, la prima lettera di un romanzo rotondo, sudato, avventuroso, alpino e appenninico ma anche lacustre e marino, urbano e rurale, imprevedibile e ancora misterioso, la prima lettera di una divina commedia umana.

Ma non si può raccontare il Giro d’Italia, innanzitutto il primo Giro d’Italia, senza raccontare “La Gazzetta dello Sport”. Che lo organizza allora, che lo organizza ancora adesso. Il primo numero esce tredici anni prima, venerdì 3 aprile 1896. Non si chiama ancora “La Gazzetta dello Sport”, ma “Il Ciclista e la Tripletta” (che qui non significa tre gol in una partita, ma indica una bicicletta a tre posti), due testate e due giornali che si fondono in uno solo. La prima pagina – a cinque colonne, titoli a una colonna, senza disegni o fotografie, soltanto testo – è interamente dedicata al ciclismo. Si presenta la riunione in pista a Milano, organizzata dalla Forza e Coraggio al Trotter, con i più forti specialisti italiani, da Pontecchi ad Alaimo, da Pasini a Tommaselli e Momo. Si presenta anche la corsa su strada Milano-Lecco-Erba, 70 chilometri, e si aggiunge che contemporaneamente si organizza una gita turistica Milano-Erba. Si propone il parere di Tom Eck, un allenatore americano passato dall’ippica al ciclismo, cioè dai cavalli ai corridori, compreso il formidabile Johnnie Johnson (qui peraltro ribattezzato Antonio), che fa parte di un sedicente World Team, la squadra mondiale, con cui si esibisce negli Stati Uniti e in tournèe in Europa, da Londra a Parigi. Si annuncia la sfida lanciata da tre milanesi – De Peccati, Pereda e Delmont – che intendono cimentarsi in una corsa ciclistica di mille chilometri, sempre nel ciclodromo del Trotter a Milano, scommettendo, ciascuno, 250 lire. E si precisa che due dei tre contendenti, De Peccati e Pereda, si sono già sfidati un anno prima, in una giornata di freddo e pioggia, ma – come si scrive – “al tour de force d’allora mancò quella garanzia di controllo e di disposizioni che occorrono per dare serietà all’avvenimento”. E si danno i risultati di una riunione, sempre ciclistica, disputatasi a Londra nell’Agricultural Hall, trequarti di miglio per gli uomini, mezzo miglio per le donne. Sulle altre tre pagine: ippica, scherma, tiro a segno, tiri a volo (compresi tiro alle quaglie, tiro alla tortora e tiro al piccione), sport pedestre (cioè corsa a piedi), ginnastica, lawn-tennis (cioè tennis sull’erba), pattinaggio, alpinismo, automobilismo e caccia. E anche la pubblicità, che però riguarda soltanto il ciclismo.

La Gazzetta dello Sport” ha dunque quattro pagine, formato lenzuolo, carta di un verde pallido, smunto, anemico, prezzo di ciascun numero cinque centesimi, prezzo dell’abbonamento da aprile a dicembre quattro lire, due uscite settimanali, il lunedì e il venerdì, cioè dopo gli avvenimenti sportivi che a quel tempo si tengono sempre la domenica e il giovedì. La redazione è a Milano, a due passi dal Duomo, in via Pasquirolo 14, nella sede della società editrice Sonzogno. Le macchine da stampa sono quelle del quotidiano “Il Secolo”, giudicate “le più potenti rotative che abbiamo in Italia”, capaci di stampare 40 mila copie all’ora. La prima tiratura è di 20 mila copie. 20 mila copie che andranno completamente esaurite.

Dodici anni più tardi, è il 1908, per incrementare il numero delle vendite del giornale, nasce l’idea del Giro d’Italia. L’idea è rubata. E’ l’agosto 1908 quando trapela la notizia di un Giro ciclistico d’Italia, a imitazione del già esistente Giro automobilistico d’Italia, che il “Corriere della sera” con la collaborazione del Touring club italiano (che nasce eallora si chiama ancora Touring club ciclistico italiano) e della Bianchi allestirebbe per elevare le vendite del giornale. Il triumvirato convocato d’urgenza nella sede della “Gazzetta dello Sport” – uno dei soci Tullo Morgagni, il direttore Eugenio Costamagna, il cui pseudonimo è Magno, e il responsabile della redazione ciclismo Armando Cougnet – decide di precedere i rivali sparando la notizia in prima pagina. Al resto ci avrebbero pensato: regolamento, percorso, iscrizioni, squadre e corridori. Si può ben immaginare: non è stato facile. Ma nove mesi dopo sboccia il primo Giro: otto tappe, la prima partenza e l’ultimo arrivo a Milano, sede del giornale, in tutto 2447 chilometri e 900 metri. E poi la punzonatura: nel Salone del Giardino Teatro Margherita all’Albergo Loreto di Milano. Il ritrovo: nell’Albergo Loreto. La partenza: dal Rondò Loreto dalla parte di viale Monza. Gli iscritti: 166. E i partenti: 127, di cui cinque stranieri, quattro francesi e un austriaco, che viene da Trieste, che fa ancora parte dell’Impero asburgico, cioè austro-ungarico. La prima tappa: da Milano a Bologna, 397 chilometri. Il saluto: del dottor cavalier Carlo Cavenaghi, presidente della Uvi, l’Unione velocipedistica italiana. Il mossiere: Gilbert Marley, inglese, poi milanese, poi campione italiano di biciclo e triciclo nell’Ottocento, poi fondatore dell’Unione sportiva Milanese, carte e biliardo, ciclismo e calcio, poi cronometrista, il re dei cronometristi. Il giorno, anzi, la notte, già detto, quella del 13 maggio. L’ora, già detto: le 2.53 di notte. Non si corre a tempo, ma a punti: vince chi meno ne fa (un punto al primo arrivato, due al secondo, tre al terzo e così via). C’è un’altra premessa da fare, ed è doverosa: i francesi ci hanno preceduto, il primo Tour de France è scattato sei anni prima, nel 1903.

Ma torniamo al nostro Giro. Il giorno prima del pronti-via “La Gazzetta dello Sport” apre il trisettimanale con il titolone “La grande battaglia tra i giganti della strada”. E nell’editoriale “Il congedo” si declama, militarmente e retoricamente: “Corridori!! L’ora è prossima, la battaglia incombe. Gli amatori del ciclismo di tutte le nazioni vi ammirano e attendono. Ognuno ha fra di voi il suo favorito, la sua speranza. Come corridori italiani avete il gran compito di difendere i colori della nazione. Come forestieri ed ospiti, troverete fra i nostri campioni avversari degni ma leali e cortesi”. E ancora: “Corridori! Concorrenti tutti! Più che il premio vi sia incitamento l’amore puro per lo sport. In questo amore, in questa passione sana e sincera, voi troverete le forze per vincere, per trionfare”.

Chi sono questi concorrenti? Fra gli “inscritti” (con la enne) spiccano il tre volte campione italiano (e a quel tempo campione in carica) il tortonese Giovanni Cuniolo, l’astigiano Giovanni Gerbi soprannominato il Diavolo Rosso ricordato e cantato anche da Paolo Conte, il pavese Giovanni Rossignoli detto Baslot per il recipiente, la scodella, con cui il padre – oste – versa il vino nella sua osteria, e Luigi Ganna, muratore – magutt, in dialetto – varesotto di Induno Olona, allenatissimo perché ogni giorno fa sessanta chilometri per andare a lavorare a Milano e altri sessanta per tornare a casa. Fra gli “inscritti” ci sono anche i migliori “routiers” francesi, da Petit Breton (è il soprannome che si è dato Lucien Maze per non farsi riconoscere dal padre, contrario al ciclismo, negli ordini di arrivo) a Louis Trousselier, per tutti semplicemente Trou-Trou. Fra gli “inscritti” i corridori ciclisti che fanno parte delle squadre, le squadre delle case costruttrici di biciclette, e i corridori ciclisti definiti dilettanti, isolati, individuali e addirittura individualisti, e ancora peggio, diseredati, costretti ad arrangiarsi da soli nell’assistenza meccanica, ma anche nel mangiare, bere e dormire, nel sostenere le spese, tanto che molti devono ricorrere all’aiuto economico – collette, adesso si direbbe “crowdfunding” – dei concittadini, o più semplicemente, gli amici del bar.

Alle 2.53 lo storico via. “I piedi premono, i garretti scattano, il piccolo esercito di ciclisti si stacca – è la cronaca della “Gazzetta dello Sport” -. La folla scoppia in un lungo ululato di ammirazione, di entusiasmo, di augurio, di gioia. Un lampo, una luce bianchissima, abbagliante che tutto avvolge e illumina come di pieno meriggio. La schiera ciclistica sembra per un istante lunghissima, infinita, eborme; la folla stacca nel buio che la circonda in tutta la sua urlante compattezza variopinta”.

Neanche il tempo di accendere le luci che per qualcuno già si spengono. Ancora “La Gazzetta dello Sport” scriverà in toni angosciosi: “Il Primo Giro d’Italia ciclistico si è iniziato con un incidente drammatico”. Poi tranquillizza: “Non c’è sangue, non ci sono morti, ma non per questo il dramma è meno intenso e meno commovente, non per questo meno fosca vi appare l’ombra di ciò che gli antichi chiamavano ‘fato’ – che i francesi hannosportivamente volgarizzato sotto il nome di ‘guigne’ – e che a Napoli traducono ‘jettatura’”. Gerbi, il Diavolo Rosso, millcinquecento metri dopo il pronti-via, è coinvolto in una caduta, forse contro un carretto, provocata da un bambino che attraversa la strada e che genera un groviglio di uomini e biciclette. Tutti si rialzano, anche Gerbi, ma non la sua bici. “La Gazzetta” riprende con enfasi: “Il piccolo gioiello d’acciaio, accuratamente miniato e irrobustito per la battaglia, giacerà solo, nella polvere, con una ruota spezzata quasi senza rimedio. E sopra di esso, spezzato, pure, un audace sogno di gloria – affranta un’energia delle più invidiate e più temute – piangente, di dolore e di rabbia, il Campione”.

Gerbi, è lui “il Campione”, non ha la possibilità di sostituire la ruota e ripartire, come succede oggi, perdipiù con l’assistenza dell’ammiraglia e del meccanico. Ma deve tornare, a piedi, alla partenza, cercare un’officina e riparare da solo la ruota. Un problema, data l’ora. Tant’è che deve camminare un altro chilometro e mezzo prima di trovare un meccanico che lo accolga e, senza intervenire con le mani, lo consigli con le parole. Morale: tre ore più tardi, mentre il gruppo è già a Brescia, Gerbi ricomincia il suo Giro dal Rondò Loreto. “La macchia rossa – tinteggia “La Gazzetta dello Sport” – riprende la via, che poteva essere della vittoria e che diventa quella del Calvario”. E subito commenta: “Gerbi ha avuto molte colpe, che oggi non si richiamano per rinfaccio”. Non a caso era soprannominato “il Diavolo Rosso” per i suoi diabolici trucchi. Poi una citazione evangelica: “Molto sarà perdonato a chi molto ha amato”. Infine la dura realtà: “Ma egli, in questa sua ‘stagione nera’ ha subito la più terribile delle espiazioni. Mentre scriviamo la corsa continua. Da ogni parte, per telegrafo, per telefono, ci arrivano lo stupore, il dolore, la tristezza infinita, perché Gerbi non c’è, perché Gerbi non passa. Bergamo, alle 7,40, tre ore dopo il gruppo di testa, lo accoglie col plauso della più affettuosa simpatia, lo incoraggia, lo spingerebbe, se potesse…”.

La corsa è vera. Ai rifornimenti c’è sempre qualcuno che prova ad attaccare. Dopo Lonato il gallaratese Domenico Ferrari ripara una gomma, si specifica, “penosamente”. A Desenzano, sopra un carro, una fanfara accoglie il gruppo. Prima di Peschiera Petit Breton cade e si lussa un braccio, ma si rimette in sella e ai pedali, e insegue. Cuniolo confessa di essere ammalato, fatica, si stacca. Trou-Trou cerca di andare in fuga, ma viene controllato da Ganna e da Eberardo Pavesi. Fa caldo: il forlivese Attilio Zavatti – documenta “La Gazzetta dello Sport” – vede una ragazza con una secchia d’acqua, balza di sella, corre alla giovinetta, le toglie la secchia e vi tuffa la testa tra le più matte risate degli astanti”. L’arrivo, dopo 397 chilometri, è allestito nell’ippodromo Zappoli di Bologna, la pista in terra battuta, e siccome piove a dirotto, il fondo è molle, quasi fangoso e insidioso soprattutto per chi è costretto a fare la volata larga, all’esterno. A vincere, in 14 ore, sei minuti e 15 secondi, alla media di circa 28 chilometri all’ora, è il romano Dario Beni. Ultimo, Gerbi, a tre ore e mezzo dal primo. Quando Gerbi arriva a Bologna, è ormai notte. L’ippodromo è stato chiuso. Per lui il traguardo è diverso da quello di tutti gli altri, sistemato fuori dall’ippodromo, davanti a un’osteria, l’unico punto illuminato del quartiere.

Ma chi è Dario Beni, il primo vincitore di tappa al Giro d’Italia? Quattro giorni prima della grande partenza del Giro da Milano, Dario Beni è a casa sua, a Roma. Andare in treno a Milano sarebbe la soluzione più ovvia, ma Beni non ha i soldi per acquistare il biglietto e deve campare una quindicina di giorni fuori da casa. Quindi, in bici. Seicento chilometri, in due tappe, la prima da Roma a Firenze, la seconda da Firenze a Milano, prima la Cassia, tutta su e giù, poi la via Emilia, diritta e polverosa, da condividere con altri tre corridori romani. Beni, vent’anni, ha ottenuto la bici – gratis – da un rappresentante della Bianchi a Roma, e la collauda in queste due tappe – per così dire – di riscaldamento. I quattro si arrangiano come possono. In Toscana accade quello che loro definiscono “inevitabile”. Alla fine del pranzo, robusto, anche perché a pancia vuota non si pedala, i quattro avviano un’animata discussione su chi tra loro dovrà pagare. Visto che l’accordo era impossibile, chiedono all’oste di fare lo starter di una particolare volata: l’ultimo sarebbe andato alla cassa. Inorgoglito ma anche ingenuo, l’oste abbassa la salvietta e dà il via alla sfida, salvo accorgersi che i quattro non hanno alcuna intenzione di tornare indietro.

Quei seicento chilometri da Roma a Milano si rivelano allenanti. Nell’ippodromo di Bologna Beni parte lungo, infilandosi fra Trousselier che è scattato e il bordo della curva, tiene duro per trecento metri, in testa, alla corda, e vince quasi per distacco. E poi si lascia andare: grida, urla, esulta. Vede gente che corre verso di lui. Si esalta. Ma quando gli cantano “Viva Ganna, viva Ganna”, capisce che lo hanno confuso con il vincitore della recente Milano-Sanremo. Si riprende dalla delusione quando viene avvicinato dai dirigenti della Bianchi. A bordo di un’automobile viene portato in un grande albergo a Bologna, bagno caldo, massaggi, cena, infine una banconota da mille lire e la promessa di uno stipendio di 250 lire al mese. Beni non si dimentica di Ottorino Celli, 19 anni, con cui ha diviso l’alberghetto a Milano in corso Venezia: “E’ mio cugino e il mio gregario”. Alla Bianchi fanno le cose in grande stile. Ingaggiato anche Celli, con uno stipendio di 125 lire al mese. Affare fatto. Beni fa i conti: per la vittoria di tappa ha guadagnato anche mille lire per il chilometraggio e trecento lire di premio tappa. “Commendatore – dice al direttore tecnico della Bianchi – i soldi, tutti sti soldi, li tenga lei, me li darà a Milano quando vincerò ancora”.

La seconda tappa va da Bologna a Chieti, 378 chilometri e mezzo, primo il redivivo Cuniolo. La terza da Chieti a Napoli, i chilometri diminuiscono, quasi 243, ma le condizioni delle strade peggiorano, primo il tenace Rossignoli. La quarta tappa va da Napoli a Roma, 228 chilometri e 100 metri, primo Ganna.

Un prezioso libriccino, s’intitola “Cronache del primo Giro d’Italia”, Edizioni La Vita Felice, ripubblica i pezzi della “Gazzetta dello Sport” di allora. Le note, soprattutto le più semplici, sono illuminanti, e anche divertenti per la loro ingenuità. Per esempio: “Tutte le equipes, per qualche disgraziato incidente, ne escono ferite, smembrate. Le ferite però non sono inguaribili”. Per esempio: “Gli umili, quelli che compiono il Giro ‘en promenade’, passano pressoché inosservati: tutta l’attenzione della folla è rivolta ai grandi nomi”. Per esempio: “Le simpatiche cittadine romagnole ci hanno tutte preparato una accoglienza trionfale. Si lanciano migliaia di cartoline allegoriche al Giro d’Italia e noi ci divertiamo al getto come a una battaglia di fiori”. E ancora: “Al lancio di foglietti multicolori si unisce quello dei fiori, veramente, e dalle finestre sciami di signorine salutano e inneggiano, sorridendoci e sventolando i fazzoletti”. I giornalisti assistono e partecipano a momenti emozionanti: “Gaioni ci chiama disperatamente, ma non possiamo essergli pietosi”, “Ceccarelli si sente male e vuol prendere la ferrovia. Ma il poveraccio non ha soldi. Gli do venti lire. Voglio sperare che siano poche queste defezioni, altrimenti…”, “Alla sommità della salita (350 metri) troviamo l’amico Banfi. Egli ci domanda sorridendo con che treno si parte per Napoli. Poi ci dice di voler ritornare a Chieti, perché la tappa è troppo dura”, “Inseguiamo il veterano Nanni Enrico di Bologna, un simpaticissimo routier. Ha quarantaquattro anni ed è padre di quattro figli. Scende filosoficamente, allargando le gambe. Buona fortuna, nonno!”, “Ferrari Domenico rimonta a raccattare la pompa che ha perduto”, “Como scarta violentemente e minaccia di andarsi a schiacciare contro un muro. E’ un urlo di paura e raccapriccio. Fortunatamente riesce a frenare in tempo, con molta energia, e si salva per miracolo. Tuttavia cade, e si rialza leggermente contuso”. C’è anche chi fa il furbo: alla partenza da Napoli, quarta tappa, Giuseppe Brambilla da Gorla viene squalificato perché beccato mentre prende il treno nella Bologna-Chieti, seconda tappa. Anche la giustizia sportiva ha i suoi tempi. Ma Brambilla non ci sta, protesta, contesta, infine minaccia i delatori: “Quando passerà quello che m’ha denunciato gli spaccherò una bottiglia sulla testa”. Giustamente preoccupato, un ispettore di Pubblica Sicurezza allontana Brambilla, lo chiude in una stanza guardato a vista dai carabinieri e lo libera un’ora dopo la partenza. E il vecchio Nanni, anche se estromesso dalla classifica perché giunto al traguardo fuori tempo massimo, parte da Napoli con gli altri, perché vuole almeno arrivare – chissà perché – ad Aversa.

La corsa è un’orgia di incidenti, cadute, forature. Anche di bestemmie. “Dio fauss, due gomme”, si sfoga il torinese Luigi Chiodi. Si corre per vincere, per arrivare, anche per sopravvivere. Davanti a una cascina ci sono tre bici, i concorrenti sono dentro a lavarsi e rinfrescarsi e rifocillarsi. Annibale Magni, milanese, 45 anni, il più vecchio in gara, procede solitario. Un giornalista della “Gazzetta” gli grida “forza!”, Magni gli risponde in milanese: “Con comod vegni anca fina all’Arena”, con comodo arrivo anche fino all’Arena, l’Arena di Milano, il traguardo finale. Intanto l’arrivo a Roma è caotico. “Un mare umano – Armando Cougnet registra sulla “Gazzetta dello Sport” – e uno spazio strettissimo per il passaggio dei corridori”, “Al traguardo vi sono ben ventimila persone. Il servizio di pubblica sicurezza quantunque abbondante, è insufficiente a contenere l’entusiasmo della folla, collettivamente stupida”, “Quasi tutti si fanno lavare e si sdraiano sul letto, o si fanno fare il massaggio e la doccia”, “Una vera gragnuola di scoppi di gomme ha modificato un po’ la lotta ultima. Ma questi sono pure gli inevitabili incerti delle gare su strada”. Cougnet conclude salomonicamente: “Il ‘guignard’ (lo sfortunato) d’oggi è il fortunato di domani, e viceversa”.

Siamo a metà dell’opera. Mancano quattro delle otto tappe. La direzione della “Gazzetta” e del Giro non nasconde qualche timore: se “da Milano noi abbiamo avuto una partenza imponente, meravigliosa, davanti a diecine diecine di migliaia di persone accorse all’epico spettacolo”, “sapranno Firenze, Genova, Torino essere degne della sorella, più di quello che le altre città del Giro non siano state fino ad oggi?”. Ma sì, lo saranno. Il 23 maggio si riparte con quinta tappa, la Roma-Firenze, 346 chilometri e mezzo, primo ancora Ganna. La sesta tappa va da Firenze a Genova, 294 chilometri e 100 metri, e Rossignoli concede il bis. La settima è la Genova-Torino, 354 chilometri e 900 metri, e il finale è rocambolesco. Fuggono Rossignoli e Ganna. A Pinerolo l’ultimo rifornimento. Rossignoli ci arriva prima di Ganna, si precipita per avere un bicchiere di tè, invece Ganna beve correndo per cercare di scappargli. Ma Rossignoli lo insegue e lo raggiunge. E ricomincia la lotta, che i giornalisti al seguito definiscono “snervante e titanica”. Finché Rossignoli “leva le braccia al cielo, desolatissimo”. Ha forato la gomma posteriore. Deve femarsi a cambiarla, “ma l’operazione – sempre nelle parole scritte sul giornale – è lunghetta”, e già si profila il colle di Superga. Ma non è tutto. Causa sovraffollamento, per prudenza il traguardo viene spostato indietro di tre chilometri, a undici dal centro di Torino. Così, quando Ganna giunge al traguardo, ci sono solo tre o quattrocento spettatori. E, ancora sulla “Gazzetta dello Sport”, la marea urlante è laggiù. E Ganna prosegue, seguito dall’automobile della Giuria. L’accoglienza” è “qualcosa di grandioso, di colossale, di indimenticabile. Lo portano in trionfo, non può nemmeno firmare” il foglio d’arrivo.

L’ottava e ultima tappa porta quello che resta del gruppo da Torino a Milano, i cinquantuno arrivati alla settima, più il veterano Nanni che aveva promesso di fermarsi ad Aversa e che invece ha proseguito fuori classifica, e in attesa di giudizio partono anche Giovanni Carena, piemontese di Bosco Marengo, e Camillo Carcano, lombardo di Soncino, “risultando a loro carico la taccia di aver usufruito del treno”. E’ la frazione più breve, 206 chilometri, ma ormai i concorrenti sono sfiniti, e il risultato finale non è ancora scontato, Ganna è in testa alla classifica generale, ma Carlo Galetti, tipografo di Corsico, alle porte di Milano, potrebbe ancora aggiudicarsi il Giro. Cento metri dopo il via il primo imprevisto: il milanese Pietro Molina, “per scansare sulla banchina una vecchia”, così è scritto, cade in malo modo e abbandonerà. A Borgomanero lo stato di tregua si esaurisce e comincia la battaglia. Attacchi e controattacchi, fughe e contro fughe, polveroni che si alzano dalla strada e quando Ganna fora, Galetti lo attacca. “Magno”, Eugenio Costamagna, fondatore e ancora direttore della “Gazzetta dello Sport”, si prodiga con la retorica: “Il momento è emozionante, ma nel tempo stesso lascia come una pena dolorosa nel cuore. Si approfitta delle disgrazie altrui”. A questo punto esibisce la sua conoscenza delle lingua e della letteratura latina: “Hodie mibi cras tibi”, oggi a me domani a te. E prosegue: “I corridori sono meno sentimentali degli osservatori. Corrono, corrono staccando altri concorrenti sino a ridursi ad un gruppo di cinque”. E’ Galetti a spingere più di tutti. Al passaggio a livello di Busto Arsizio i corridori non aspettano, scavalcano la sbarra e passano: il primo gruppetto è condotto da Galetti, poi ce n’è un secondo, quindi un terzo, ed è quello di Ganna. Che subito raggiunge e sorpassa il secondo gruppetto e si lancia all’inseguimento del primo. C’è un nuovo passaggio a livello, ma stavolta il cantiniere non permette ai corridori di scavalcare il cancello. E Ganna raggiunge Galetti. “L’epica lotta – conclude “Magno” – è compiuta”. Nessuno, né gli atleti né gli spettatori, sanno con precisione dove sia stato stabilito lo striscione d’arrivo. Il motivo è la pubblica sicurezza. Non si vogliono creare pericolosi assembramenti, così tutti si dispongono lungo la statale del Sempione fino al cimitero Musocco e infine, lungo il viale Sempione (oggi si chiama corso Sempione), all’Arena. Lo striscione viene alzato, proprio all’ultimo momento, davanti alla trattoria Isolino. I corridori sono protetti, si fa per dire, dai cavalleggeri al galoppo. A vincere la tappa è Dario Beni, il romano che ha vinto la prima e che aveva promesso di vincere anche l’ultima. A vincere il Giro è Ganna. A vincere la scommessa, forse anche la storia, è “La Gazzetta dello Sport”.

Ma chi è Ganna? E’ un povero cristo. Dignitoso, rispettoso, forte, atletico, povero. La povertà ha il suo peso. Quando nasce Luigi, o Luisìn come lo chiamano in famiglia, Induno Olona ha la scuola elemnatare (lui frequenterà un paio di classi), ma non il telegrafo, non la farmacia, non l’ospedale. E’ il nono di dieci figli, ma tre sono già morti. E’ del 1883, lo stesso anno in cui nasce Benito Mussolini. Alla nascita, in casa, e dove se no?, il medico è sostituito dalla levatrice. Luigi imparerà a scrivere, ed è già tanto. Strada facendo, cioè facendo lavori di strada, imparerà anche a fare di conto. Imparerà soprattutto a soffrire. A 13 anni perde la mamma, a 19 il papà. Resta l’unico maschio di casa: una colonna d’Ercole. Fa il muratore. In dialetto, magutt. Come muratore sarà anche Learco Guerra, “la Locomotiva Umana”, nato 19 anni dopo vicino a Mantova, poi campione del mondo. La fatica scolpisce, la fatica fortifica, la fatica struttura, la fatica fa e farà sempre la differenza, anche su una bicicletta.

Ganna, nel ciclismo, esordisce a vent’anni. Oggi, a vent’anni, c’è chi già nauseato ha smesso di correre. Gianni Brera scrive che, alla prima uscita, a Milano, in Piazza d’Armi, Ganna batte tutti. E’ il 1903. Un anno più tardi vince la Milano-Melegnano-Milano, 60 chilometri, per dilettanti di seconda categoria. Il mondo delle corse è il Far West, i pionieri sono cowboy, cavalcano bici invece di puledri e stalloni. La gavetta è lunghissima. La rincorsa lunga. La rivelazione nella Milano-Piano dei Giovi-Milano, 250 chilometri: primo davanti a due fuoriclasse come Pavesi e Galetti. Da quel momento in poi Ganna entra in un’altra dimensione: quella dei campioni.

Dunque, la classifica finale del primo Giro d’Italia recita: primo Ganna Luigi punti 25, secondo Galetti Carlo punti 27, terzo Rossignoli Giovanni punti 40. Carena, sospettato di essere salito e sceso da un treno, assolto, figura trentasettesimo. L’altro sospetto, Carcano, probabilmente giudicato colpevole, non c’è più. Se nelle otto tappe Ganna colleziona 25 punti, Giuseppe Perna, siciliano di Regalbuto, provincia di Enna, ne somma 297. Quarantanovesimo e ultimo, Perna è uno di quei corridori che Cougnet definisce “attori generici”, che “hanno una parte importante e servono a dare maggiore risalto alle linee del dramma”. Ma chi è l’ultimo se non il primo da un altro punto di vista? E chi dice che non sia quello il punto di vista giusto? Di certo, è il punto di vista più umano. Perfetto – e lo avrebbe dimostrato un altro ultimo, Luigi Malabrocca, il primo ufficialmente capace di ribaltare la classifica generale – perfetto per il Giro d’Italia, questa divina commedia così umana.

E Milano ha il cuore in mano. Si dimostra affettuosa e generosa. Secondo i calcoli degli organizzatori (ma su questi bisogna andarci sempre con molta cautela) gli spettatori al finale dell’ultima tappa potrebbero essere anche centomila. Ganna, quando fa per proseguire in bici dall’arrivo all’Arena, viene fermato dalla folla e portato in trionfo.

La sera di quel 30 maggio 1909, alla festa organizzata al Teatro Dal Verme, a Milano, un giornalista della “Gazzetta dello Sport” domanda a Ganna come si senta. E Luigi, dopo quasi 2500 chilometri su strade infernali e con bici pesanti ed elementari come cancelli, risponde, semplicemente: “Me brusa el cu”. Che non ha bisogno di traduzione.