L'ultimo passo del ballo del freddo
L'ultimo passo, anzi, l'ultima pedalata, dal ballo del freddo, a Campo Imperatore, al Gran Sasso, è di Davide Bais. È un passo segnato dalla fatica e dalla rabbia. È un passo segnato da tanti sogni spezzati come sono spesso le fughe, l'ultima proprio ieri, a Napoli, per De Marchi e Clarke. È il passo perfetto, a chiudere la danza, prima di levare le braccia verso quella che pare quasi una creatura mitologica di altri tempi, la montagna. Simile a un ghepardo, ma dal manto verde, maculato di bianco, dove riposa la neve, un manto che, con la crescita dell'animale, con l'altitudine che sale, diventa sempre più bianco. L'ultimo passo, dal ballo del freddo, è lo scatto decisivo, a pochi metri dal traguardo, è un passo raro, mai riuscito, nonostante tante prove. Riuscito solo nel giorno del ballo del freddo, quassù, al Gran Sasso. A Davide Bais.
Ha caratteristiche peculiari il ballo del freddo: gambali in battere e levare, indossati e tolti, per la pioggia dei primi chilometri e per il sole che proietta le prime ombre. Mantelline chiuse, riaperte, richiuse, poi tolte, buttate in ammiraglia. Acqua che si asciuga e diventa freddo e, poco dopo, sudore, maglie aperte, slacciate, promesse di neve e vento, che spazza queste zone. Mani rivestite da guantini e dita fuori: bianche per la pioggia fredda e rosse per il caldo della fatica.
Davide Bais, Simone Petilli, Karel Vacek, in fuga sin dai primi chilometri, fatica per fatica, freddo per freddo, questo è il mestiere della fuga. Il mestiere della fuga è quel sogno spezzato a cui si accetta di andare incontro ed alla fine, forse, ci si abitua anche al fatto che la moltitudine, ovvero il gruppo, lo spezzi, ma nella progressione di un uomo in fuga, nei rilanci per allontanare il gruppo, nell'elastico per restare attaccato alla ruota di chi è all'attacco con te, nel controscatto, c'è l'infinito di quel verbo, del verbo sognare. Un infinito che affascina, che attrae, di segno uguale e contrario a qualunque ciclista. Infinito ovvero consapevole del fatto che le fughe non finiranno mai. Non sarebbero mai finite lo stesso, ma Davide Bais, che vince a Campo Imperatore, è un monito in più, per ricordarselo, per ricordarlo a chi, magari, stava pensando che domani non sarebbe andato in fuga, perché stanco dalla prima settimana di Giro d'Italia, o quasi certo che tanto la fuga non sarebbe arrivata oppure spaventato dalle due settimane restanti. Ogni tanto un ciclista ci pensa, non lo dice, ma ci pensa. Soprattutto nei giorni del ballo del freddo.
In tre, assieme per ore, in tre all'atto finale di questo ballo. Simone Petilli, che attacca già ai meno sei dal traguardo, che forza l'andatura, che, dirà, poi, di aver sbagliato, perché era meglio aspettare. Karel Vacek, che avrebbe smesso solo qualche tempo fa, che non lo ha fatto per rispetto dei sacrifici che, invece, ha sopportato per poter anche solo pensare di essere un ciclista. Vacek che si stacca più volte, rientra, sembra quasi fare la differenza e torna a patire. Davide Bais che controlla l'uno e l'altro, mentre lo sguardo, celato dagli occhiali, è rivolto solo alla strada. La concretezza di chi, a forza di confrontarsi con la fuga, ha capito che non resta altro da fare che controllare la propria strada, e gli altri faranno quello che faranno. L'uomo in fuga lavora solo sul proprio istinto, lo affina, e sulla propria solitudine, anche se non è materialmente solo, su come affrontarla, gestirla, su come fare i conti solo su una bicicletta e un pugno di muscoli.
L'ultimo passo del ballo del freddo è questo: un passo di libertà, di prospettiva, di indipendenza, che è la base di ogni legame. Il fratello, Mattia Bais, esulta durante gli ultimi due chilometri: in questo linguaggio comune, costruito dal fuggire, dall'andare, dall'affrontare la moltitudine inventando una via, un linguaggio conosciuto, scavato, vissuto. In gruppo non succede molto, è vero, anzi, quasi nulla. Solo un allungo di Evenepoel sul finale, che precede Roglic. Ma non è il momento di parlarne.
Domani, più o meno alla solita ora, qualcuno proverà ad andare in fuga. E domani, più o meno alla solita ora, avrà un motivo in più per scegliere di farlo, piuttosto che di non farlo. Perché dall'ultimo passo del ballo del freddo è uscito Davide Bais, che a forza di sogni spezzati, di fughe interrotte, ne ha ricostruito uno di sogno e, con tutti i pezzi che c'erano in giro, è uscito un gran sogno. Una grande fuga.
Come la festa per Napoli
Ci hanno detto che, a Napoli, il concetto di festa, tra le altre cose, è racchiuso in una domenica insieme, mentre sul fuoco c’è il ragù. A dire il vero, la festa è nel ragù che inizia a “pippiare”, ovvero a sobbollire. Quel pippiare è l’inquietudine dolce e turbolenta della felicità, di un attimo di dimenticanza, per dirla con Totó.
Quel “pippiare” è quel classico sbuffo che è ben più di un suono: è un profumo, un posto a tavola aggiunto all’ultimo, un tavolo, anche piccolo, attorno cui possono stare tante persone, “perché a quello serve una tavolata”. Abbiamo ascoltato e abbiamo pensato che se è così, festa è, in fondo, la possibilità del circostante di realizzare il proprio significato, oppure uno dei propri significati. Festa è l’azzurro delle decorazioni per il Napoli Campione d’Italia, perché i bambini, quando giocano a pallone la prima volta, sognano un tricolore sul petto. Festa è Diego Armando Maradona perché manifestazione di un talento, di un divertimento che fa divertire, che porta dimenticanza. E, nel frattempo, quel che non va resta sospeso, da solo, e quasi perde di peso.
Festa è il gruppo che pedala sulle strade della Costiera Amalfitana: perchè quelle biciclette sembrano perfette per stare lì, perché i mille colori di una canzone, che da queste parti si sente spesso, sono dentro e attorno il gruppo. Festa non è solo musica, grida di gioia e notti con la luna a vista, festa è anche il silenzio di chi sa che, oggi, la propria festa sarà diversa. Sarà un dolore quietato, il sollievo di un lettino dei massaggi, di una doccia, la consapevolezza di essere stati coraggiosi, perché, ricordate, festa è realizzare la propria possibilità. Pensiamo ad Andrea Vendrame, che è partito con una “disgiunzione alla spalla sinistra” dopo la caduta di ieri. Lasciate stare i termini precisi, vuol dire dolore, male, vuol dire non potersi girare nel letto senza sentire male e faticare a tenere il gruppo quando “mena”, come si dice in gergo, in una tappa mossa, agitata. La sua festa è così, dolorante, opposta al concerto di festa tradizionale, ma identica al coraggio, alla volontà. Alla realizzazione di ciò che si ha dentro, anche se fa patire.
Un discorso simile e diverso vale per Alessandro De Marchi e Simon Clarke. Nelle sensazioni, guardandoli, seguendoli, sperando in quella fuga, che si tifa sempre ma oggi forse di più, c’è il “pippiare” del ragù. Uno sbuffo dentro, un tuffo di qualcosa che salta e zampilla, che può essere preludio alla gioia o all’amarezza, alla mancanza. La fuga è la loro personale festa, il loro sentire, il loro manifestarsi, la loro radice che si espande e cerca altri luoghi. La loro festa è una curva, un momento in cui il gruppo scompare. Vengono ripresi a trecento metri dall’arrivo dopo aver scosso polmoni e nervi all’indicibile. Si cercano con una mano sulla spalla, mentre poco più avanti Mads Pedersen vince, esulta.
Quella di Pedersen è, forse, la festa classica, è forse una domenica, anche se è giovedì: è il traguardo dopo la fatica, dopo il lavoro, dopo quasi una settimana di Giro. È la soddisfazione costruita lentamente, come lentamente si costruisce una volata: nei meccanismi, nei tempi, nella velocità e nel caos che riempie quei momenti. Pedersen che stringe la mano a Milan, un’altra sfumatura di festa.
E nell’aria c’è quell’inquietudine che fa presagire la festa, la realizzazione di qualcosa. Diverso per ciascuno come diversa per ciascuno è la festa.
L'attimo
Probabilmente giornate come queste sono quelle in cui risulta più difficile concepire l'attimo, gli attimi. Sì, perché, con la pioggia battente già sui vetri della finestra dell'albergo, all'alba, le ore di corsa, quattro e mezza in totale, ma apparentemente infinite, sono solo un ammasso nebuloso, informe. Un peso da portarsi sulle spalle, lì dove continua a battere fitta l'acqua, un banco di nebbia da attraversare, cercando qualcosa dall'altra parte. Qualcosa che, spesso, in giorni come oggi, non si ritrova. Un mestiere duro quello del ciclista, forse, soprattutto in giorni così, in cui i rischi sono più delle opportunità, almeno apparentemente. Non è l'altimetria a complicare una giornata che potrebbe essere una delle tante, ma un cielo cattivo che rovescia acqua e un asfalto viscido su cui si pattina quasi. Eppure l'attimo esiste anche oggi, anzi, esistono anche oggi gli attimi.
Della fuga abbiamo parlato più volte, e pare ovvio ribadirlo, ma per Champion, Gandin e Zoccarato l'attimo è stato a inizio gara, quello che li ha separati dal gruppo e li ha illusi di trovare qualcosa al di là di quella nebbia. Non ne valeva la pena se doveva essere un'illusione, dirà qualcuno. Invece, si va avanti anche per illusioni, che, se non fosse per loro, giornate così non si inizierebbero neppure. L'attimo è quello di una borraccia che, abbandonata da un corridore, finisce a bordo strada, e in quell'attimo c'è qualcuno che è proprio lì, che può raccoglierla, portarla a casa. Un attimo solo, di tempo e spazio: un attimo prima o un attimo più in qua o più in là e non c'è borraccia, non può esserci, resta l'attesa e lo sguardo verso chi quella borraccia la stringe in mano.
Gli attimi sono quelli che precedono una caduta, una scivolata, l'ultima cosa che si vede prima di finire a terra, l'ultima cosa a cui si stava pensando prima di quel momento in cui la bicicletta va altrove e si resta "senza". Gli attimi sono quelli dopo una caduta: Remco Evenepoel a terra, seduto, senza muoversi, senza parole. Gli attimi in cui si cerca di capire cosa sia successo, si teme di sentire male a muoversi, di scoprire un dolore che immobile non si sente, di non riuscire a ripartire. Sono attimi senza fine, attimi che vengono riempiti dal nervosismo del dopo, che altro non è, se non paura passata. Due cadute in una giornata per Evenepoel, apparentemente senza grosse conseguenze fisiche, ma con quegli attimi farà comunque i conti Remco. Sono attimi che fanno sentire fragili, che tolgono la sicurezza anche all'uomo più forte del momento.
Attimi che dovrebbero far riflettere anche chi è a bordo strada, a vedere, perché dalle scelte di un attimo possono dipendere quelle cadute. E anche quando si è spettatori, anche quando si sta a guardare, forse soprattutto, l'attenzione è fondamentale: non è un gesto passivo guardare, è attivo. Quando si guarda, si fa, si è lì, presenti. Quando si è presenti, ovunque, serve cura.
Anche le gallerie conoscono i loro attimi: momenti in cui le spalle, gli occhi, le mani, il volto trovano pace dall'acqua e non sembra vero. Sono attimi in cui le gocce non scorrono sulla mantellina per poi piovere a terra. Si trova l'importanza delle cose in giornate come questa, la si inventa, si conferisce una nuova importanza a quel che si attraversa.
La volata è attimo per eccellenza. L'attimo in cui l'ultimo uomo lancia il proprio velocista, l'attimo in cui il velocista stesso parte e ancora l'attimo in cui si mette la propria ruota davanti agli altri e quello in cui si arriva per primi su una fettuccia bianca che è la fine del mondo. Kaden Groves vince così, dopo una caduta, dopo una giornata difficile. Gli abbracci con i compagni sono, in realtà, uno scambio di acqua, che ha impregnato tutto. Stamani chi avrebbe cercato un attimo come questo, un attimo di felicità pura, in un alba di pioggia e freddo? Ben pochi, probabilmente. Ma è così che funziona: gli attimi importanti vanno cercati pure in mezzo al nulla, al vuoto, anzi, soprattutto lì, perché è lì che si annidano. È lì che hanno la possibilità di cambiare qualcosa. Questa è la loro funzione. La nostra, quella di chiunque, è di non smettere di cercarli, di credere che ci siano.
Inseguire, lasciare andare
Si era parlato così tanto di fughe, di fuga, che stamani pareva proprio che il primo scatto, quello sulla sinistra del plotone, appena sventolata la bandierina del via, per intenderci, dovesse essere quello buono, quello giusto. Invece no. Per lasciare andare la fuga, ci sono voluti quasi cento chilometri, quasi due ore di corsa, c'è voluta una discesa, mentre tutti ci provavano sugli strappi. Stasera non parlate di fuga "lasciata andare" a De Marchi, Scotson, McNulty, Cepeda, Healy, perché loro quella fuga l'hanno inseguita per minuti e minuti, in una nebbiolina di umidità insistente, ma, oggi, non era la loro giornata. Delicato equilibrio quello fra "inseguire" e "lasciare andare". Vero che il gruppo lascia andare la fuga con Andreas Leknessund, Aurélien Paret-Peintre, Toms Skujiņš , Vincenzo Albanese e Nicola Conci, fra gli altri, altrettanto vero che tutti coloro che ci avevano provato prima hanno a loro volta lasciato andare, non solo la fuga: la stessa idea di fuga, lo stesso ideale. Forse la parte più difficile. Certo anche che Leknessund e Paret-Peintre, il primo maglia rosa a Lago Laceno, il secondo vincitore di tappa, hanno inseguito la possibilità di essere lasciati andare, hanno inseguito il respiro quieto del gruppo, che mette la mantellina, torna alle ammiraglie, mangia, beve, molla la presa.
Inseguire, ovvero i battiti che aumentano, il rapporto più duro, le gambe che girano veloci e l'acido lattico che assale, oppure lasciare andare, respirare, alleggerire la pedalata e pensare a domani: equilibrio, legame stretto, talvolta imposizione con cui fare pace, altra scelta difficile, seppur senza possibilità. Prendete Bruno Armirail: quanto insegue la fuga ormai partita? Quanto ci crede, mentre è da solo e la vede avvicinarsi? Inseguire è speranza, forza, lo si intuisce. Più difficile è capire che lasciare andare non è da meno. Siamo tutti Armirail, forse, soprattutto, nel momento in cui ha detto basta, si è arreso e ha pensato che ci riproverà. Un atto di coraggio. Lasciar andare è anche questo, oltre a lasciar andare una maglia, quella rosa, come fa Evenepoel: solo che di Evenepoel dicono tutti che la ritroverà, che è ovvio, quasi certo, di Armirail non lo dice nessuno. Deve saperlo e crederci da solo: capite che è diverso, non paragonabile.
Nicola Conci insegue quello scatto, sulla salita di Colle Molella, anche se apparentemente sono gli altri a inseguirlo. Conci prima insegue lo scatto, poi lascia andare. Albanese fa il contrario: prima lascia andare, poi insegue. Warren Barguil lascia andare e basta, dopo una fuga così lunga, dopo aver inseguito quella stessa idea per tanti chilometri e probabilmente aver avuto anche buone sensazioni, altrimenti non sarebbe stato lì davanti. Il modo più difficile di lasciare andare: quello in cui credevi, quello di cui ti eri illuso o di cui il tuo corpo ti aveva illuso.
Andreas Leknessund, solo qualche tempo fa, si chiedeva: «Chissà se un giorno lotterò per la generale di un Grande Giro». Non lotterà per la generale, ma la maglia rosa l'ha addosso e non ci pensava neppure lui, forse. Il suo è un inseguimento in due tempi: dapprima nel gruppetto all'attacco, cercando anche di non dare troppo peso a quella maglia rosa virtuale, per non cadere nelle illusioni e farsi troppo male, poi attaccando e spingendo la bicicletta, persino con i denti, per evitare brutti scherzi, da quel gruppo tirato dalla Ineos. Anche Aurélien Paret-Peintre, che a Lago Laceno vince, ha lasciato andare, per qualche attimo, ha lasciato andare Leknessund e lo ha ripreso. Qualcosa vorrà pur dire, forse che, come ci sforziamo di inseguire, dovremmo imparare a lasciar andare, senza vergognarcene, perché si può vincere lo stesso. Oppure semplicemente perché nella quotidianità non è solo vincere che conta.
Andreas Leknessund, dalla Norvegia, pallido e colorato solo dallo sforzo e dalle sensazioni, ha inseguito tutto il giorno quell'idea, quella della maglia rosa di cui sistema anche il colletto. Al traguardo, ha pianto, felice. Ha lasciato andare tutto quel che c'era dentro. Anche lui.
Pensieri-rumore
Quando passa il gruppo, in un qualunque tratto di strada, tra Vasto e Melfi, si vedono e si ascoltano molte cose. Ma è quello che non si può sentire che vogliamo portarvi oggi. Sì, parliamo dei pensieri dei corridori e del loro suono. Sceglieremo alcuni rumori, per darvi l'idea di cosa sarebbe il transito del gruppo se davvero tutto si ascoltasse. Consapevoli del fatto che se ne potrebbero scegliere molti altri, ma soprattutto certi del fatto che sia un bene che non tutto si senta, perché, solo così, in ogni professionista può esserci una parte di chiunque sia mai andato in bicicletta, anche per pochi chilometri, anche per un viaggio. Le sensazioni sono le stesse, semplici, primitive, cambia il contesto, ma chi ha provato le conosce bene e così guardare la corsa è anche provare la corsa.
Veljko Stojnic e Alexander Konichev che attaccano, pronti-via, pensando che qualcuno li segua, invece restano da soli. Non si fanno riprendere, continuano. Il primo pensiero assomiglia a quello dei vetri rotti, di quando qualcosa che ci si aspetta non accade, ma bisogna lo stesso proseguire, perché è la gara. Poi subentra un pensiero simile all'acqua che lava via la polvere da una superficie da troppo impolverata: piacevole quella pioggia, un temporale estivo, l'afa che se ne va. Il pensiero si alleggerisce e si guarda a quel che c'è: tanti traguardi intermedi, per ingannare la mente, per pensare di avercela fatta prima ancora di farcela, perché si è in testa e quando si è lì bisogna dare valore al momento, perché non si sa quando ricapiterà. Non chiedersi il motivo di tanta fatica vana, ma l'opportunità.
Pensieri che sono tonfi sordi: Roglič che cerca di sorprendere Evenepoel al traguardo volante ma viene sorpreso e finisce secondo. Si volta verso il gruppo: «Pure qui sprinta adesso? Che facciamo?». Dice così, con gli occhi, con la gestualità. Quelli di Almeida, di quella bici danneggiata su cui si sforza di continuare a pedalare. Pensieri che sono aghi che trafiggono un cartone: Pedersen che, dopo aver fatto lavorare la squadra, si ritrova in coda al gruppo, di poco staccato, in vetta al Gran Premio della Montagna. Sono aghi che trafiggono perché arrivano e se ne vanno: in un momento, c'è la delusione ed il senso di colpa, nell'altro un respiro a pieni polmoni e le gocce di pioggia che, invece che dare fastidio, rinvigoriscono. Basta trovare una pedalata più rotonda delle altre, rientrare, e ci si sente di nuovo bene.
Alcuni pensieri stridono come un gesso su una lavagna: la bicicletta che, a causa dei cambi di asfalto, in discesa verso Melfi, sembra lasciarti. Resti in piedi, ma, alla curva dopo, tiri i freni, ricordi quella sensazione e ti prende il timore: «Se cado, siamo solo alla terza tappa, fra poco iniziano le salite». Una sfilza di pensieri negativi. Sono pensieri fastidiosi perché ingabbiano la libertà di improvvisare in sella e di scendere a tutta, per una volta senza fatica. Rumori che sono suoni, inizi di suono, prime note: Pinot che conquista i punti per la maglia azzurra e scatta per essere sicuro di vestirla stasera. La sua è una ripartenza, da molto tempo, e le ripartenze hanno questo di bello: non finiscono, sono un inizio continuo.
Pensieri-frastuono: quelli di Pedersen, Groves e Albanese che erano lì a giocarsela e ci hanno creduto perché la linea del traguardo continuava ad avvicinarsi senza arrivare mai. Quelli di Matthews, invece, sono pensieri-silenzio, al massimo pensieri-grido: volata lunga, vittoria, soddisfazione, la prova che va bene, che, da stasera, al Giro sembrerà tutto più facile, anche quando sarà più difficile. Almeno per qualche giorno. Basta un attimo di felicità, è semplice la regola.
Avremmo potuto sentire tutto questo, ne siamo certi. Non potendo sentirlo, abbiamo ascoltato ciò che c'era, abbiamo guardato le cose, i tetti, le strade, le maglie, le biciclette, gli scatti, le cadute. Le braccia alzate e la vittoria, la testa bassa e la sconfitta. La gara, insomma. Il Giro. Il resto, alla fine, lo sappiamo, perché quei rumori li abbiamo tutti dentro.
Tutto in Milan
Adesso è tutto sul volto di Jonathan Milan, sotto il sole cocente di San Salvo. Basta fermarsi a guardare e si capisce perché in molti abbiano detto e scritto di quel viso da bambino, in un corpo da gigante. Succede ai bambini, in alcuni momenti, di voler piangere ed invece di ridere, succede ai bambini di lasciarsi andare ad un pianto poco dopo una risata così forte che pare risalire da un fondo così fondo che, crescendo, non si sa più come cercare. Milan era lì, con una mano sulla bicicletta, si guardava attorno, beveva, e i muscoli facciali facevano intuire un pianto che non usciva, un riso così forte che non si sa come ridere. Tutto sul suo volto, mentre vede, non rivede, la volata, perché per lui che l'ha costruita è la prima volta, e sembra dire: "Ma sono io? Ma sono proprio io?". Nei giorni in cui ciascuno ha qualche certezza irremovibile, fa bene sapere che c'è Milan, fa bene sapere che il dubbio ci piace ancora, ci affascina, che il non riuscire a credere a ciò di cui si è stati capaci rende quel che si è fatto ancora più significativo, perché è la meraviglia a cambiare la lettura del circostante.
Poco fa, tutto era nelle gambe di Jonathan Milan, quelle che sentiva pronte, forti, energiche, potenti, eppure non si sa mai, non basta essere pronti per vincere, non basta essere preparati per farlo. Basta invece non essere pronti per perdere, non essere preparati per essere sconfitti. La legge del ciclismo, tremenda. Quelle gambe abituate al velodromo, alla pista, a sforzi enormi ed intensi, al fiato massacrato. Quelle gambe che, a febbraio, già avevano aperto un varco sul futuro. Sì, un varco, serve quello per farsi strada e andare: quello che Milan ha trovato anche oggi, mettendo nel sacco Dekker e Groves, mettendo nel sacco tutti gli altri, vincendo quasi per distacco.
La sua è l'essenza della potenza, forse, fra qualche anno, quando penseremo alla potenza potremo evocare Milan. Come si evocano le balle di fieno dorate pensando all'estate o i baci pensando agli amori. Chissà. Era nelle gambe di Milan ed è ancora lì, perché i muscoli non dimenticano, hanno una loro memoria, un loro ricordo di quello che hanno fatto, di quello che abbiamo fatto. Non solo. Tutto è stato ed è nel corpo di Jonathan Milan, in quelle spalle, in quelle mani, in quelle braccia che svuotano la felicità quel tanto che basta per farne arrivare altra, persino nei piedi che spingono sui pedali, che li schiacciano, per sviluppare velocità. Alto, forte, allo stesso tempo semplice, dalle reazioni genuine, dai pensieri genuini. Cammina continuando a sorridere, a guardarsi intorno, a cercare qualcuno o qualcosa su cui poggiare quella gioia, quasi avesse ancora bisogno di liberarla, di urlare o di correre o saltare.
Lo capiamo bene, dopo un pomeriggio in cui la noia aveva, a tratti, preso il sopravvento, con una fuga in testa ed il gruppo che ci gioca, scegliendo quando chiudere. Succede nelle tappe per ruote veloci, può succedere. Ci hanno detto che la noia non va evitata, ma vissuta, perché può essere creatività, può essere possibilità, che nella noia si scrive, si dipinge, si inventa, si gioca, si torna a giocare. Da quella noia avremmo voluto tirare fuori qualcosa di unico, usarla bene, non buttarla via, imparare a farlo. Avremmo voluto. Poi è arrivata la volata di Jonathan Milan e la realtà ha tirato fuori il meglio di tutto quel che c'è nell'immaginazione. Quanto è stata bella anche quella noia, quanto è bella ora questa felicità.
Il senso di quelli come Remco Evenepoel
Noi siamo ancora lì: alla perfezione di un uomo e una bicicletta, lungo la ciclabile della Costa dei Trabocchi, poco più in là il mare. Quasi che la velocità che batte il tempo in bicicletta fermi quello di chiunque sia al di fuori di quella galassia, tra essere umano e ingranaggi. Di quell'intesa. Altrimenti saremmo altrove, insieme ai minuti che sono passati, alle ore che passeranno, in altre faccende indaffarati, invece rivediamo Remco Evenepoel che attraversa lo spazio ed il tempo come se non ne subisse le leggi: composto, potente, a galleggiare da un'altra parte, oltre la fatica di questi diciannove chilometri, la fatica che, di solito, sconvolge e scompiglia, oggi, invece, attraversa e lascia intatto, perfetto. Ricostruisce. Cinquantotto di media, in alcuni tratti, oltre i cinquantacinque al traguardo. Di quella galassia, uomo e bicicletta, Evenepoel e bicicletta, vorremmo studiare ogni dettaglio.
Da venerdì pensavamo ai minuti dalle 16.34 alle 16.37, in fondo solo tre minuti, ed in quante occasioni si pensa per più di un giorno a soli tre minuti? Evenepoel, Roglič, Kung e Ganna: uno dopo l'altro, stregoni del tempo, ognuno con un proprio modo di batterlo e lasciarlo fermo per tutti, intenti a pensare e a riguardare, tranne che per lui. Le leve di Ganna, la potenza di Kung, la volontà di Roglič, che non basta, che paga più di quanto si pensasse, e poco fa la perfezione di Evenepoel. Il tutto, in parte, su una ciclabile, che è il luogo del linguaggio delle biciclette, ma di un linguaggio diverso, perché i professionisti pedalano sulle strade, di solito. Interessante che, in questo sabato, quell'inversione del tempo, quella velocità perfetta, abbia trovato sfogo proprio lì: un uomo che sceglie di guidare una bicicletta sceglie un'altra posizione per spostarsi, un'altra velocità, si inventa altre possibilità, cambia forma alle cose. Una ciclabile e il Giro d'Italia rappresentano questo legame.
Occhi fissi per Evenepoel, dopo il traguardo, la sua è una felicità quieta, anche in maglia rosa, vissuta e protetta da dentro, simile a quella di Jay Vine che minuti prima era il leader provvisorio della generale, e, ancora piegato sulla bicicletta, stava in silenzio, respirava solo: dietro le transenne, una ragazza lo guardava e rideva, dal profondo. Un capovolgimento, solo apparente, perché è questione di manifestazione, ma dentro c'è la stessa cosa. Lo capiremo poco dopo, dalla delusione di Vine, quando il suo tempo viene battuto. Com'è profondo quel che si prova, da queste parti si potrebbe dire com'è profondo il mare, con le sue tonalità di azzurro, blu, forse verde acqua, com'è profondo, verso il cielo e non verso la terra, persino il verde della vegetazione.
Ganna, poco dopo l'arrivo, dirà: "Io arrivavo a sessanta all'ora, lui, magari, a sessantacinque". Rende l'idea e allo stesso modo continua a bloccare il nostro tempo: "Cos'ha fatto Evenepoel?". Chiediamocelo, chiedetevelo e di risposte ce ne sono molte, tutte ad affondare in quel che esce dalla normalità, dalla quotidianità. In fondo, c'è chi ha guardato la strada in cui passavano i ciclisti dai trabocchi, da una barca, da un prato, dall'alto o dal basso: anche questo esce dalla quotidianità, perché di solito, in quei luoghi, non si va per vedere passare delle biciclette. Per vedere Evenepoel o Ganna. Ma di solito non si contano nemmeno tre minuti di una giornata qualunque e non si resta lì col pensiero per ore. Stravolgere, rendere unico anche quello che ci si può aspettare, facendolo ancora meglio: questo è il senso di Remco e di quelli come lui.
Il Giro d'Italia è un appuntamento
Il Giro d'Italia è un appuntamento. Uno di quegli appuntamenti per cui hai scritto tante lettere, a sera, ma non ne hai mai inviata alcuna. Perché, di fatto, non sai bene dove stia di casa: è un vagabondo che, però, ha la passione del ritorno, di tanto in tanto. Quelle lettere le hai rinchiuse in un cassetto, sperando, una mattina, forse nell'aria di vetro di Montale, che è, poi, quella di maggio, di incontrarlo fra le strade, per un caso che caso non è, perché pur di incontrarlo vai lontano da casa, e ti fermi a guardare. A guardare le biciclette, ad ascoltare la musica, ad assaggiare un cibo che fanno solo in quel paese, ad annusare un profumo, anche solo ad aspettare. E, se proprio non puoi andare a cercarlo, lo guardi attraverso uno schermo che sai che, ad una certa ora, mostrerà quello che mostra da anni a questa parte. Quello che cerchi da quando l'hai incontrato o l'hai sentito per caso, in una vecchia storia che ti raccontavano da bambino.
Il Giro d'Italia è un appuntamento fisso, potrebbe essere un venerdì sera o una domenica mattina, invece è ogni giorno della settimana per tre settimane. È forse anche dubbio, perché tutto cambia e come fai a quarant'anni ad avere la stessa voglia, lo stesso sogno, di quando ne avevi quindici? Con gli appuntamenti fissi accade di chiedersi se potrà mai finire, se, un giorno, non ti farà più quell'effetto, così appena torna, quel vecchio vagabondo, sei in una strada un poco più irrequieto, a cercarlo, per avere la tua conferma, come accadrà oggi a qualcuno, lungo la Costa dei Trabocchi. Moto, macchine, la carovana, le voci da un megafono, da un microfono, la stessa scia di vento e colore, e ti rendi conto che, sì, ogni anno probabilmente, crescendo, cambiando, invecchiando, qualcosa di diverso c'è, ma fai come da ragazzino. Tifi per la fuga, cerchi la maglia rosa, gridi di resistere a chi è caduto pochi chilometri prima, attendi la macchina dell'inizio gara per fare festa e quella del fine gara per attraversare la strada e cercare un'altra via in cui aspettarlo.
Il Giro d'Italia è un appuntamento a cui ognuno si presenta come crede. C'è ancora chi sceglie il vestito più bello che ha, come faceva una volta, per andare a bordo strada, c'è la signora che ha appena finito di preparare il pranzo e si affaccia ad un balcone con ancora il grembiule sporco di farina degli gnocchi, ci sono ragazzini sudati da una partita a calcio, nel campetto del paese, vespe e scooter, biciclette da corsa simili a quelle dei professionisti e vecchie Graziella di nonno e nonna. Anche passeggini e culle. Sì, il Giro è un appuntamento e come tutti gli appuntamenti può arrivare tardi o anticipare i tempi, mentre sei impegnato a fare altro, dopo tanti anni, però, hai capito che al Giro puoi andare anche con la vecchia divisa da imbianchino, con un cappellino fatto col giornale, dopo aver tagliato l'erba del giardino di casa o lavorato nell'orto. Non conta, al Giro vanno tutti, anche coloro che non lo conoscono eppure si sentono a proprio agio, per nulla intimiditi.
Forse quelle lettere avresti potuto spedirle a chiunque, a un amico, a un'amica, e ti avrebbero risposto qualcosa che anche il Giro potrebbe dirti. Il Giro è un appuntamento per pensare o per poter non pensare, e, quando un lunedì di fine maggio, o di inizio giugno, ti svegli e ricordi che l'hai già incontrato, che è stato bello, ma ora dovrai aspettare un anno, un poco ti prende male. Però il Giro è un appuntamento e i vecchi vagabondi come lui, anche se non ricevono lettere e non possono rispondere, agli incontri si presentano sempre.
Prima del Giro: a colloquio con i Direttori Sportivi
Alla vigilia del Giro d'Italia, abbiamo contattato i direttori sportivi delle tre squadre italiane al via: Eolo Kometa, GreenProject- Bardiani Csf-Faizanè e Team Corratec. Ci hanno risposto Stefano Zanatta, Roberto Reverberi e Fabiana Luperini, insieme a loro, abbiamo provato a delineare come si prospetta il loro Giro.
Come arrivate al Giro d'Italia?
Stefano Zanatta (Eolo Kometa): Direi bene Sicuramente in cerca di uno step successivo rispetto agli anni scorsi, qualcosa che confermi la crescita della nostra squadra. Attaccheremo, cercheremo di essere protagonisti, ma con scelte più ponderate: non la fuga per la fuga, ma la fuga per provare a vincere. Certamente l'avvicinamento è stato segnato dall'assenza di Vincenzo Albanese nei primi mesi di quest'anno, un'assenza pesante perché è uno dei nostri migliori uomini. L'anno scorso aveva fatto grandi cose, così anche i suoi compagni erano pronti a ricominciare da lì, non poterlo fare, dopo l'infortunio, ha certamente pesato, anche a livello psicologico. Per Albanese era importante tornare, lo abbiamo visto bene al Giro di Sicilia, ed era ancora più importante poter essere al Giro d'Italia. Lo correrà senza pressioni, ma certamente questa possibilità potrà restituirgli quella sicurezza che può mancare dopo i più grossi incidenti.
Roberto Reverberi (Green Project-Bardiani Csf-Faizanè): Da parte mia posso dire che, a mio avviso, la nostra squadra è più forte quest'anno dell'anno scorso: un segnale importante. Abbiamo scelto di puntare molto sui giovani, su corridori che abbiano voglia di provare, anche a costo, magari, di non completare il Giro d'Italia. In certe occasioni, l'esperienza viene più dal provare che dal riuscire: possono anche bastare dieci giorni di Giro. Questo, ovviamente, senza rinunciare allo zoccolo duro di atleti che il Giro d'Italia l'hanno già corso e sanno cosa significhi. La riflessione che sto facendo negli ultimi giorni riguarda il cambiamento avvenuto nel ciclismo e la presenza di squadre e corridori così forti, capaci di improvvisare su ogni territorio, in grado di fare la differenza anche in tappe che, una volta, sarebbero state transitorie. Dobbiamo correre con intelligenza, non sfinirci e non sprecare energie inutili perché il Giro è lungo. Se siamo lungimiranti, possiamo portare a casa un bel risultato. C'è l'idea di provare a restare in classifica con Luca Covili, ma ritengo importante una precisazione: non ad ogni costo. Se questo tentativo deve costarci troppe energie o sacrificare troppo la nostra prestazione, meglio una vittoria di tappa che un quindicesimo posto in generale. Anche Covili lo sa e ne è pienamente consapevole.
Fabiana Luperini (Team Corratec): Con grande voglia di fare e di dimostrare che siamo una squadra che ha meritato e merita di esserci. C'è grande senso di responsabilità da parte dei ragazzi che avvertono l'occasione che hanno. Li capisco bene perché, pur se dall'ammiraglia, vivo la stessa cosa. Anche per me è il primo Giro d'Italia vissuto in questa posizione, importante e non facile. Non dico che ci sia apprensione, certamente, però, ogni tanto ci si sorprende a pensarci. Il Giro d'Italia non è soltanto una corsa in bicicletta, tutti sanno cos'è il Giro e in molti lo guardano pur non essendo appassionati di ciclismo. Questo è un discorso che ho fatto ai ragazzi: ogni nostra azione deve tenerlo presente. Abbiamo grande rispetto per tutte le squadre e guardiamo con ammirazione ai corridori più forti, a degli autentici fenomeni, però non abbiamo ne avremo mai alcun timore referenziale: il nostro Giro d'Italia lo giocheremo senza remore.
Soffermiamoci sui corridori scelti. Proviamo ad analizzare il loro ruolo all'interno della squadra.
Stefano Zanatta (Eolo Kometa): Avendo già parlato di Vincenzo Albanese, partirei da Lorenzo Fortunato. Lorenzo dovrà giocarsi le proprie carte in salita, si può provare a restare in classifica generale, ma con uno sguardo più ampio che non perda di vista l'importanza di una vittoria, anche a rischio di uscire di classifica. Il nostro riferimento per esperienza e capacità di fare squadra sarà Francesco Gavazzi, all'ultimo anno e all'ultimo Giro. Uomo squadra, è vero, ma con ottime possibilità di togliersi una soddisfazione personale. Una garanzia è anche Mirco Maestri, come i ragazzi che sono cresciuti in questo gruppo. Penso Sevilla: per lui la maglia è diventata una seconda pelle ed il tempo che hanno passato con noi ci rende consapevoli che ci sarà e svolgerà al meglio il compito che gli assegneremo. Davide Bais è cresciuto tanto e sono certo che in questo Giro si noterà. Un altro corridore sempre pronto a lavorare per la squadra è Erik Fetter: l'abbiamo già visto molte volte all'opera in questo inizio stagione. La cifra di Mattia Bais sarà, invece, ancora la fuga, con la raccomandazione di razionalizzare i tentativi per fare centro.
Roberto Reverberi (Green project-Bardiani Csf-Faizanè): Parto dalla base, dai corridori che sono una conferma, una certezza: Fiorelli, Gabburo, Zoccarato, Tonelli e Covili. Fiorelli si giocherà le volate ristrette, in quelle di gruppo è un piazzato, ma dove il gioco si fa più complesso può vincere. Zoccarato è un duro, un corridore di talento che sa inventarsi ed ha occhio anche per gli attacchi. Alla fine, se ci pensate i corridori in fuga sono sempre gli stessi, perché andare in fuga è sempre più difficile. Tra l'altro, bisognerà fare bene attenzione ai big che usciranno di classifica, perché loro nelle fughe entreranno e questo sarà un altro fattore da studiare per capire dove attaccare. Non punteremo, invece, a maglie intermedie: il livello è tale per cui si rischia solo lo spreco di energie. Speriamo la fortuna ci aiuti, non facendoci perdere uomini per cadute o infortuni. Fra i giovani abbiamo Magli, Marcellusi e Enock Mulubrhan: ragazzi che sposano perfettamente la nostra idea di ciclismo. Senza paure, con tanta voglia di fare e libertà assoluta.
Fabiana Luperini (Team Corratec): Il corridore di maggiore esperienza che più ci rappresenta è senza dubbio Valerio Conti: conosce il Giro, può fare bene ed allo stesso tempo essere di riferimento per i compagni. Per le fughe penso a corridori come Gandin e Iacchi, mentre per le volate abbiamo uomini veloci, in stile Dalla Valle e Viviani. Sinceramente ho buone speranze anche di vedere qualcosa di buono nelle cronometro, perché Quartermann ha le carte in regola per stabilire buoni tempi. Ad Alexander Konychev auguro di provare ad imitare il padre, ne parla spesso, potrebbe essere la sua fonte di ispirazione. Infine, Tivani, già secondo ai Giochi Panamericani è un altro ragazzo veloce che potrebbe giocare qualche brutto tiro ai big.
Che ingredienti avete chiesto alla squadra per questo Giro?
Stefano Zanatta (Eolo Kometa): Una parola non può che essere fuga, ma ne voglio aggiungere un'altra che credo sia importante: sorpresa. Sì, dovremo essere bravi a sorprendere il gruppo attaccando in circostanze in cui nessuno se lo aspetta, soprattutto non escludendo mai alcuna possibilità ed essendo sempre pronti. Certe volte è nelle frazioni più impensate che si può fare la differenza.
Roberto Reverberi (Green Project-Bardiani Csf-Faizanè): Spirito combattivo, che si vede quando attacchiamo ma anche quando ci mettiamo a disposizione, resistiamo per quello che vogliamo.
Fabiana Luperini (Team Corratec): Coraggio. Ne serve tanto per una gara come il Giro d'Italia, lo metteremo in mostra.
Demi Vollering, in numeri
Demi Vollering abbiamo provato a descriverla in tutti i modi, quasi a cercare una via per rendere reale, concreto nelle parole, ciò che sta facendo in questo inizio stagione. Aggiungiamo un altro modo, spietato se volete, come lo sono i numeri. Sì, perché, forse, di fronte a certe grandezze, l'unica strada che non lasci molto spazio all'interpretazione e ad una visione soggettiva, ma fotografi una oggettiva realtà, è proprio quella numerica. La prima gara di Vollering, nel 2023, è stata la Omloop Het Nieuwsblad, a fine febbraio: diciassettesima al traguardo. Siamo a fine aprile: da quel giorno, Vollering, come peggior risultato, ha solo due secondi posti: alla Freccia del Brabante, vinta da Silvia Persico, e al Fiandre, tra l'altro vinto da una sua compagna di squadra, Lotte Kopecky, e chissà se non ci fosse stata Kopecky. Diciamo "peggiore" riferendoci al secondo posto, perché tutti gli altri piazzamenti, in questo ruolino di marcia, sono primi: Strade Bianche, Dwars door Vlaanderen, sino alla tripletta delle Ardenne, Amstel Gold Race, Freccia Vallone e Liegi-Bastogne-Liegi. Otto giorni di gara e cinque vittorie. Si può aggiungere altro?
Molto altro. C'è da dire, ad esempio, che pure i numeri vanno declinati e pure cinque vittorie su otto giorni di gara possono avere pesi differenti. Da gara a gara, da contendenti a contendenti. Ha affrontato tutte le rivali che la insidieranno in questa stagione, anche nelle gare a tappe, ed è sempre apparsa in pieno controllo. A tal punto che si è iniziata ad usare la locuzione "la prima delle umane" per colei che viene battuta da Vollering. Che è poi il concetto di "fuoriclasse": fuori dalla classe comune, in questo momento, c'è lei, il gruppo si gioca il resto. Gare del Nord, vero, declinate in vari aspetti, gli sterrati, i muri, il pavè, le côtes, simili ma differenti, perché il Nord è come un orizzonte, un immaginario da richiamare, ma il paesaggio cambia, le specificità sono diverse. Ci sono atlete "più da Amstel", atlete "più da Liegi", atlete "da Strade Bianche" o "da Freccia". Lei è "da tutte queste gare" e non solo, perché, ad oggi, sarebbe inserita nel pronostico di ogni gara possibile, probabilmente.
Vince e vince in ogni modo possibile. Alla Strade Bianche ci ha provato da lontano, ricorderete tutti la discussa volata con Kopecky, all'Amstel ha colto un attimo, un dardo scoccato, per l'appunto, dopo l'attesa, dopo aver lasciato sfogare le altre, alla Liegi con una fuga a due, con Elisa Longo Borghini, gasata dall'idea di potersela giocare con l'atleta piemontese, che è quel qualcosa in più, un piacere recondito di chi sta talmente bene che cerca il massimo coefficiente di difficoltà, l'invenzione, l'equilibrismo, il diverso a costo di perdere. La Liegi l'aveva già vinta nel 2021, ma questa volta era un'altra storia. Non più la giovane di talento, ma la certezza, l'atleta controllata da tutte, contro cui fare la corsa. Ineluttabile, in pratica, perché qualunque situazione di gara, in un modo o nell'altro, la vede al centro o con la possibilità di rientrare e fare il colpaccio. Il suo duello con Lippert sul Mur de Huy, alla Freccia Vallone, è enigmatico: in testa da chilometri, a tutta all'imbocco del muro, ripresa eppure ancora davanti, ancora vincente.
Un dato importante anche a livello psicologico, perché bisogna trovare una chiave per scardinare la sua fortezza, una tattica, ed ogni volta si palesa lo stesso. «Come la si batte?»: se lo stanno chiedendo in tante. Scalatrice di livello, veloce, nel pieno della maturità, perché è classe 1996, ha ventisei anni, qualche anno di esperienza alle spalle e molti davanti. Ed il bello è che il ciclismo è una parte importante della sua vita, ma non il tutto: appassionata di camminate in montagna, di lettura, ragazza di una semplicità disarmante, per come la descrivono le compagne, capace di prendere seriamente la commozione quanto l'allegria. Parlavamo di equilibrismi: forse anche l'equilibrio ha reso così Vollering.
Non vuole confronti con nessuno, pesante quello con Anna van der Breggen, suo direttore sportivo quest'anno, difficile quello con Annemiek van Vleuten, anche se confessa di volerla battere nel suo giorno migliore. Sarebbe un'altra variante, un altro gioco senza rete. Non vuole essere l'erede di nessun'altra, perché serve leggerezza per una bicicletta e portarsi sulle spalle un passato da eguagliare rischia di rallentare, di affaticare. Intanto, si stanno avvicinando le grandi corse a tappe.