Diario dal Teide: la prima volta di Elisa Longo Borghini

Mentre il dialogo con Elisa Longo Borghini si infittisce, sulle pendici del Teide, dove si trova da sola, in altura, da giovedì, sono le cinque del pomeriggio, in Italia, invece, a qualche migliaio di chilometri di distanza, l'orologio segna già le sei della sera. È una delle prime cose che Longo Borghini ci fa notare: «Alle diciotto, qui, calerà il silenzio. Un silenzio totale, assoluto. Non so cosa accada alla giornata, quando scocca quell'ora, ma ogni volta è così. I rumori scompaiono, sembra non esserci più nulla». Sarà questa l'ora delle parole, dei ricordi, dello scambio di opinioni, fino a che Elisa Longo Borghini sarà lassù. Basterà un telefono e questo sarà il nostro "Diario dal Teide".

Il Teide, già, la vetta più alta della Spagna, un vulcano, sull'isola di Tenerife, che raggiunge i 3715 metri sul livello del mare, con ancora un lato avvolto nel mistero, almeno nell'immaginazione, come tutte le vette. È la prima volta che Elisa Longo Borghini, Trek Segafredo, viene in altura qui, lei che il primo ritiro in altura l'ha fatto nel 2011, a Livigno. Certo, del Teide ha sentito più volte parlare, perché sul Teide vanno molti ciclisti a costruire il lavoro della stagione che verrà, ma arrivarci è tutta un'altra cosa: «Lo scorgi da lontano sull'ampia strada che percorri. Pensi che, lassù, sia il luogo della solitudine, invece no, invece, qui, durante la giornata, non ci si sente soli. Ci sono navette che accompagnano i turisti, c'è, soprattutto, la funivia che arriva in vetta e che continua a percorrere il suo tragitto, a scandire il tempo che passa». Longo Borghini ripensa alla montagna, a quello che per lei ha sempre significato, al fatto che, ci dice, forse, è necessario esserci cresciuti per conoscerla meglio.

«Potrei dire che sono sempre andata a pedalare in montagna: pedalavo ore e ore, da sola, strada dopo strada, passi e valichi in successione, cambiava la vegetazione, cambiava l'aria, mi stancavo, mi sfinivo in montagna. Però, per qualche ragione, ho sempre avuto la spinta per tornarci». Del resto, Elisa Longo Borghini, fra le montagne, è cresciuta, quelle del Verbano Cusio Ossola che non hanno l'aspetto lunare che si nota affacciandosi adesso alla sua camera d'albergo, ma sono sempre montagne e la spiegazione del suo carattere, del suo modo di essere, la trova proprio vicino a casa.
«La nostra è una vallata, le vette sono tutte attorno, da qualunque parte guardi. Non è detto che chi ci arrivi si trovi subito a proprio agio perché spesso piove e, quando fa freddo, l'aria punge. Ma chi resta, chi ha pazienza e inizia a camminare scopre cosa c'è nei meandri della vallata: certi scorci, quel verde che resta in memoria. Ora che ci penso, io assomiglio a quella vallata. All'inizio posso sembrare sulle mie, "musona", in realtà non lo sono. Mi piace ridere, rido di gusto, ma ho bisogno di tempo. Perché, per iniziare a ridere, devo iniziare a fidarmi, a conoscere. La vera Longo Borghini è questa». Intanto c'è il Teide e anche "lui" è da conoscere, da studiare. Non a caso, Elisa cerca informazioni, ovunque, legge, studia, fotografa oltre a pedalare e, poi, riflette e si preoccupa di ciò che resterà di tutto questo, quando sarà passato molto tempo: «Posso dire di vedere i luoghi da una prospettiva privilegiata, quella di atleta. Una prospettiva che, però, non prevede un tempo per il turismo, perché i luoghi ci scorrono accanto e non si visitano quasi mai. Però la cultura ci è concessa, possiamo informarci e tornare a casa sapendo qualcosa in più. Viaggiare consapevolmente. Altrimenti cosa resta? Solo valigie e zaini che si riempiono e svuotano di continuo. Ora sto cercando di capire qualcosa in più a livello geologico di quel gigante, del Teide».

I primi giorni di un ritiro in altura vanno affrontati con tranquillità, con calma, altrimenti "ti finisci", precisa Elisa in modo deciso. Fra poche ore, con lei ci sarà anche Paolo Slongo, il suo preparatore. Intanto si pedala dai 1980 metri fino ai 2300 e quando si arriva intorno ai 2100 il respiro inizia a essere più difficoltoso. «La sensazione è quella del cuore in gola, qualcosa che si avverte spesso all'inizio. Il corpo deve ambientarsi e serve qualche giorno. Questo processo avverrà anche quando tornerò a casa e dovrò abituarmi nuovamente a un'altra aria. Quello è il momento in cui "smaltisci il ritiro", la migliore forma fisica arriverà dopo poco». C'è anche il fatto che, in ritiro, si è lontani dalle gare e ci si resta per molti giorni. Ovviamente è una percezione soggettiva, tuttavia, per molti, il ritorno in corsa è difficile. Così, almeno, è successo spesso a Longo Borghini.
Lassù ci si prepara per un traguardo distante settimane, a volte mesi. Un traguardo che, inutile nasconderselo, quest'anno sarà il Tour de France. Anzi, ancora meglio, come aggiunge lei stessa: il mese di luglio, arrivare pronti in quei giorni e «quando si è pronti, ce la si gioca ovunque». La differenza non è sottile e Elisa l'ha compresa in un momento di apparente rammarico: l'anno scorso, dopo il Tour de France. «Ricordate come avevo vinto lo Women's Tour? Bene, avevo provato sensazioni buone e avevo anche vinto divertendomi e facendo divertire. Eppure, dopo il dolce amaro lasciato dal Tour, sembrava cancellato. Mi sono resa conto che sono bastate le prestazioni della Grande Boucle e delle Ardenne perché mettessi tutto in discussione». Il tutto per diversi giorni, fino a che, a fine stagione, si fa il punto di ciò che si è fatto e la prospettiva cambia: «Avevo vinto una Parigi Roubaix a cui non pensavo nemmeno di partecipare, non potevo dimenticarlo. Forse, in quel momento, si è fatta ancor più strada la consapevolezza che fosse giusto lavorare in vista di un periodo più che di una singola gara».

L'ubicazione della camera di Longo Borghini fa sì che dalle finestre si senta il rumore del vento, una brezza che, a tratti, risuona. Non c'è solo l'allenamento in un ritiro in altura, c'è anche il tempo della riflessione e Longo Borghini dedica molto spazio all'introspezione. «Anche la solitudine, che si prova quando tutto tace, non è negativa. Anzi, credo sia una solitudine che fa bene perché consente di fare chiarezza. Talvolta non ci si pensa, ma abbiamo bisogno di momenti da dedicare alla riflessione, per avere un quadro più chiaro delle cose. È un tempo importante quello che le dedichiamo, non meno importante di quello sui pedali. Tutto è strettamente collegato: quello che hai già fatto, quello che stai facendo e quello che farai. Penso non esista futuro, senza quello che hai già lasciato alle spalle. Di più: serve oggettività nel vedere quello che è già passato. Serve la volontà di vedere gli errori, perché imparerai, ma anche quella di vedere il buono che c'è stato perché ti renderà forte, ti restituirà consapevolezza»
In quei momenti di solitudine, di riflessione, il vento sembra portare odore di zolfo, un odore che Longo Borghini non è nemmeno certa appartenga a queste zone: «Penso sia un ricordo di quando, da bambina, andavo in vacanza alle isole Eolie. Sull’Isola di Vulcano c’è quel profumo. Qui non credo, gli altri non lo sentono. A me, però, piace pensare che sia reale, così non indago oltre. Mi fa felice percepirlo».
Adesso fuori c’è solo silenzio. Martedì sarà giorno di test e noi torneremo lassù, seppur a molti chilometri di distanza. Il “Diario dal Teide” è solo all’inizio.


Finire non mi spaventa: intervista a Martia Bastianelli

Ora che Marta Bastianelli ha annunciato che il Giro d'Italia femminile del 2023 sarà la sua ultima corsa, capita che le si chieda se di smettere avesse già pensato altre volte: «Sì, devo essere sincera, ci ho pensato e ci ho pensato più volte. Credo ogni atleta, in certi momenti, ci pensi. Poi, sai come siamo fatti, andiamo avanti, ma il pensiero viene, per momenti difficili o circostanze. Quando sono rimasta incinta, per esempio, ero quasi sicura che non avrei più corso. Ho continuato soprattutto grazie al mio compagno, anche lui ciclista. Ricordo il giorno in cui mi disse: "Visti i risultati che ottieni, non è giusto che sia tu a smettere. Smetto io, tu continua. Tu devi continuare". Anche in quel caso ho fatto bene a non smettere». Oggi, però, no. Non ci sono ripensamenti su questa scelta, di nessun tipo. Lo si capisce quando, dal nulla, ci dice: «Sono felice». Si lega a tutto, si lega in particolare a una situazione che Marta Bastianelli vive con la sua squadra, il Team UAE Adq.

«Sono una professionista e so che non è scontato sentirsi dire: "Stai tranquilla, fai ciò che ti senti di fare". Non capita spesso, anzi capita raramente. Loro me lo hanno detto e, anche se sono al diciassettesimo anno fra le élite, questo mi colpisce ancora. È vero che ho annunciato il mio ritiro, ma non ho ancora appeso la bicicletta al chiodo: fino all'ultimo chilometro dell'ultima gara voglio restare la professionista che ho imparato a essere. Voglio dare tutto. Questa è la sfida». Sì, Marta Bastianelli smetterà, questo è certo. Anzi, era certo ancora prima che lo dicesse, come spiega lei. «Se prendiamo con entusiasmo l'inizio delle cose, non capisco perché abbiamo spesso questo problema con il finale. Questa malinconia, questa nostalgia. Mi mancherà questo lavoro, certo che mi mancherà. Molto, non poco. È un lavoro così totalizzante che diventa la tua vita, in realtà, però, non bisogna dimenticare che la vita è altro. Il punto è saper scegliere, quando hai scelto e sei convinto, poi, la fine è un dato naturale». Così, in estate, Bastianelli uscirà da questa "bolla", come la chiama lei, che è l'attività professionistica e inizierà un altro percorso, anche se ancora non sa quale. Il sogno sarebbe restare all'interno del mondo del ciclismo.
Un sogno che è, poi, anche un modo di agire. Per esempio, in questo ritiro di inizio stagione in Toscana. Nuove compagne, molte giovani, e anche atlete di esperienza come Alena Amaliusik. Marta Bastianelli, trentacinque anni e sicuramente molte cose che potrebbe insegnare, tuttavia usa molto più volentieri il verbo imparare. «Ha a che vedere molto anche con il domani. Più cose imparerò da queste ragazze, meglio potrò provare a essere un direttore sportivo, ad esempio. Dei sogni ci si prende cura in questo modo: studiando, imparando. Essere state campionesse nella nuova vita non conta nulla, proprio nulla, in ogni settore. Sarà, invece, importante conoscere ogni sfumatura di una atleta, compresi aspetti legati alla sua cultura, alla sua terra d'origine, ai problemi che incontra quotidianamente». E Bastianelli di cose ne ha imparate anche ultimamente, molte rispetto all'alimentazione di un'atleta.

Poco prima di partire per questo ritiro, Clarissa, sua figlia, le si è avvicinata e le ha detto: «Mi raccomando, goditi il ritiro perché sarà uno degli ultimi». Lei ci ha pensato molto: «Per lei sono stata spesso una "mamma volante" e da piccola avrebbe voluto avermi più spesso al suo fianco per fare le cose che tutte le mamme e le figlie fanno assieme. Ora mi segue in televisione, segue le gare e conosce le mie compagne. So che rinunciare a questa parte della sua realtà mancherà anche a lei, so che quella "mamma volante" mancherà anche a lei. Quel giorno non stavo pensando a questa ultima volta e, sono sincera, sentirmelo dire mi ha fatto effetto». La figlia di Marta Bastianelli è competitiva, pratica tennis e nuoto, e a Bastianelli piacerebbe anche vederla in sella, ma c'è un punto interrogativo. «Credo non ci siano ancora le strutture adatte, almeno nelle nostre zone, per permettere a questi bambini di andare in bicicletta in sicurezza. Quello che succede sulle nostre strade lo vediamo tutti i giorni e abbiamo anche finito le parole per parlarne. Servono i fatti. Il ciclismo è parte della nostra famiglia ma per mia figlia, con queste condizioni, avrei dubbi, un genitore non può non averne. Nonostante mi piacerebbe».

Ci sarebbero altri tasselli da aggiungere alla carriera di Bastianelli, in fondo, c'è sempre qualcosa in più che si vorrebbe o si potrebbe fare, però, la prospettiva, con gli anni, cambia: «Pensi che a casa hai una bambina, pensi che ti piacerebbe diventare mamma ancora una volta ed in volata inizi ad evitare di lanciarti in spazi in cui prima ti buttavi. Una ciclista vuole vincere e anche io voglio farlo ancora, però, a trentacinque anni, se possibile, sono più contenta quando insegno qualcosa agli altri, quando permetto a qualcuno di non fare errori che io ho fatto». Qui si ritorna al tema alimentazione: «Bisogna sbagliare, fuggire dall'errore è un male. La via principale di apprendimento è quella. Anche io, da giovanissima, ho provato a preoccuparmi perché avevo mangiato un panino in più rispetto a quello previsto nel mio piano nutrizionale. Sai perché? Perché non mi conoscevo ancora abbastanza. Oggi l'attenzione è aumentata ed è giusto così, però, una atleta deve anche sapersi gestire e questo arriva con l'esperienza. Se mangi qualche grammo in più di un alimento, puoi diminuire l'altro. Se sei stanca e fai mezz'ora in meno di allenamento non succede nulla, se insisti stai peggio. Essere atleti significa anche conoscere il proprio corpo che è il nostro tutto. Le sensazioni vanno ascoltate». Perché accade questo? «Il mondo social non aiuta. Espone a un confronto continuo. Il senso di colpa appartiene a tutti e, se ogni sera sei sollecitata al confronto con le colleghe che pubblicano l'allenamento del giorno, le conseguenze non sono buone. Tempo fa non si sapeva ciò che facevano le altre. Non è, per forza, sbagliato conoscerlo, è sbagliato non concentrarsi su ciò che chiede il tuo corpo». In ogni caso, il ciclismo è cresciuto e cambiato a 360 gradi, a partire dai trasferimenti: «Sembra scontato che tutto lo staff pensi a noi, non lo è. Tempo fa, anche un trasferimento lungo, uno spostamento, era un problema».

L'anno scorso sette vittorie, la più bella nel giorno del compleanno, perché era da tanto che non succedeva e perché serviva alla squadra. Quest'anno parte dal freddo della Toscana e da quelle parole a Erica Magnaldi in allenamento, proprio ieri: «Vorrei poter aprire la finestra al mattino e non preoccuparmi del tempo che fa lì fuori. Questa fatica non mi mancherà, non più». Anche se il sogno va ancora nella direzione della fatica: «Mi piacerebbe trovare tanti tifosi ad aspettarmi a Roubaix. Io li vorrei aspettare lì».

 


Di Latifa e della bicicletta che la porterà in Marocco

«Se penso al Marocco, penso a qualcosa di speciale, ma, se penso a casa, penso all'Abruzzo. Qui c'è l'aria che ho sempre respirato, l'acqua che bevo tutti i giorni e la Maiella da guardare da lontano, da ogni prospettiva. Il Marocco è la mia radice, la mia origine. È menta, zafferano e cannella, l'ocra delle sue città, il rosso, le montagne innevate, l'azzurro del mare oppure il blu di Chefchaouen, una città in cui ogni casa, ogni porta, ogni finestra è blu. Il Marocco è il mio nome arabo e il mio cognome che sa di un'altra terra». Latifa Benharara dice così, lei che è nata e cresciuta a Sulmona da genitori di Casablanca. Latifa che è giornalista, dipinge, viaggia molto, scrive ancor di più ed è direttore di corsa. Una specie di missione quest'ultima perché c'è un dovere di restituzione nelle cose che accadono. La bicicletta è una parte importante del suo mondo «ma senza sicurezza la bicicletta è un'immagine che sfuma sullo sfondo, cosa faranno i bambini di domani, cosa faranno i giovani di oggi? La sicurezza viene prima di tutto, nelle gare e fuori. Mettersi a disposizione della sicurezza significa mettersi a disposizione delle biciclette. Quelle di oggi e quelle di domani».
Italia e Marocco, due culture, tanta strada in mezzo e molto altro. Un giorno, in bicicletta, Latifa ci ha pensato: «E se potessi arrivare a Casablanca in bicicletta? Se potessi sentire la musica di quella città, le sue persone e le sue spezie dopo aver pedalato da casa fino a lì? Come sarebbe tutto questo?». Quando Latifa era ancora bambina, i suoi genitori lavoravano ai mercati generali e avevano un furgone che in estate diventava un camper e, in tre giorni, li portava in Marocco. Più di 3000 chilometri, ora come allora. Oggi, però, quei chilometri Latifa Benharara li percorrerà in bicicletta, attraverso strade secondarie, attraverso quattro nazioni. Poi andrà oltre, fino alle porte del deserto per altri mille chilometri, fino alle porte del Sahara. Circa cento chilometri al giorno, circa 40 giorni. Si chiama "From Maiella to Sahara Bikelife Experience".
«In alcuni stati arabi andare in bicicletta può essere un problema per una donna e questo non è giusto. Non solo lì però. Per altre ragioni accade spesso che una donna non si senta a proprio agio in sella o in un viaggio da sola. Si tratta della società. Sono stata in Nepal, in India, in Cina, con uno zaino sulle spalle e tanti passi nelle mie scarpe. Le donne hanno voglia di avventura, di fatica, di scoperta e per tutto questo hanno molto più coraggio che paura. Penso ad Alfonsina Strada, penso a tutto il tempo che è passato, alle cose che sono cambiate e a quelle che ancora devono cambiare. Lo dobbiamo a persone come Alfonsina e a noi stesse». Quattromila chilometri e la bicicletta che unisce incontro e comprensione: attraverso il sudore, il far fatica, si diventa tutti più aperti a capire. La fatica permette di capire, mette in ascolto. E quando si è in mezzo alla natura questo ascolto è amplificato, fuori da ogni schema sociale.
«Avete mai fatto caso al rapporto che hanno i bambini con la bicicletta? Sembrano intendersi senza bisogno di spiegarsi, anche se cadono e si sbucciano le ginocchia. Non hanno paura. Ricordo il giorno in cui insegnai a una bambina l'equilibrio delle due ruote; ricordo come rideva, come mi abbracciava. Come io abbracciavo lei. Credo sia una sorta di istinto». Così, quel viaggio ora non riguarda più lei sola, ma tutte le persone che ci credono e chi vorrà provare ad affiancarla per qualche chilometro perché «chi non conosci e incontri per caso è spesso prezioso. Non bisogna temere chi non si conosce, semmai bisogna aver voglia di conoscere».
Poi ci saranno le offerte che chiunque potrà fare e serviranno a quel futuro della bicicletta, ai bambini che stanno imparando a pedalare e a quelli che immaginano una bicicletta nel loro lavoro: «La realtà è che ci sono famiglie che non possono permettersi di comprare una bicicletta ai loro figli, che non possono mandarli a una scuola di ciclismo. Serve una possibilità per loro, un'altra possibilità». Strada, strada, strada e ancora strada e una voce che si increspa, quella di Latifa che pensa ai genitori: «Forse questo viaggio ricambierà un poco tutto ciò che loro fanno e hanno fatto per noi. I loro sacrifici. Vorrei accadesse. Anche per questo non ho paura, anche per questo ho imparato a essere coraggiosa. E il coraggio ha a che vedere con il bene, con la passione». Di tutte le cose che vorremmo dire, ora bisogna dirne solo una. A voce alta: "Buon viaggio". Lì c'è tutto.


Van Aert-Gravel

Wout van Aert ha avuto un'idea e si sa come sono le sue idee. Fanno parlare, anche perché già solo il fatto che ci sia stato il pensiero fa intuire la realizzazione. E si sa come Wout van Aert realizza le proprie idee: in grande, senza risparmiarsi, senza tenere quel poco di fiato per un'ultima pedalata che, chissà, potrebbe servire. Vogliamo dire "esagerando"? Diciamo esagerando. Del resto, sembra che anche Gianni Brera trasmettesse questa idea ai colleghi: meglio esagerare, talvolta, meglio non risparmiarsi, perché nell'esagerazione può trovarsi la bellezza. Non sempre, ma ogni tanto può servire. In fondo, il dosato, il misurato, il contato perfettamente, in certe circostanze, ha poco a che vedere con l'essere ciclisti, mestiere in cui c’è ragione, c’è grande attenzione al dettaglio, ma ancor più istinto. Nulla con l'essere Wout. Nulla con l’essere van Aert.
L'idea è il gravel. Sembra gli sia venuta vedendo in televisione il Mondiale gravel di questo autunno e un poco lo immaginiamo davanti al televisore. Sembra gli sia piaciuto, più che altro pare gli sia piaciuto, gli piaccia, il gravel. Così dopo quel pomeriggio deve essersi detto: "Perché no?". Ovvero perché non provare anche questo che al fuoriclasse belga appare, prima di tutto, come un bellissimo viaggio. Anche questo è interessante perché è interessante raccontare il ciclismo in questo modo, risalendo alle origini del pedalare, anche se corso da atleti che si contendono titoli e maglie iridate. Detto in altre parole: sulle fondamenta si può costruire come meglio si crede, ma senza fondamenta non vi è costruzione. E le fondamenta qui sono le radici dell'andare in bicicletta. Ancor più interessante, forse, è l'altra motivazione che van Aert apporta per questa scelta.
In un ciclismo in cui le pressioni sono tante, in cui si parla sempre più dell'aspetto psicologico e della tutela di questo aspetto, Wout van Aert, pensando al gravel, pensa a una possibilità in cui le pressioni siano meno, in cui lo stress sia minore rispetto agli altri traguardi annuali. Vogliamo usare la parola "divertimento"? Perché no? Così, proprio ieri, sui profili social di Wout van Aert è apparsa una storia di lui intento a sperimentare il gravel. Un lunedì, su una strada sterrata, in mezzo ai boschi, col cielo cupo di dicembre e il freddo dell'inverno.
L'abbiamo visto vincere sul Ventoux, in pianura, a cronometro, in attacchi folli troppo lontano dal traguardo, quegli attacchi che calamitano l'attenzione anche nei più caldi pomeriggi di luglio, lo vediamo abitualmente nel fango e anche lì vince e meraviglia ogni volta. Il prossimo Mondiale gravel sarà in Italia, poi in Belgio, probabilmente lui sarà presente e del risultato non diciamo nulla. Questo è il dato di fatto, poi c'è il gravel come scelta di bicicletta e di viaggio. Come scelta per un fine settimana o un inizio settimana fra la terra, la ghiaia. A prescindere dal Mondiale che verrà, Wout van Aert ha pensato a questo modo di andare in bicicletta, queste sono le fondamenta, le radici di cui parlavamo, quelle che restano oltre qualunque gara, questa è stata la sua idea, il suo viaggio, il suo modo per un altro pizzico di esagerazione. Quella che fa bene, quella che fa bellezza.
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A proprio agio

Si può pedalare anche da soli ed è ugualmente bello, ma si sta meglio quando si sa che, volendo, si può fare una telefonata e qualcuno è pronto a mettere scarpini e casco, scendere in garage, prendere la bicicletta e arrivare. Valeria Zappacosta ci ha pensato proprio mentre andava ad incontrare una sua amica, proveniente dal Veneto, in Abruzzo per qualche settimana in estate. «Credo che la possibilità di quella telefonata, di quel messaggio per dire "vieni via con me", sia importante, anche se poi si sceglie di andare da sole. Certe volte sono le possibilità che ti fanno partire. Anche nel più piccolo dei paesi c'è sicuramente qualcuno con lo stesso nostro desiderio di scendere in garage, salire in sella e andare. Qualcuno che, magari, non parte nemmeno, perché si sente solo o per altri motivi».

Valeria ha la certezza che questa sensazione riguarda tutti e ha riguardato tutti almeno una volta. Ha pensato che, forse, riguarda ancora di più le donne perché le è capitato, purtroppo, di sentire dire che «il ciclismo è uno sport maschile» e, ancora prima, le è capitato di essere in sella, da sola, e sentirsi dire che «quella salita è complessa, quel giro è troppo lungo, dovresti farlo in compagnia». Altre parole sbagliate, dette senza alcuna attenzione, gliele hanno raccontate. «Sai il bisogno primario che tutti abbiamo? Essere ascoltati ed essere ascoltati davvero, non per abitudine o perché non se ne può fare a meno. Essere ascoltati e sapere che gli altri si ricordano ciò che hai detto, si ricordano come ti senti, come ti sei sentito oppure ciò che ti fa paura, ciò che non vorresti. Ho scoperto che la bicicletta è il mezzo ideale per ascoltare».
“Pedale Rosa” è quella possibilità di una telefonata e di una pedalata assieme, quando si capita nel paese di quella ragazza che si è conosciuta solo perché va in bicicletta come te. In realtà una definizione vera e propria non c'è, «perché è sbagliato etichettare qualcosa solo con ciò che rappresenta per te, impedendo agli altri di riconoscersi. Per ciascuna quella possibilità è qualcosa di diverso e rappresenta qualcosa di diverso». Per esempio, c'è chi in sella non saliva perché non si sentiva apposto con il proprio fisico e con tutte quelle parole sbagliate si era convinta che davvero non stesse bene in bicicletta. Poi ci è salita, quest'anno, durante il Giro d'Italia e, dopo qualche attimo, ha capito che, in realtà, lei in sella stava bene, soprattutto che si sentiva bene.
Monica Marucco fa parte di questo gruppo e a quel "sentirsi bene" offre una propria risposta: «Significa sentirsi a proprio agio e, anche se non lo ammettiamo, come esseri umani spesso ci sentiamo a disagio nelle situazioni quotidiane. Trovare qualcosa che ci fa sentire davvero a nostro agio è un buon rimedio perché alleggerisce anche le altre situazioni. La bicicletta è questo, la bicicletta può essere questo». Si trova ciò che fa stare bene e poi si cercano le persone con cui condividerlo. «Sì, perché una parte dell'essere a proprio agio dipende anche dall'essere messi a proprio agio. In sella, questo passa dal condividere un ritmo, una velocità, un modo di intendere la bicicletta». C'è chi partecipa a gare, chi a Granfondo e chi, semplicemente, sta scoprendo il piacere di arrivare in un luogo solo con le proprie forze, quel piacere e quella fatica che rendono più importanti i luoghi, più forti i ricordi. Qualcosa che rende orgogliose di quel gesto e di ogni piccolo passo avanti.

Già, perché in bicicletta, alla fine, si viaggia. Latifa, un'altra ragazza che ha cercato la possibilità di quella telefonata, di quel "vengo anche io" ne ha parlato proprio con Valeria. «Era un desiderio, dapprima, ora è un progetto perché ha iniziato a studiarlo. Vorrebbe pedalare dall'Italia sino al Marocco, per unire la sua terra d'origine e quella in cui vive. Due forme diverse del suo presente, perché la terra in cui nasci resta sempre». Latifa farà questo viaggio e due culture si incontreranno. In Italia farà questo viaggio affiancata dalle cicliste che di questo gruppo fanno parte. Questo fa pensare.
Perché, ad oggi, i mezzi per "connettersi", ovvero per incontrarsi, sono molti, altamente tecnologici, in grado di mettere in contatto molte persone, eppure una delle connessioni che tutti conosciamo si riconduce alla bicicletta «che è un mezzo antico, sempre uguale nelle proprie linee base, seppur proiettata nel futuro» continua Monica. Se la domanda è perché, la risposta è puntuale: «Perché permette un incontro reale, perché il gruppo che forma è reale, non solo virtuale. Reale anche se le persone vivono a molti chilometri di distanza perché prima o poi ci si conosce». E la conoscenza che si fa in bicicletta è particolare perché toglie molte sovrastrutture, apre al racconto della propria persona anche dopo un semplice saluto e soprattutto restringe lo spazio per il giudizio.
«Sì, perché, se ci si fa caso, in bicicletta si tende a focalizzare l'attenzione sul miglioramento- spiega Valeria- su ciò che è cambiato in meglio rispetto alla volta precedente. Fosse anche solo un dettaglio. Non è poco». Così, per incontrarsi, si possono percorrere anche trecento chilometri e cambiare paese, città, regione, anche da sole, senza un motivo preciso perché, ci dice Monica, «quando fai tue alcune consapevolezze, quelle che ti portano a concentrarti su quello che sei e che vuoi o non vuoi fare, il resto passa in secondo piano, non sprechi tempo perché sai che il tempo in bicicletta è prezioso. Non per forza per andare più veloci degli altri e arrivare prima. Si può anche andare lentamente. Importante è il tempo in cui, grazie alla bicicletta, ti senti meglio. E non vedi l'ora di ripartire».


Come in una fornace

Di Transaphar Tel Aviv-Il Cairo 2022 vi avevamo già parlato, questa estate, prima che questa storia partisse, ancora meglio, prima che i suoi protagonisti, Niccolò, Giovanni e Lorenzo, partissero per un viaggio di 1000 chilometri e 10000 metri di dislivello fra queste due città. Le storie, però, si raccontano almeno due volte: quando si progettano e quando si vivono. Così il filo del viaggio di questi tre ragazzi lo abbiamo ripreso questo autunno, proprio da dove lo avevamo lasciato. Da quel ponte per arrivare in Giordania per cui i tre non avevano il visto necessario e dal timore che in bicicletta a Il Cairo avrebbero potuto non arrivare mai. Le altre strade erano più lunghe, troppo lunghe, rispettivamente cento e quattrocento chilometri in più.
«Abbiamo provato- spiega Niccolò- ci siamo avvicinati a quei militari e, sotto a quel sole, a più di quaranta gradi, abbiamo iniziato a spiegare quel che avremmo voluto. Ci avevano detto tutti che sarebbe stato impossibile, forse non avremmo dovuto crederci più, invece...». C'è qualche istante di silenzio, poi la voce torna: «Hanno guardato le biciclette, hanno controllato tutto, ci hanno fatto firmare molti fogli, ma, alla fine, ci hanno fatto passare. Hanno compreso, hanno capito e di tutto il viaggio questa comprensione è forse una delle cose più belle». Una parola nuova arriva proprio a questo punto della conversazione: audacia. La convinzione di questi tre viaggiatori parte da quel detto "la fortuna aiuta gli audaci".

 

«Si pone sempre l'accento sulla fortuna, noi crediamo che forse l'accento vada posto sull'audacia. A patto di essere coraggiosi si può anche essere fortunati, qualcosa di buono può capitare, ma, senza coraggio, non c'è fortuna». Loro, per quella fortuna, hanno viaggiato in piena notte, per sfuggire al caldo, e si sono fatti forza anche di fronte alle parole più brutte.
Prima di una salita, a tarda notte, in un'aria di servizio, Lorenzo si ferma a parlare con il benzinaio: un signore di mezza età che proprio non vuole credere al loro viaggio, che lo ritiene impossibile, che ritiene assurdo scalare quella salita in piena notte: «Voi non sapete cosa c'è fra quelle strade: è una fornace per cani randagi». Il traduttore del telefono restituisce queste parole, ma Lorenzo, Giovanni e Niccolò non vogliono crederci, credono si tratti di un errore. Di lì a poco tutto sarà chiaro.

«Era davvero una fornace- chiosa Giovanni- e in cima c'erano davvero cani, tanti cani randagi. Siamo riusciti a passare grazie alle luci di un'auto che ha illuminato il percorso, Niccolò ha forato all'inizio della discesa. La paura è rimasta con noi per molto tempo quel giorno». Insieme alla paura, però, anche la gentilezza: quella delle persone per strada, delle famiglie che applaudivano al loro passaggio, quasi li conoscessero, certamente incuriosite dalle biciclette. Lorenzo racconta così: «Le poche biciclette che abbiamo visto erano quelle dei bambini, un gioco per loro che cercavano di batterci il cinque, di festeggiarci».
La gentilezza, sempre importante, quando è incontrata per strada vale di più, cambia le cose perché, in strada, siamo tutti soli, almeno in un certo senso: «Quando su una salita, a quaranta gradi, finisce l'acqua, si spegne la luce, anche se non hai sete, anche se non ci stavi pensando. Da quel momento ci penserai ogni minuto. Anche lì la gentilezza ha cambiato le cose: un camionista si è fermato, ci ha lasciato tre litri d'acqua, ci ha permesso di proseguire».

 

In fondo, spesso basta un gesto, un segnale. Niccolò, Lorenzo e Giovanni erano nei pressi del Mar Morto quando l'imprevedibile si è ripresentato: tre forature in un tratto sterrato e la strada che corre veloce lontano da locali, supermercati e hotel. Chilometri e chilometri senza nulla, la stanchezza, ad un certo punto la fame. Solo una base militare, solo quella. «Mi sono avvicinato a quei militari e ho fatto il classico gesto di chi ha fame, portando la mano alla bocca. Dal volerci mandare via, ci hanno aperto le porte dei locali in cui sostavano tutti i militari e hanno iniziato a mettere di tutto su un tavolo: tonno, pizza, pomodori, bevande. Alla fine ci si capisce, alla fine basta un gesto». Qualcuno tra quei militari ha anche voluto provare le loro biciclette.
Ancora chilometri, ancora pedalate, ancora acqua e cibo, ancora stanchezza, sudore, notti sempre più brevi e giorni sempre più lunghi, anche se fuori è buio, poi Il Cairo. «Si sente, si sa che è là in fondo, ma non ci si crede mai davvero. Almeno fino a quando si intravedono le piramidi. Non è una novità che in Egitto ci siano le piramidi, ma vederle quando arrivi da quattordici giorni di viaggio in bici fa la differenza. Si tratta di una botta di felicità». Simile alle matite portate nelle borse e donate ai bambini ad Amman o a tutte le volte in cui,. durante il viaggio, le luci delle moschee li hanno sorpresi nella notte. Simile a tanti altri piccoli momenti, semplici.
Nel negozio di un distinto signore egiziano, i tre ragazzi comprano tre pettini, un ricordo, un souvenir, in realtà l'unica possibilità perché si vendono solo pettini. Li porteranno a casa, saranno un simbolo, di quel viaggio e di ciò che accade sulle strade che meno si conoscono quando si parte e si ha un pizzico di coraggio in più.
Questo viaggio lo racconteranno ancora, molte volte, ed è giusto così. Perché le storie si raccontano sempre almeno due volte, ma in realtà molte di più.


La strada non finisce qui

Emanuele Mei è un collega, un giornalista. Uno di quei giornalisti che sono stati in Ucraina a raccontare la guerra e poi ai confini, ai valichi, mentre le persone cercavano di fuggire, di scappare. Non era la prima volta, Emanuele è stato anche in Bosnia e in quei luoghi, quelli tormentati dalla guerra, ha fatto proprio, ancora di più, ancora meglio, il significato del termine conoscere: «Conoscere una persona- ci dice- non significa solo incontrarla. Incontrare qualcuno è importante, conoscere è altro. Significa accettare di condividere una parte di realtà con chi incontri, per quanto sia difficile, per quanto sia una realtà che non ci piace». Quella realtà, talvolta, è tale da togliere i colori, da lasciare tutto indistinto, tutto uguale.

«Se sono partito in bicicletta verso Capo Nord è stato anche perché ho iniziato a vedere tutto in bianco e nero. Anzi, mi correggo, magari fosse stato bianco e nero, ci sarebbe stata una cesura, un taglio, una differenza. Era tutto grigio, tutto uguale e grigio. Quando vivi certe esperienze accade». Per riappropriarsi di quei colori ha scelto Capo Nord perché è l'immagine di ciò che va oltre il limite, oltre quel limite che, in un viaggio, cambia di volta in volta, che si sposta, si allontana o si avvicina a seconda di dove sei, di come stai, di cosa pensi e cosa sogni. Capo Nord resta, per dirla con le parole di Emanuele Mei, «lontano, un luogo che richiede uno sforzo importante , fisico e mentale», un luogo che, una volta raggiunto, in un viaggio così, non può che cambiare qualcosa in te.
Per ritrovare quei colori ha scelto le strade meno conosciute, spesso off road, la stagione sbagliata, è partito il primo agosto ed è arrivato ieri, il 5 novembre, dopo 64 tappe e 5800 chilometri. Ha scelto la bicicletta: «La amo, la amo profondamente. A volte la butterei via, in un burrone, da qualche parte pur di non vederla. E lì so che la amo. Perché quando ami forte, odi anche un poco. Un filo sottile, sottilissimo». Ha scelto tutto questo, si è preparato e poi è partito, dalla Liguria.

La bicicletta è stato un mezzo, lo dice ora, sdraiato su un letto, dopo tempo, dopo che ieri all'arrivo ha montato una tenda in mezzo a una bufera di vento, dopo aver visto quel globo che, solo cinquecento metri prima, sembra non esistere, non esserci, coperto, nascosto. «Quella tenda l'ho montata anche in Svezia, l'ho montata in luoghi in cui avevo visto tracce di lupi, impronte di orsi. L'ho montata in giorni di pioggia che si susseguivano senza fine, anche quando mi chiedevo solo: "Ora come faccio? Come si va avanti? Se non arrivassi?". Sono arrivato e di questo viaggio, all'esterno, non resterà nulla o quasi, ma dentro di me niente è come prima. A me interessa questo».
Si parla di tutte le volte in cui, da solo, ha parlato con quella bicicletta, le ha detto di tutto e di più e non gli interessavano risposte, gli interessava poter raccontare, chiedere, interrogarsi. Talvolta dire quanto era bello pedalare, in Germania, ad esempio, che “sembra Fantasilandia”, talvolta dire quanto era difficile. Anche in Lapponia, anche con la brina e il ghiaccio in ogni dove, anche sul manubrio, sulla sella. «La Scandinavia, su una carta geografica, sembra piccola, un puntino, un pezzetto, a nord: in realtà non finisce mai. Forse non ho avuto paura, non direi così, credo che la paura sia riservata ad altre cose, più grandi, ma dubbi ne ho avuti, domande anche, e con tutto questo ho individuato un altro limite da superare, dentro di me, non geografico, ma interiore».
Proprio perché i limiti si spostano e cambiano di volta in volta, dopo aver visto Capo Nord, dopo essere arrivato così lontano, la domanda gli è venuta spontanea: «E adesso?». Beh, Emanuele Mei ha riflettuto e in questi giorni continuerà a pensare, come ha fatto in viaggio, tutte le volte in cui si è fermato per scrivere, per esteriorizzare qualcosa che aveva interiorizzato, e di risposte, probabilmente, ne troverà ancora molte, diverse. A noi piace lasciarvi con la sua prima risposta, quella che si è dato sotto quel vento che ieri scuoteva tutto: «La strada non finisce qui. La strada non finisce a Capo Nord».


La Ciclovia Parchi di Sicilia nel racconto di Giovanni Visconti

I colori sono, in fondo, tutto ciò che serve per descrivere la Ciclovia Parchi di Sicilia. Il nero della terra, della sabbia, nei pressi dell'Etna, il bianco dell'Alcantara, con l'estate che è rimasta e l'erba che ingiallisce, il verde dei Nebrodi, con lo sterrato marrone e le pietre, e il colore tipico dello sterrato toscano delle Madonie da dove si intravede il mare. Ne parla così Giovanni Visconti che, assieme a Filippo Fiorelli e Paolo Alberati, ha percorso quei trecentocinquanta chilometri in quattro tappe, a fine ottobre e, oggi, ritornerebbe lì, in quella Sicilia che sente sua. «Quando ti dico che la Sicilia è stata il mio sacrificio intendo questo. Non l'ho mai conosciuta come avrei dovuto, voluto. Da ragazzo, forse, non vi ho trovato ciò che mi sarebbe servito per diventare ciclista, è stato tutto più difficile, mi è servito molto più impegno per farcela. Però, oggi, lo so: posso dire che se sono diventato ciclista è anche grazie a questa terra. Alla voglia di farcela che mi ha trasmesso». Ci pensava mentre pedalava a Piano Battaglia, pensava a tutte le volte che da ragazzino aveva percorso quella strada per allenarsi, insieme a suo padre, e a come la ricordava, o meglio, a come non la ricordava perché di quella strada era rimasta solo la fatica, il brutto tempo, il freddo, invece questa volta ha visto di più, ha visto quello che è realmente quel paese.

«Siamo partiti da Giardini Naxos e avevamo uno zaino per uno, niente più. Negli alberghi ci guardavano in modo strano, quasi fosse impossibile viaggiare così. Eppure ci è bastato quel poco. Per una vacanza con amici basti tu stesso, la mente sgombra da pensieri e l'idea di divertirsi. Per una vacanza fra amici basta l'idea di uscire dagli schemi. Schemi che la società mostra e noi ci imponiamo». Uscire dagli schemi anche durante un viaggio, ovvero non avere fretta di arrivare, di visitare, di vedere, di guardare o, più semplicemente, di viaggiare. «Significa fermarsi a pranzo e gustarsi il cibo, i sapori, i profumi, significa guardarsi attorno e non temere di allungare la strada per visitare un paese che appare in lontananza. Noi lo abbiamo fatto con Geraci e Gangi e per me sono state scoperte. Significa abbandonare per un poco tutti i programmi che facciamo e che ci condizionano la quotidianità. Significa che è possibile arrivare in albergo col buio, facendo attenzione, certo, ma si può cenare tardi e non cambia nulla. Anche il buio può essere un momento bellissimo in gravel. La domanda deve essere: mi sono goduto il viaggio? Se la risposta è sì, il resto conta poco».
Godersi il viaggio vuol anche dire guardare fuori dalle finestre dei luoghi in cui si è e notare ciò che si può osservare, abitudine che si è persa, ma le finestre sono fatte per guardare fuori: quel treno ad un unico vagone e quella ferrovia non lontano dall'Etna. «Lungo la Ciclovia Parchi di Sicilia, in bicicletta, ho parlato spesso con Filippo Fiorelli di questa terra. Lui c'è cresciuto, lui la conosce bene. Mi ha parlato di luoghi che poi abbiamo incontrato e di quel carretto siciliano che si sta facendo costruire, qualcosa di personale. Ecco quel carretto parlerà della sua Sicilia, credo sia una bella usanza. Ogni carretto racconta un pezzetto di Sicilia e basta pensare al giallo e all'arancione per immaginare parti di quest'isola».

In bicicletta Giovanni Visconti ha scoperto che vicino all'Etna, a 1200 metri, crescono funghi, anche bei porcini, una sua passione da sempre che, però, non pensava proprio di ritrovare qui. Qualcosa che ricorda questo autunno che tarda ad arrivare mentre attorno il colore dominante è ancora il verde che fa da contrasto allo sterrato.
«A Taormina mi sono dovuto fermare a fotografare i prodotti di un fruttivendolo. Erano perfetti in quella cornice, stavano bene, donavano alla cornice. Il gravel, vissuto così, permette di vedere anche questo: nei paesaggi più belli che ci troviamo di fronte ci sono sempre tanti particolari che non scorgiamo, perdendoci nel tutto. Una bicicletta, con la sua fatica e i suoi tempi, ti sfida a notare i particolari, anche quelli che nessuno considera».
Talvolta ci si ferma a parlare con chi si incontra o con i propri compagni di viaggio e si scopre che aprirsi fa meno paura. Si è meno riservati in sella, anche si tratta di parlare di un problema: «A me è successo con Paolo Alberati. Ho sempre provato un certo fastidio, un certo disagio, nel raccontare le mie cose, le mie riflessioni, con Paolo è diverso. Credo abbia a che fare anche con la bicicletta, con la sensazione di parlare liberamente che restituisce».
Resta ancora il pistacchio di Bronte, una sorta di sfondo di questo viaggio, la "manna", un dolce tipico, fatto a bastoncini, ma anche il gelato e i panettoni esposti per strada, perché chiunque possa assaggiarli. E con tutto quello che resta viene proprio da pensare che, prima o poi, bisogna tornare a pedalare in Sicilia. Visconti lo dice: «Amunì, chi sta aspittànnu?».


Il Festival del ciclismo lento

«Se mi guardo indietro, trovo i miei fallimenti. Fallisco spesso, come tanti, come i più. Ma, alla fine, con queste sconfitte cosa si può fare? Ho deciso di capovolgere la prospettiva e, con queste perdite, gioco, rido». Guido Foddis, giornalista, se ne intende di prospettive capovolte, pensate ad esempio al “Festival del ciclista lento”, da lui ideato, che si svolgerà, quest'anno, dal 28 al 30 ottobre a Ferrara. In una sua canzone, Foddis scrive: «Beati gli ultimi che la vita san goder». Questa è la filosofia del Festival: il primo, l'unico, non dedicato a chi va veloce, ai campioni e alle imprese nel senso classico del termine, ma alla lentezza.
«I più non riuscirebbero a fare le imprese dei ciclisti professionisti. In parte non ci riuscirebbero, in parte non ne sono nemmeno interessati. Però andare in bicicletta è anche per loro, per chi in bici va a prendere il pane e non è per nulla allenato. Negli anni quaranta, cinquanta, questa lentezza era riconosciuta con bonomia, alla lentezza si voleva anche bene. Serena Malabrocca me lo ha detto: “Mio nonno, andando piano, ha comprato casa”. E Malabrocca era un buon ciclista. Ma nella lentezza ha trovato la sua dimensione». Foddis ha letto e conosciuto Marco Pastonesi che, nel ciclismo, ha raccontato gli ultimi più dei primi, quasi fossero la sua squadra, il suo gruppo, e con Marco Pastonesi vive e racconta questa bellezza.

«Spesso la società ci porta a porre traguardi irraggiungibili o, anche se raggiungibili, fonte di poca soddisfazione perché poi non resta nulla. Forse non è davvero questo quello che si vuole. Ma ci si abitua, ci si adegua. L’ultimo, nel ciclismo fra amici, è colui che si sfila, che gode il paesaggio, che può assaggiare il cibo del luogo perché non ha fretta, è tranquillo, non deve rincorrere nessuno e, prima o poi, arriverà anche lui». Il “Festival del ciclista lento” capovolge le clsssifiche e i criteri: il primo è colui che va più lento, l’ultimo il più veloce. Ma andare lenti non è scontato, non è semplice. Bisogna allenarsi. Anche perché le prove sono molte: per esempio il record dell’ora al contrario. Chi farà meno chilometri, meno metri, in un’ora? L’anno scorso Davide Formolo e Maria Vittoria Sperotto hanno percorso 918 metri in sessanta minuti. Il dettaglio non da poco è che sulle bici utilizzate non ci sono freni.

«È difficile. Ognuno ha la sua tecnica. Sperotto riusciva ad andare pianissimo senza trucchi, Formolo frenava col collo del piede. Gilberto Simoni, per andare piano, “pinzava” la ruota con i guantini, fino a che i guanti non si sono consumati. C’è acido lattico anche nell’andare piano». La prima a stabilire questo record di lentezza è stata Serena Malabrocca. Memorabile è la volta in cui lo stabilì Bruno Zanoni, gregario di Baronchelli. «Quando seppe che Gibí aveva fatto questa prova, mi disse: “Un gregario non può essere più veloce del proprio capitano. Vengo anche io. Si allenó, riuscì a fare il record e fece talmente tanta fatica che finì in ospedale. Ma è ancora orgoglioso di quel giorno».
Si possono percorrere cinque chilometri in cinque ore e, per andare lentissimi, bisogna sforzarsi a tal punto che si arriva sempre in ritardo rispetto all’orario previsto, qualcuno perde il treno per tornare a casa, ma al “Festival del ciclista lento” bisogna metterlo in conto. «Di certo c’è che si divertono anche i campioni, anche se non riescono ad andare piano. Si divertono perché riscoprono il gioco, ridono di gusto, si sentono persone a tutto tondo, non solo atleti, non solo campioni».
E le biciclette migliori non sono quelle in carbonio ma quelle in acciaio, archeologia del ciclismo, prezioso perché figlio dei tempi, perché più pesante e quindi ideale per rallentare. «Giochiamo, giochiamo assieme e ridiamo di ciò che non siamo capaci di fare. Troviamo il sapore delle cose, di quelle che, a forza di correre, di voler essere primi e perfetti, abbiamo perso il ricordo”. Ferrara è lì per ritrovarlo quel gusto. Lentamente.


Una flotta di Cargo Bike a Milano

Solo le idee possono cambiare le cose e quella che ci racconta Davide Branca è un'idea che ha molto a che vedere con il cambiamento. Proprio nella sua città, a Milano che, a breve, potrebbe avere una "flotta di Cargo Bike", la “Solar Vibes Cargo Flotta”, a disposizione di tutti, in quattro punti della città. Ma andiamo con ordine. Si parla di cargo bike, un mezzo che Davide ha incrociato per la prima volta a Copenaghen, circa quindici anni fa. Lo ha guardato, fissato, scrutato e ne è rimasto affascinato. Non solo lui, in realtà, perché chiunque veda una cargo bike in città la segue con gli occhi per qualche istante. «Credo che molte persone vorrebbero averne una. Però non è così facile: in parte per una questione di costi ed in parte per una questione di spazi. Il nostro progetto nasce da qui». Il progetto di cui vogliamo parlarvi è una scelta che unisce questo aspetto, il desiderio di possedere una cargo bike e la difficoltà, per molti, di averla. Un desiderio che ha il suo centro in questo fascino.
«Una cargo bike è una bicicletta particolare, una bicicletta che si adatta alle esigenze di ciascuno. Come se venisse incontro alle persone che la scelgono. Dalla posizione e dalla grandezza dei carrelli a molto altro: alla possibilità di avere un impianto audio, dei pannelli solari. La cargo bike si trasforma e trasforma. Questa è la sua forza, la sua bellezza».
Il crowdfounding che inizia in questi minuti, mentre le cargo bike stanno sfilando per le vie della città, vuole permettere a questa bellezza di esprimersi liberamente. «Pensate a una città, Milano, con una flotta sperimentale di cargo bike dotate di impianto stereo autonomo e alimentato da pannelli solari. Una flotta a disposizione di tutti, in condivisione, con punti di incontro in quattro luoghi della città: in cui prenderle, viaggiarci, riconsegnarle e lasciare che altri, con lo stesso desiderio, possano usufruirne. Pensate a quanto sarebbe bello». Da oggi ci sono 45 giorni per realizzare questa possibilità: se il crowdfounding riuscirà a raccogliere 14000 euro, il Comune di Milano colmerà la parte mancante, circa il doppio, e non ci saranno più condizionali. Quelle biciclette saranno vicine, più vicine, a chi vorrà usufruirne.

«Mi immagino cargo bike utilizzate per portare i bambini a scuola, mi immagino chi li vedrà passare, la sensazione che proverà. Si tratta di qualcosa che riguarda tutti, un respiro profondo, un sentirsi ancor più vivi. Penso a chi potrà recarsi in luoghi della città difficili da raggiungere in auto, scoprirli, e portare lì tutto ciò che vorrebbe. Magari due chitarre per suonare in un parco, per dare vita a un evento dove ci si possa incontrare e scoprire un'altra forma della città». Già perché la parola chiave è trasformare, cambiare e nulla più di una bicicletta declina questa possibilità. Davide Branca lo dice sempre e, mentre ne parla, le parole diventano più dense, più veloci, come quando si crede molto a qualcosa.
«Parlando di una bicicletta parliamo sempre dell'aspetto di sostenibilità totale rispetto all'ambiente, della nostra salute perché pedalare fa stare bene. Mi sento di aggiungere, però, che c'è molto altro. Non solo la bicicletta ci fa stare bene, ci fa anche sentire bene, felici o più felici per le endorfine che questa attività libera in noi. Sapete perché? Perché in bicicletta cambiamo il nostro rapporto con la città, anche con una città in cui domina la frenesia come Milano. La conosciamo, la conosciamo davvero. Senza lo schermo di un vetro, senza essere schermati in un altrove, quello dell'auto. Conoscere la città significa non solo conoscere i suoi luoghi, i suoi parchi, la sua natura, non solo scoprire luoghi che ci sono, sono vicini, ma spesso ignorati, non solo prendersi cura di questi luoghi, viverli e farli rivivere. Raccontarli, magari. Significa sentire le esigenze della città in cui vivi, comprendere le domande che pone, conoscere i problemi che ci sono e essere concretamente interessati a risolverli». La città così si umanizza, riconosce altri ritmi, li fa propri, lascia spazio, fa spazio. E l'essere umano ha la possibilità di realizzare quella parte di creatività che da sempre ricerca.
«La bicicletta, qualunque bicicletta e anche la cargo bike, permette di disegnare le proprie traiettorie nella città. Di scegliere i luoghi in cui pedalare in primavera, in estate, in inverno ed in autunno. Di scegliere i colori che si vogliono vedere e il posto migliore per osservarli. Quasi fossimo costruttori di quella città, pittori di quella natura. L'essere umano ha bisogno di questa creatività, la bicicletta gliela consegna».
Quarantacinque giorni in cui c'è tutta la possibilità per ampliare quella creatività. Ancora una volta. Ancora un poco.
Maggiori informazioni: https://www.produzionidalbasso.com/.../solar-vibes-cargo.../