Verso Tokyo e oltre: intervista a Dino Salvoldi
L’esplosione della pandemia da Sars-Cov2, la scorsa primavera, ha scombussolato anche i piani della nazionale italiana femminile su pista, il tutto alla vigilia delle Olimpiadi di Tokyo, poi slittate al 2021. Non appena è stato possibile tornare ad allenarsi a Montichiari, Dino Salvoldi, C.T. della nazionale, ed il suo staff, hanno avuto subito chiara la necessità di variare l’intensità degli allenamenti. Ed è proprio da qui che siamo partiti, quando, durante il raduno del 24 febbraio al velodromo di Montichiari, il C.T. ha approfondito con noi lo stato dell’arte della pista femminile, in questa stagione divenuta per cause di forza maggiore, anno olimpico. «In questo periodo tutto ciò che si programma deve tenere presente un calendario in continua modificazione. Se è vero che l’Olimpiade è il traguardo finale, è altrettanto vero che gli step per raggiungerla nella miglior condizione possibile passano tanto attraverso gli allenamenti quanto attraverso le competizioni ed entrambi sono essenziali per mantenere alto sia il livello tecnico-tattico che quello più prettamente prestazionale».
Per quanto concerne il primo punto, Salvoldi si ritiene soddisfatto degli accordi raggiunti con le squadre delle ragazze: durante la settimana i team danno piena disponibilità alla federazione per i raduni, di durata più breve, e durante il fine settimana la federazione si impegna a favorire lo svolgimento delle gare con i club di appartenenza.
«Si tratta di un fattore storico, nessuna invidia per l’erba del vicino ma le situazioni sono differenti. Nazioni come Stati Uniti, Canada e Australia, le potenze della pista, hanno una squadra che lavora tutto l’anno insieme e che dà priorità alla pista. Da noi questo non è possibile in quanto la prevalenza della strada si fa sentire. Bisogna accettare questa situazione e lavorare con più intensità dove necessario. Soprattutto, dopo che durante il primo lockdown, con l’uso e talvolta l’abuso di cicloergometri e rulli si sono verificati importanti squilibri fra chi si era allenato troppo e chi si era allenato troppo poco». Questa intensità Salvoldi la traduce tanto in un aumento del numero di raduni, quanto in una spiccata attenzione ai dettagli tecnici che possa, almeno momentaneamente, supplire al secondo punto, ovvero al calendario scarno. «Stiamo lavorando sul quartetto, con allenamenti di squadra che potenzino la resistenza. Nel mentre simuliamo anche frazioni di gara, per valutare la forma fisica, compatibilmente con il periodo dell’anno in cui ci troviamo. Dall’altra parte, invece, ci concentriamo sulle qualità aerobiche e sul gesto tattico. La nostra squadra ha un livello molto elevato e la simulazione di una gara internazionale in velodromo non si disgiunge molto dalla realtà». Il calendario ha già fatto segnare i primi rinvii: i campionati europei su pista previsti per febbraio saranno a giugno, mentre le prove di Nation Cup previste, una al mese, da aprile a giugno sono ancora incerte. In più mancano tutte le gare di Madison che si sarebbero dovute tenere in Europa e che subiscono cancellazioni quasi quotidianamente.
«Questo per noi è un grosso problema. Il talento qui abbonda ed i risultati parlano per noi, a scarseggiare è l’esperienza. Si tratta di un gruppo molto giovane ed in questi casi non c’è nulla come la specificità e la ripetitività di ogni singolo meccanismo per imparare. Più un’atleta è abituata ad un frangente di gara, più riesce a economizzare sul gesto tecnico, a risparmiare energie e nel contempo ad acquisire quell’occhio e quell’istinto che al cospetto delle eccellenze mondiali fanno la differenza. L’esperienza si acquisisce con lo scorrere del tempo e con gli errori, bisogna solo aspettare e non allentare l’attenzione». Nonostante questo, Dino Salvoldi lo dice in maniera chiara e schietta: non sono ammessi alibi ed è necessario farsi trovare pronti a qualunque situazione. «Non siamo gli unici ad essere in questa condizione, la pandemia ha colpito tutti. Per questo bisogna continuare a credere nel lavoro quotidiano insieme, dandosi dei traguardi a breve e a lungo termine. Il bicchiere lo vedo mezzo pieno e credo tutti abbiano questo dovere. Per assurdo questo rinvio delle Olimpiadi potrebbe non essere un male: in questo anno il gruppo si è ampliato, sono arrivate ragazze nuove che stanno crescendo con noi. Per fare dei nomi: atlete come Chiara Consonni e Silvia Zanardi, che un anno fa non avrebbero avuto alcuna possibilità di convocazione, oggi sono fra le papabili azzurre olimpiche».
Questo, però, continua Salvoldi non deve indurre in un errore comunque grave. «Quando mi chiedono cosa mi aspetto dalla Olimpiadi di Tokyo rispondo sempre che per noi devono essere un passaggio chiave in vista di Parigi. Non sappiamo neanche noi cosa possiamo fare esattamente. Nel quartetto credo che si sia indietro rispetto ad altre nazioni. Per quanto concerne invece Madison e Omnium il livello è già pienamente soddisfacente. Il punto cruciale sono le altre discipline veloci che al momento, stante il regolamento in vigore, non ci permettono di avere atlete al via. Questi allenamenti servono anche a potenziare quegli aspetti e a far vedere quanto possiamo dare. La giovane età si fa sentire anche in questo frangente». Il gruppo ha un’età media molto bassa, basti pensare che la ragazza con più esperienza è Maria Giulia Confalonieri che ha appena ventotto anni, ma si conosce e lavora assieme da molto tempo, per Salvoldi questo è un punto a favore delle azzurre.
«L’età similare consente a queste ragazze di attraversare fasi di vita quasi identiche, per questo si capiscono in pista ma, ancor prima, condividono aspetti di vita quotidiana. In ambito internazionale questa conoscenza agevola molto il lavoro». Non solo la conoscenza è affinata fra le ragazze stesse, ma anche con Salvoldi, ormai, si è stabilito un rapporto professionale consolidato. «Alcune di loro le conosco da quando avevano quindici anni. Le squadre cambiano, le compagne cambiano, la nazionale è sempre rimasta un punto fermo. Siamo cambiati assieme e forse per questo ci capiamo meglio. La chiave di tutto risiede nell’estrema franchezza nel dire le cose». Dino Salvoldi non si nasconde, il momento che ancora oggi lo spaventa maggiormente è quello delle convocazioni, le notti prima dell’ufficializzazione delle scelte il sonno fatica a venire. «Le decisioni le comunico singolarmente e cerco di apportare motivazioni che possano farle comprendere se non accettare. Certe volte ci si muove su un filo sottilissimo e la differenza è fatta da sensazioni e possibili svolgimenti di gara, per cui è anche più difficile spiegare. La consapevolezza è indispensabile: la ragazza che non viene scelta sa che la decisione è stata presa secondo criteri di correttezza ma sa anche che in qualsiasi altra nazionale non solo sarebbe stata scelta, ma probabilmente anche medagliata. L’esclusione non si accetta mai pienamente, ma così si rende sopportabile». Il C.T. spiega sempre alle atlete che l’esclusione non è personale o irrimediabile, riguarda solo l’appuntamento specifico. «Cerco di convincerle a focalizzarsi su altri traguardi e le sfido a farmi cambiare idea».
C’è un’altra parola chiave che Dino Salvoldi utilizza in vista delle Olimpiadi: rischio accettato. «Per i discorsi fatti sino ad ora, si potrebbe essere indotti a credere che, visto il livello alto, saranno sempre scelte le migliori in assoluto. Se fosse così, correrebbero sempre le stesse atlete. Ogni commissario tecnico sa che, se vuole far crescere la squadra, ha il dovere di correre alcuni rischi calcolati per permettere a tutte le atlete di gareggiare. Altrimenti si potenziano solo i risultati delle eccellenze e non si aiutano le altre a migliorare. Dobbiamo anche pensare che per queste ragazze la nazionale vuol dire visibilità ed i successi ottenuti con la nazionale sono quelli che consentono i maggiori salti di livello anche nelle squadre di club. Se avranno pazienza e continueranno a migliorare, tutte queste atlete sono destinate a grandi traguardi».
In questa comunicazione, l’esperienza è la base. «Io vengo dagli anni di Antonella Bellutti, un’atleta straordinaria, con numeri assurdi. Per questo, almeno all’inizio, ero portato a scegliere molto sulla base dei numeri. Negli anni ho capito che quei tempi non erano più replicabili e che le scelte avrebbero dovuto sempre prendere in considerazione il lato umano e motivazionale. Ci sono caratteristiche caratteriali personali simili in ragazze e ragazzi. Poi ci sono caratteristiche che pertengono specificamente alla sensibilità femminile: gli errori vanno comunicati con maggiore tatto, con vicinanza e soprattutto con un linguaggio diverso, altrimenti i danni sono irreparabili». Salvoldi dà un rapido sguardo alle ragazze che nel frattempo si sono preparate per continuare l’allenamento, ci saluta, si alza, va al tavolo predisposto al centro del velodromo ed inizia a spiegare la prossima fase della preparazione: venerdì 23 luglio 2021, il giorno di inizio dell’Olimpiade, si avvicina sempre più e non c’è tempo da perdere.
Foto: Paolo Penni Martelli
La nebbia si è dissolta: intervista a Marta Cavalli
Qualcosa attorno a Marta Cavalli è cambiato, ma prima di tutto è cambiata Marta Cavalli. «Non molto tempo fa, ho sentito papà e mamma dire: “Guarda Marta, come è cresciuta!”. Loro mi hanno sempre appoggiato in quello che volevo fare, ora però c’è qualcosa di diverso. Ora mi hanno lasciata libera, mi guardano da lontano e sono fieri del mio lavoro perché “Marta è grande e si gestisce da sola, sceglie da sola”. La chiave è stata il mio passaggio alla Fdj – Nouvelle Aquitaine – Futuroscope: è come se, dal mio arrivo qui, avessero capito che ce l’ho fatta».
Marta Cavalli è orgogliosa, perché, come ci racconta, questo è il momento in cui i figli sono più felici. E pensare che questo cambiamento di squadra è nato per caso, da una battuta, perché Cavalli non è mai stata una ragazza dai cambi repentini, dall’istinto feroce, quando Marta doveva scegliere c’era sempre la voce della coscienza che le diceva di aspettare, che ci sarebbe stato tempo, che negli undici anni in Valcar era cresciuta molto e non c’era motivo di rivoluzionare tutto. «Io vivo a Cremona e qui la nebbia è di casa. Mi piace dire che è come se ad un tratto fossi uscita da un banco di nebbia e mi fossi resa conto che era il momento di provare. Sai, io ero una di quelle ragazze che, per timidezza, non parlava nemmeno con le compagne, il ciclismo mi ha aiutato a sciogliere questa difficoltà perché mi ha scaraventato in alcune situazioni e lì devi cavartela da sola. Credo sia stata anche questa crescita a darmi il coraggio di lasciare la porta aperta ad altre strade. L’incredibile è che come ho accettato di mettermi in discussione, ho visto quante opportunità c’erano, quante squadre mi cercavano».
A fine estate Marta Cavalli parla con il Team manager della Fdj. «Fino a quel momento avevo trovato tante squadre che mi elencavano traguardi da raggiungere. In Fdj non mi hanno parlato solo di un obiettivo mi hanno indicato una strada da percorrere e da raggiungere, nel lungo termine, a fine 2022. La differenza è profonda: nelle squadre in cui si parla solo di gare da vincere o di piazzamenti da conseguire, tu sei trattata come una regina sino a che le cose vanno bene, come sbagli, come perdi qualche colpo, corrono a fartelo presente, a dirti che loro ti pagano per fare risultati e non c’è tempo, quei risultati devi farli subito. Tu sei già in crisi perché non stai bene, discorsi di questo tipo ti gettano nell’ansia e nello sconforto. Dove, invece, c’è un percorso, c’è serenità, perché non sei sottoposta a un continuo banco di prova: sai che devi lavorare duro, ma c’è tutto il tempo per farlo. Le persone intorno a te non cambiano atteggiamento nei tuoi confronti se sbagli, perché vogliono accompagnarti e l’errore è parte del processo di crescita».
Per crescere e sopportare gli errori bisogna affrontarli nel modo corretto, a questo servono le tante riunioni con i direttori sportivi del team: «Ci hanno subito detto che a loro non interessa di chi è l’errore. L’importante non è chi sbaglia, l’importante è l’atteggiamento da cambiare. Così, nelle riunioni, non si fa nemmeno un nome. Si parla di scelte, di strategie, anche di errori, ma non di persone da mettere alla berlina perché protagoniste di quegli errori».
Ogni tanto, durante queste riunioni, l’attenzione delle ragazze è disturbata da Cecilie Uttrup Ludwig. «Cecilie chiacchiera continuamente, è l’opposto della studentessa modello. La riprendono e lei scoppia a ridere, poi ridiamo tutte e la riunione si ferma. È esattamente come la vedete, con tutte le sue facce buffe. Ogni tanto sbaglio qualche verbo in inglese e mi guarda stranita, ma mi fa morire dal ridere. Può esserci vento forte, acqua, freddo, lei è felice e ci dice: “Pensate che goduria la doccia calda dopo”. Che maschera!». Marta Cavalli racconta che, forse, questo è l’atteggiamento tipico delle ragazze nordiche. «Hanno una particolare delicatezza nel vivere questo lavoro. Al termine di un allenamento, Emilia Fahlin ci ha prese da parte: “Ragazze, ora devo dirvi una cosa. Però dovete sapere che non c’è nulla di male, che non è un rimprovero, voglio parlarvi perché se parliamo va tutto meglio e siamo tutte più serene”. Capisci il tatto? Per un carattere come il mio è fondamentale».
Quando parla di queste attenzioni, Cavalli si illumina, come quando parla di sua sorella minore, Irene. «Lei è l’opposto di me e forse per questo andiamo così d’accordo. Solo fino a qualche anno fa, ero io che le riservavo le migliori attenzioni. Un mese fa, siamo state assieme a Sanremo, io uscivo al mattino per l’allenamento e lei stava in casa a sistemare tutto. Mi faceva trovare la pasta pronta, mi comprava ogni cosa di cui avessi bisogno, mi coccolava. Non è scontato. Può capitare di pensare che chi fa ciclismo pedali solo, di non rendersi conto dei sacrifici che impone questo lavoro. Se lo pensano gli estranei, te ne fai una ragione, ma se lo pensa qualcuno di casa ci stai davvero male. In quei giorni, ho visto che anche la mia “piccola sorellina” è diventata grande e ha capito tutto quello che le raccontavo quando mamma mi chiedeva di farle fare merenda e di proteggerla. Irene è il mio orgoglio».
Cavalli non ha dubbi sull’atleta che è e che vuole essere: «Sono una ciclista da classiche, da gare dure, con pavè e sterrato. Ora sono molto magra, molto esile, vorrei costruirmi una corporatura più possente, come Marianne Vos, Chantal Blaak e van der Breggen. Nel ciclismo di oggi è quello il fisico che ci vuole. Più in generale vorrei essere un modello per le ragazze più giovani. A me dicevano sempre: «Elisa Longo Borghini è nel posto giusto, Tu guardala e segui la sua ruota». Ecco, vorrei che, fra qualche anno, un direttore sportivo dicesse questo di me».
Foto: Thomas Maheux – per gentile concessione di Marta Cavalli
Un giorno sul lettino dei massaggi
Michele De Biasi, il massaggiatore della Bardiani Csf Faizanè, è sempre stato un attento osservatore. Ha capito così che tutto, ma proprio tutto, passa dai dettagli. Soprattutto ha capito che bisogna avere il coraggio di credere ai dettagli anche quando sembrano una parte trascurabile del tutto. «Quando arriva da te, sul tuo lettino, un ragazzo che ha fatto duecento chilometri in bicicletta c’è una cosa che devi fare prima di tutte le altre. Una domanda, l’unica che hai il dovere di porre: come stai? Chiedere come sta con la vera volontà di conoscere il suo stato fisico ed il suo stato d’animo, è importantissimo. Te lo dirà? Alcuni si aprono e ti raccontano, altri non hanno voglia. Si tratta del carattere e della giornata. Non conta, tu devi chiederlo. Poi capirai iniziando a massaggiare, se ti ha detto la verità oppure no. Quando li conosci, i muscoli ti dicono tutto. Quella domanda però è importante perché permette al ragazzo di aprire una porta e di raccontare. A lui la scelta». De Biasi spiega che dopo quella domanda lascia che siano i ragazzi a scegliere come gestire quei quarantacinque, cinquanta, minuti di massaggio, perché «è giusto così». Una frase breve, secca, che viene subito ripresa e specificata.
«Tecnicamente tutti ti diranno che il massaggio serve per disintossicare i muscoli, per togliere le tossine e favorire il recupero muscolare dell’atleta. Vero, un massaggio ben fatto si percepisce subito. Se parli con un corridore affaticato prima e dopo il massaggio, ti descriverà sensazioni diverse. Il punto è che ci sono tossine tipiche dei muscoli e tossine tipiche della mente. Per recuperare da quelle, solo tu sai ciò che ti fa bene. Per alcuni è necessario parlare, sfogarsi, per altri basta il silenzio. In generale io dico che aiuta molto la leggerezza. Spesso non si capisce a fondo quanto anche una battuta possa fare bene. Il segreto è staccare la spina per “disintossicare” anche la mente».
De Biasi è arrivato al ciclismo solo quattro anni fa, per un caso, come per un caso era arrivato alla massofisioterapia dopo aver fatto studi da elettricista. «Tutti ti dicono: guarda che è tutto diverso, guarda che farai fatica, pensaci bene. Tu li ascolti ma, se sei come me, una volta che hai deciso non cambi più idea. Questo non significa che non abbia mai pensato di aver sbagliato o di tornare indietro. Ci ho messo un anno e mezzo ad ambientarmi, a capire ciò che era accaduto». In Bardiani lo chiamano Hellas: «Perché sono tifoso del Verona ma soprattutto perché ho lavorato con la squadra. Io arrivo dal calcio e dalla pallavolo. Sì, si tratta sempre di sport ma cambia tutto». Da un punto di vista mentale ma anche da un punto di vista tecnico.
«Dipende sempre dall’ambiente ma nel calcio, generalmente, avvertono il tuo lavoro quasi esclusivamente come un lavoro. Questi ragazzi sono proprio bravi, ti danno spazio, riconoscono il tuo spazio e ti ringraziano sempre. Alcuni ti chiedono anche qualche foto perché vogliono raccontare chi sei. Ti sono riconoscenti. Quelle foto le tengo da parte e le faccio vedere con orgoglio ai miei amici. In pubblico non le mostro, no. Si tratta di una forma di pudore e di rispetto. Prima parlavo della conoscenza che ti permette di capire molto senza chiedere. Ecco, la conoscenza passa anche da queste piccole forme di rispetto e di attenzione».
Poi ci sono le differenze che riguardano i tre sport. «Nel calcio il massaggio è tendenzialmente meno importante, c’è anche il cambio ritmo ma è più che altro corsa in linea. Alcuni calciatori non si sottopongono nemmeno sempre ai massaggi, sentono la necessità di terapie fisiche strumentali per traumi e tendiniti: laser, tecar e ultrasuoni. Discorso simile vale nella pallavolo per i bendaggi: gli atleti sono esperti e spesso provvedono autonomamente almeno per quanto riguarda le mani. Noi li aiutiamo con le caviglie. Il resto è riservato a trattamenti di scarico, consideriamo che si allenano tutti i pomeriggi e per almeno due mattine fanno pesi in palestra. Capisci la differenza con una gara a tappe? Cambia tutto».
Parlando di corse a tappe, De Biasi ritorna sulla conoscenza. «Non è facile lavorare su un corridore che non hai mai massaggiato. Se ti capita, lo fai ma sarebbe meglio avere affinato una certa conoscenza. Il massaggio è fatto anche di piccoli dettagli e di minuscole cure che il singolo gradisce. Scoprirlo in una corsa a tappe, in un momento difficile, non è l’ideale». I pre-ritiri sono l’ambiente in cui affinare questi dettagli, ma sono anche il luogo della sincerità e dell’accettazione. «Può succedere che un corridore si trovi meglio con un mio collega. Non deve diventare un fatto personale. Credo che tutti siamo qui per aiutare questi ragazzi, noi siamo il dietro le quinte. Non deve esserci invidia. Al primo posto c’è la squadra e perché la squadra funzioni bene è indispensabile la serenità dei singoli. Non può esserci serenità se i rapporti sono forzati o se non si ascoltano i bisogni dei corridori. Massaggiare è ascoltare, quando si ascolta, si capisce. Poi serve l’umiltà di scegliere e lasciar scegliere».
Foto: Paolo Penni Martelli
Tutte le avventure che possiamo immaginare
C’è stato un giorno in cui Manuel Vecchiato ha cambiato il proprio modo di vedere e di vivere la bicicletta, dopo anni in cui era stato in gruppo con tutta l’intenzione di diventare professionista. «Ricordo che, alle feste di fine anno scolastico, mentre gli altri bambini giocavano a calcio, io osservavo le persone in bicicletta che passavano fuori dal cortile della scuola. Mi chiedevo dove stessero andando e immaginavo i loro viaggi. E poi? Poi ho smesso di chiedermelo».
Manuel in quel momento smette di fare il corridore, ma non smette di andare in bicicletta. «Spesso si pensa che per vivere un’avventura sia necessario prendere un aereo, affrontare voli di molte ore e arrivare chissà dove. In realtà, se sai dove guardare, c’è una parte di avventura anche dietro casa tua». È da questa considerazione che inizia un altro tratto di storia per tre ragazzi: Manuel, Mirko ed Enrico.
«Abbiamo viaggiato molto e spesso abbiamo ideato da noi i nostri itinerari, disegnandoli. Così abbiamo pensato: perché non condividere con altri appassionati il nostro viaggio, la nostra avventura? La passione per la bicicletta è un qualcosa che accomuna molti e sono certo che tantissime persone si sorprendono a pensare a quanto sarebbe bello scalare quella montagna o affrontare quel viaggio. Non lo fanno per un semplice motivo: credono di non esserne all’altezza, di non avere le qualità fisiche per farlo. Hanno paura».
Wamii, questo è il nome della piattaforma, è una sorta di antidoto a questo timore, a questi dubbi. «Se ci siamo riusciti noi, vuol dire che chiunque può riuscirci. Sapere che qualcuno prima di te ha passato ciò che tu stai passando ora è sempre una forma di sicurezza. Il nostro, in fondo, è un modo per raccontare i tragitti dei nostri viaggi». È fine giugno 2020 quando circa venti tracciati, interamente situati in Veneto, vengono messi a disposizione del pubblico di appassionati. «Le persone sono spaventate dall’imprevedibilità. Dall’idea di arrivare ad un sentiero e di trovarlo bloccato, di non sapere dove passare. Magari di non avere un luogo dove trascorrere la notte, se il viaggio è di più giorni. Se racconti tutto questo, se dai indicazioni precise, le persone si buttano e scoprono che è bello. Poi magari le incontri, ti scrivono, e ti dicono che si sono sorprese perché pedalando su quel tragitto hanno visto uno squarcio che c’era sempre stato, ma che con la velocità quotidiana non avevano mai ammirato».
Così ad ogni viaggio è abbinata una struttura dove sostare per riposarsi e ad ogni struttura è abbinato un viaggio. «Quante volte capita di essere in hotel e di sentire qualcuno che chiede informazioni su luoghi vicini da visitare? Quando siamo spensierati, magari in vacanza, è il momento in cui osiamo maggiormente, noleggiamo una bicicletta e via». Perché alla fine un’avventura può partire anche dal caso, da un giorno in cui eri annoiato e non sapevi cosa fare. Nell’avventura, spiega Vecchiato, ci sono i valori della solitudine e anche della noia, cose indispensabili che rifuggiamo. «Alcune volte non servono guide, ci si può accompagnare da soli dove si vuole andare. Arrivare lì e dire: “Ce l’ho fatta! E ho fatto tutto da me”.»
Fra qualche tempo si aggiungerà una nuova sezione di itinerari e tra i punti di appoggio si inseriranno anche le cantine enogastronomiche. Ma Manuel, Mirko ed Enrico hanno in mente un progetto ben più grande. «Andiamo a parlare con i comuni, raccontiamo ciò che stiamo facendo e facciamo proposte. Tutti ascoltano interessati ma poi, complice la burocrazia e tutta una serie di situazioni di cui è inutile parlare qui, si fa sempre più fatica ad essere appoggiati in queste iniziative che favoriscono la ciclabilità. Forse perché non se ne comprende in pieno il valore. Forse perché non si è abituati a questa lettura della realtà. Oppure più probabilmente è la stessa burocrazia a rallentare tutto. La bicicletta non è solo un mezzo per spostarsi, è anche uno straordinario punto di vista per guardare il mondo, per conoscerlo, per scoprire territori e luoghi in cui si sta bene. Perché non pensare di passare sempre più tempo in sella? Perché non gustarsi sempre di più quel tempo? Basta immaginare e poi avere il coraggio di allacciare i pedali e partire».
Foto: Wamii
Vorrei essere come Alaphilippe: intervista a Santiago Umba
Santiago Umba è nato nel novembre del 2002. È esile, un colibrì, come nella miglior tradizione colombiana. Non ha paura. «Non ci ho dovuto pensare molto. Certo, lascio Arcabuco, la mia città, la mia famiglia ed i miei amici, ma so che loro sono orgogliosi di quello che sto facendo. Quando sono partito erano dispiaciuti, ma nei loro occhi si leggeva tanta dignità, tanta fierezza».
Accanto a lui c’è Gianni Savio, il team manager dell’Androni Giocattoli Sidermec. «Alla Vuelta al Táchira, in Venezuela, l’ho preso da parte e da padre gli ho detto: “Santiago, per molta gente tu sei un personaggio. Se farai bene, ti si avvicineranno in molti, si fingeranno amici, cercheranno di starti al fianco. Ricorda queste mie parole: non tutti saranno amici veri, sappi distinguere”. E Santiago mi ha guardato e con il suo solito sguardo colmo di educazione mi ha detto: “Lo so, Gianni. Ultimamente ci sono tante persone che mi cercano e che fino a qualche mese fa non mi guardavano neanche”. Non è solo forte in bicicletta, è anche di una maturità rara».
La stessa consapevolezza che traspare quando gli chiediamo di parlarci del suo carattere. «Mi piace la compagnia, mi piace ridere e scherzare, del resto a chi non piace? Ma nella vita bisogna saper distinguere. In certi momenti si può ridere, in altri serve serietà, testa bassa e lavorare».
Arcabuco è ormai distante e la sera che scende su Alassio è quanto di più distante da quella che vedeva dalle tende di casa sua, quando seguiva le imprese di Quintana in televisione. «Il calcio come il ciclismo ti permette di guadagnare molto e di migliorare la tua posizione economica. Io però non ho scelto la bicicletta per questo. Io l’ho scelta per realizzare un sogno».
Matteo Malucelli si è sorpreso delle sue doti sui pedali proprio quando ha vinto la prima tappa della Vuelta al Táchira: i compagni che avrebbero dovuto far parte del suo treno sono caduti e Umba si è messo davanti a tirare per lui. Non solo. Dopo tre tappe complesse, Savio lo ha messo in guardia: «Non forzare la gamba, domani è una tappa difficile. Se non riesci a stare con i primi, lasciali andare». Santiago Umba, però, si mette in testa al gruppo. «All’arrivo gli ho fatto i complimenti – prosegue Savio – e gli ho chiesto come stesse. Sapete cosa mi ha risposto? “Come sto oggi? Ma oggi sto meglio di ieri!”. Incredibile».
«Ho il fisico da scalatore, ma ho anche spunto veloce e mi piacciono gli sterrati. Dovrò lavorare sulla velocità perché lo spunto non basta. Lo sprint è strategia pura: mi guardo intorno e cerco di imparare. Alla fine ho sempre fatto così. Anche ora che sono qui in Italia: voglio conoscere, voglio capire, sono curioso. Anche quando voi parlate italiano, io ascolto e provo a vedere quanto capisco». In Colombia lo paragonano a Julian Alaphilippe per caratteristiche e spirito. «Posso dirlo? Vorrei essere come Julian Alaphilippe. Vorrei vincere un mondiale e far vedere la mia maglia a tutto il mondo».
Umba appena tornato dal primo allenamento si è avvicinato a Giovanni Ellena: «Sai che sono appena caduto?». Ellena sorride come prima reazione. «Pensa che Bernal alla prima uscita con noi cadde dopo un paio di rotonde. Visti i precedenti, direi che promette bene, no?»
Ora noi possiamo immaginare gli occhi dei suoi genitori quando lo hanno salutato, li possiamo immaginare perché di sicuro somigliano molto agli occhi di Santiago mentre guarda Savio ed Ellena. «Mi trovo nel luogo in cui avrei sempre voluto trovarmi. Quando ho firmato il contratto avevo diciassette anni e mi hanno dovuto supportare i miei genitori, ma io dopo quella firma mi sentivo già qui. Capisci cosa intendo?». Lo capiamo noi e lo capisce anche Gianni Savio che gli mette una mano sulla spalla e inizia a parlare, a voce più bassa. «Questa è la tua intervista e sei arrivato qui da una manciata di ore. So che sei stanco e non vedi l’ora di andare in camera a riposare. Ricordati di questa intervista perché ne farai tante altre e racconterai tanto di te, tutto quello che vorrai. Ricorda questa intervista perché diventerai un grande. Ci proviamo? Scommettiamo? Ora vai a riposare. Domani ricomincerà tutto e tu sarai pronto».
Foto: Luigi Sestili
La storia di Natnael Tesfatsion
Il suo vero nome è Natnael Tesfatsion, ma in Androni Giocattoli Sidermec per tutti è “Natalino”. I massaggiatori ci raccontano che dopo vari tentativi e vari nomi sbagliati, glielo hanno chiesto: «Ti piace Natalino?», lui ha acconsentito e da allora il suo nome è quello.
Natnael è esattamente come potete immaginarvelo: tantissimi capelli ricci e un sorriso solare che si intravede anche dietro la mascherina. Ci racconta subito che non parla molto bene l’inglese ma, in compenso, conosce molte parole italiane. «Dopo la colonizzazione molti termini sono rimasti anche nel nostro linguaggio. Per esempio tutti quelli che riguardano la bicicletta: freno, manubrio, forcella, catena, rapporti. Non solo: anche scarpe e ciabatte. La prima volta che sono sceso a cenare in ciabatte i miei compagni ridevano e scherzavano, mi prendevano in giro. Li ho avvertiti: guardate che ho capito, so cosa sono le ciabatte». Racconta e sorride.
Poi ride di gusto pensando al suo arrivo in Italia. «Sono arrivato a marzo e nonostante qui si parli di primavera, io stavo congelando. Noi siamo abituati a venti gradi costanti, sono arrivato in maniche corte. La signora che mi ha ricevuto mi ha detto: «Ah ma allora sei già abituato alle nostre temperature, non le soffri». Non sapeva che ero praticamente ghiacciato». Natnael è nato ad Asmara, in Eritrea. «Qualunque cosa dicessi di Asmara, sarebbe una frase fatta. Sì, è la mia città natale ed è la mia terra. È il luogo dove vive la mia famiglia. Asmara è una vecchia città per bene. C’è aria di accoglienza, voglia di essere ospitali, di stare insieme. A noi piace la compagnia».
«Non sono il più bravo fra i ciclisti eritrei. Ce ne sono tanti meglio di me, ma purtroppo non hanno la possibilità di venire in Europa e correre qui. Sarebbero bravissimi, sarebbero l’orgoglio di tanti bambini che da grandi si immaginano vincitori del Tour de France, in maglia gialla. Anche io facevo quel sogno da piccolo. Lo faccio ancora oggi. Però è difficile, per loro è difficile anche solo pensare di intraprendere questa strada».
Vive a Lucca. «Mi piace molto la mia nuova città. Lì vicino c’è Pisa, con la sua Torre pendente e l’aeroporto. Per noi è un modo per sentirci vicino a casa, sappiamo che possiamo ripartire quando vogliamo. Ci dà sicurezza. Se ci fate caso tanti ciclisti eritrei vivono a Lucca o a Pisa». In Italia gli piace molto la pizza, di Asmara sente la mancanza di un piatto chiamato Injera. «Non saprei spiegare come è fatto, ma devi fidarti: è buonissimo. Se ci rivediamo te lo faccio assaggiare».
Natnael è molto religioso, per questo ha chiesto che il giorno di riposo possa essere la domenica, perché vuole andare a messa. Il suo credo pervade ogni campo, come un’essenza. «Sono uno scalatore, mi piacciono le montagne, mi piace scalare. Mi piace arrampicare. Tra l’altro, essendo scalatore, sento più vicino a me quel sogno: il Tour de France. Gli scalatori possono vincere il Tour. E a prescindere da questo, io sono certo che chiunque lavori duro, seriamente, possa fare grandi cose. Anche se sembrano impossibili. Se ti impegni, devi crederci, ci arriverai. Se non potessi realizzarle, non avresti neanche la possibilità di sognarle. Ne sono certo».
Foto: Luigi Sestili
I significati della fuga: intervista a Mattia Bais
Mattia Bais è cresciuto con l’insegnamento dei fatti. «Mio papà è imprenditore edile ed ogni mattina si alza prestissimo per andare a lavorare. Pochi fronzoli, solo la consapevolezza di dover fare il proprio dovere». Che poi il ragazzo trentino abbia una certa idea del ciclismo, forse, è solo la conseguenza. «Da grande vorrei essere come Thomas De Gendt, come Alessandro De Marchi. Puoi fare qualunque cosa nella vita ma non devi dare nulla per scontato, perché, di base, non ti è dovuto nulla. Io volevo diventare un ciclista professionista e ci sono riuscito, mi sentirei in grato se non ci mettessi tutto me stesso in ogni gara. De Gendt e De Marchi fanno questo. Andare in fuga è uno dei tanti modi per fare questo».
Bais gesticola, attorciglia le mani, come se stesse plasmando il pensiero proprio con quelle mani. «Non credo di aver mai avuto alcuna dote eccezionale. Sono sempre stato uno dei più minuti del gruppo: nelle categorie minori quando scattavo sorprendevo tutti, forse perché non se lo aspettavano. Quello che sono l’ho costruito. Se passi da un percorso simile al mio, certe cose fanno talmente parte di te da non riuscire più a rinunciarci. Fanno parte di te perché senza di loro, tu non saresti qui».
Mattia Bais parla della fuga, dell’essere fuggiaschi. «La libertà della fuga è un qualcosa di diverso dalla libertà del ciclismo. In fuga devi volerci andare. Si tratta di quella libertà che solo la fatica ti permette di conquistare. Non c’è libertà, senza fatica». Come quella volta al campionato italiano 2019, quando in fuga dal mattino si fermò a due giri dal traguardo e su un marciapiede parlò con Gianni Savio. «Savio ha capito subito tutto il senso che ha per me la fuga, l’essere davanti da solo a imporre il proprio ritmo. Ma, se ci pensi, lo capisce qualsiasi persona che sia sulla strada a guardarci. In certi tratti di di strada non può succedere praticamente nulla. Il massimo che ti può capitare è di vedere qualche coraggioso che va via da solo. La gente si entusiasma a vederti scattare in testa al gruppo, anche se mancano duecento chilometri e la domanda più logica da fare sarebbe: “Dove credi di andare?”. La gente non te lo chiede perché lo sa. Lo ha provato sulla propria pelle più volte di quante tu possa immaginare».
Bais racconta che quando scatta non si chiede quasi mai come andrà a finire. «Devi usare la testa in quel momento. Devi controllare i tuoi avversari, studiare il percorso e sapere cosa vuole il gruppo. Solo così puoi pensare di sorprenderlo. La fuga è un’avventura e come ogni avventura richiede istinto, coraggio, sfrontatezza ma anche pianificazione, progettazione».
La sua fuga più cara è quella dello scorso anno alla Milano-Sanremo. Quando è tornato a casa, si è messo davanti alla televisione e si è rivisto la corsa. «Quando sentivo il mio nome avevo la tentazione di tornare indietro e riascoltare da capo perché non ci credevo. Come appena passato professionista quando lo dicevo e nessuno ci credeva, ma in realtà ero io stesso a non crederci. Credo sia stata la Sanremo più lunga della storia, io ho fatto 275 chilometri in fuga, davanti a tutti, sono arrivato al traguardo, l’ho conclusa. E mi sono detto subito: “Qui voglio ritornarci e voglio rifare lo stesso”. Perché poi ti riprendono, poi non vinci, poi arrivi sfinito e mentre gli altri festeggiano ti accasci da qualche parte. Quello che provi in quei momenti vale tutto questo e non te lo può raccontare nessuno. Lo sai se lo hai provato».
In quei momenti non c’è quasi nessuno e chi c’è vale tutto. «Il direttore sportivo è la nostra guida e questo vale sempre. Il rapporto con lui lo costruisci quando sei a tutta, quando sei sfinito, quando puoi solo fare fatica. Quando sei solo in un tratto di strada in cui non c’è nulla e senza la sua voce ad incitarti, senza quella borraccia piena d’acqua o quel panino, non sapresti nemmeno più cosa pensare. Senza quella voce, in certi istanti, ti fermeresti a bordo strada ad aspettare il gruppo. Forse non ci pensiamo abbastanza ma siamo debitori a chi ci guida. Perché la strada la perdiamo tutti, prima o poi. La fuga è un’opportunità per ritrovarla».
Foto: Luigi Sestili
Storie di terre e di pedali: intervista a Giovanni Ellena
Giovanni Ellena era a pochi chilometri da Alassio, a Laigueglia per la precisione, quando nel 2006 entrò in sala per la prima riunione da direttore sportivo. «Entrai in questa sala e tutti si voltarono a guardarmi. Sono timido, introverso, puoi immaginare come mi sia sentito. Ero un direttore sportivo che non era mai stato professionista, solo dilettante. Alcuni colleghi mi avevano conosciuto durante un corso organizzato dalla federazione nel 2002 e avevano apprezzato questa mia timidezza, questo mio essere silenzioso. Ma io avevo paura, una paura incredibile. Però quando salivo in macchina mi passava, terminavo le corse quasi senza accorgermi».
Giovanni smette di correre perché deluso, da se stesso, dalla propria genetica, sa di non poter essere un campione ma vuole lavorare, fa il lavoro più distante da ciò che è: l’agente di commercio. Torna nel ciclismo per questioni affettive, perché quando accompagna dei ragazzi in allenamento, e poi alle gare, si rende conto che non vuole essere da nessun’altra parte se non lì. «L’unica volta in cui presi sette a scuola fu un tema di geografia: non perché fossi particolarmente bravo in geografia, ma perché conoscevo l’argomento, perché sapevo cosa dire. Io qui mi sento al mio posto ma allo stesso tempo mantengo l’idea di essere l’ultimo arrivato con una continua voglia di imparare. Non c’è nulla di filosofico, è quello che ti permette di restare in piedi».
Ellena parla dell’allenamento di ieri: offre un panino con il prosciutto a Natnael Tesfatsion, lui lo rifiuta. «Essendo ortodosso, a mio avviso poteva mangiare il prosciutto, così sono andato in camera da lui e ho cercato di capire. Ieri sera ho letto, mi sono documentato. Il maiale ha due unghie, per loro questo ricorda il diavolo. Vedi? Devi studiare e farti un esame ogni mattina. Altrimenti rischi di essere offensivo, di essere blasfemo».
Questo approccio volto alla comprensione è il grande credo di Ellena. Pochi giorni fa, Giovanni si è recato a prendere Andrii Ponomar, uno dei nuovi acquisti della Androni Giocattoli Sidermec, in aeroporto. «Non ha parlato per due, tre giorni. Non credo sia timido, è solo figlio della sua terra, forse un po’ freddo. Siamo stati a Torino a fare una visita cardiologica. Al ritorno l’ho guardato e gli ho detto: “Ma hai visto Zootropolis? Quel medico assomigliava da matti a Flash, il bradipo”. Gli si è accesa una lampadina ed è scoppiato a ridere: “Flash! Flash!”. Adesso, ogni volta che mi vede sorride e mi dice “Flash”. Per dire quanto basti poco. Ognuno ha una sua chiave per aprirsi».
In questi giorni Ellena ha aiutato anche Santiago Umba con le pratiche del volo, l’altra notte alle tre era sveglio per preparare tutte le carte, ma non solo. «In sostanza l’ho messo in sella in collegamento Skype. C’era suo papà che lo filmava sui rulli ed io gli spiegavo come fare. Secondo me può fare molto bene anche in volata, ha i numeri». Questi sono i ragazzi su cui Androni ha sempre scommesso. «Le cose sono cambiate radicalmente dai tempi di Rujano e di Serpa. Loro sono arrivati qui già adulti, sapevano già bene cosa fare. Con Sosa e Bernal è stato diverso: loro sono cresciuti con noi, erano ragazzini. Significa lasciare la propria terra e ritornarci, forse, due volte l’anno. Quanto è difficile? Sosa viveva in una cascina in mezzo ai campi, in una casupola. Ora vive con Egan Bernal e altri connazionali in un albergo-ristorante nel canavese. Il proprietario di questo ristorante ha delle galline: lui si sente a casa, la mattina scende e dà da mangiare alle galline».
Piera, la padrona di casa, racconta che Sosa la aiuta ad alzare le tapparelle del locale. «Il problema è che lui le alza anche al lunedì e noi al lunedì siamo chiusi». Così questi ragazzi vivono nel canavese ma si sentono in famiglia, cenando in cucina davanti a un camino, con le persone che gli vogliono bene. Poi c’è Wladimir, componente del fan club di Bernal, che ha un murales a casa con Egan in maglia gialla a Parigi. «Wladimir aveva detto a Egan che il giorno in cui avesse vinto il Giro d’Italia o il Tour de France, avrebbe dipinto la casa del colore della maglia. Bernal appena ha vinto lo ha chiamato ricordandogli la scommessa. Tu pensa che sapendo che avrei cercato di mediare, quella sera a cena non mi hanno nemmeno invitato. Che personaggio! Quando Bernal ha vinto al Tour de l’Avenir, Wladimir era sui tornanti: lo hanno sentito gridare da tre tornati più sotto. Ti rendi conto della passione?».
Dopo la notizia dell’esclusione dal Giro d’Italia, Giovanni Ellena non ha parlato per tre giorni. In ritiro, dopo diversi mesi a casa, ha ripensato a tutta la sua carriera, l’ha rivista al rallentatore, gli venivano in mente solo domande, tante domande. Si è ricordato degli inizi, di quel 2006, di quella signora della federazione che gli disse: «Ti auguro di durare molto, ma questo non è il tuo ambiente». Ripensa alla struttura di preparatori che Androni aveva messo in piedi negli anni, ai tecnici e ai preparatori che ora sono affermati professionisti. A tutto ciò che era possibile. Ripensa a quando, appena quarantenne, sbagliava approccio e cercava l’amicizia dei corridori: oggi sa che non va bene e non lo fa più. «C’è un bel rapporto con loro, ma non sono loro amico: se devo rimproverare un ragazzo lo faccio, se devo escluderlo per il bene della squadra lo faccio. Si tratta del mio lavoro e l’amicizia farebbe male».
Fra le tante domande, una lo assilla particolarmente: «Giovanni, sei sicuro che questo sia il tuo lavoro?». Una domanda che fa paura, una domanda che non mostra ai ragazzi, invitandoli a credere che un giorno saranno come Sosa, come Bernal, una domanda a cui poi deve darsi risposta. Ed Ellena quella risposta se l’è data qualche sera fa. «Ho una bella famiglia, una moglie, due figlie e un cane che adoro. Quando accadono queste cose pensi a loro. Ti dici che forse potresti anche fregartene e vivere più tranquillo. Quante cose si dicono? Quante? Sono bugie. Io sono venuto qui e non ho saputo fare nulla di diverso da quanto facevo prima. Sono fatto così e questo lavoro so farlo solo in questo modo. Non so se sia giusto. So che diversamente non saprei lavorare».
Foto: Luigi Sestili
L'Eroica di Lorenzo
Quando, a fine luglio, Lorenzo Mariotti ha ricevuto la conferma dell’annullamento dell’edizione 2020 dell’Eroica si è sentito come abbandonato, come se la fidanzata lo avesse lasciato senza una spiegazione, come se quella stagione fosse destinata a non finire. «L’Eroica per me è un ultimo giorno di scuola, un’ultima volta, di quelle belle, prima dello stacco. Ad aprile speravo che la situazione legata alla pandemia si sarebbe risolta, a fine luglio sapevo che non sarebbe stato possibile ma in un certo senso mi rifiutavo di crederci. Non volevo accettare che l’Eroica ci avrebbe abbandonato per quest’anno».
Lorenzo racconta che non trascorre molto tempo a pensarci: ci sono Andrea e Roberto, suoi amici d’infanzia, a cui telefonare per raccontare un’idea. «A me mancava come l’aria la condivisione della fatica, della strada, del pane, in questa gara dal gusto antico. Ma per tornare a condividere non avevo bisogno di molto, a chi potevo chiedere se non ai miei amici?». Andrea ogni tanto esce in bicicletta, Roberto no ed in più sua moglie non sembra essere molto contenta: «Il suo timore era di “rubare” un’esperienza alla compagna. Io glielo ho detto: “A Gaiole in Chianti non ci vai, se non per un motivo come questo. Non togli nulla a nessuno. Forse ti regali qualcosa”».
Già, Lorenzo li vuole proprio portare a Gaiole, ad un’Eroica speciale, la sua. «L’idea di guardarmi indietro fra qualche anno e pensare di aver perso un’occasione mi faceva paura. L’Eroica me la sono inventata io. Stesso percorso, stesso orario di partenza dalla piazza di Gaiole, addirittura stessi sacchetti con il rifornimento. Ho costruito i pettorali con borse di Juta e mi sono inventato delle targhette di legno compensato per il numero. Quattro cifre, come l’Eroica vera, ma i numeri li abbiamo inventati noi». La bicicletta d’epoca gliel’ha data papà, che è geloso di tutto ciò che è suo ma questa volta non ha potuto evitare di lasciarsi andare, di lasciarla andare. Lorenzo racconta ad Andrea e Roberto di Fiorenzo Magni a Bologna mentre stringe con i denti la camera d’aria per attutire il dolore del braccio rotto, racconta di Alfredo Binda e di quel giorno di Marco Pantani ad Oropa. Racconta per dare un senso a ciò che fra poco faranno.
Nella piazza di Gaiole, i tre ragazzi, si incontrano all’alba. c’è solo un fotografo ad attenderli. «Era deluso, aspettava tanti altri corridori. Probabilmente provava ciò che avevo provato io ed era lì per inventarsi anche lui una sua gara. Ci ha fatto qualche scatto e siamo partiti. Erano le 05:03». Mentre salgono verso il Castello di Brolio, Lorenzo spiega che gli anni scorsi, lì, c’erano delle fiaccole a illuminare. Ora è buio e ad indicare la strada ci sono solo le luci delle loro biciclette disposte in fila indiana. «Erano notti di luna piena e quella sfera bianca illuminava il sentiero. Verso le sette è arrivata la luce e, sullo sfondo, abbiamo iniziato a vedere le colline toscane ed i cipressi».
Le salite sono aspre, dure, rigide e serve un meccanismo per ingannare la mente e percorrerle. «Ci siamo inventati una sorta di “maglia a pois dell’Eroica” e ad ogni salita scattavamo per aggiudicarci dei punti immaginari. Ne ho vinte undici, avevo i polpacci di ghiaccio. Mi facevano male. In alcuni tratti è davvero disumano». Ci si aspetta, si condivide e si ripensa a tante cose. Per esempio al primo ricordo dell’Eroica che, per Lorenzo, è un vecchio filmato di Luciano Berruti su una bici anni ’30 della Peugeot.
Si pranza a Montalcino, non il solito pranzo fra i banchetti dell’Eroica, abbuffandosi di tutto ciò che capita a portata di mano, ma oggi bisogna fare così. Quando i tre ragazzi arrivano ad Asciano è già tardi e Lorenzo pensando all’anno prima, dice ai suoi amici che è contento, che per lui ci si può anche fermare, che si può tornare indietro. «Non hanno voluto. Io li ho portati sino a lì, loro mi hanno portato fino all’arrivo. Sono stati loro a voler concludere, a voler arrivare».
A Radda in Chianti inizia a diluviare, è la pioggia di ottobre, quella fredda, umida, quella da raffreddore. Si va avanti. Ad ogni stazione una firma, un timbro sul libro gara, per dire che si è passati anche da lì, nonostante tutto.
A Gaiole si arriva alle undici di sera, dalle cinque del mattino. «Abbiamo pedalato per più di quattro ore al buio e con la pioggia. Non sai quanti cinghiali, da soli o con i cuccioli, ci hanno attraversato la strada. In alcuni momenti abbiamo avuto paura. Dopo il pranzo, avevamo mangiato solo cioccolato e caramelle. Quando abbiamo trovato un locale aperto, ci siamo seduti al tavolo e abbiamo ordinato hamburger di chianina, eravamo i più felici al mondo». A quel tavolo, non c’è solo la soddisfazione per una bella giornata, a quel tavolo c’è soprattutto Roberto che lo dice ad alta voce: «A Gaiole porterò la mia famiglia in vacanza, giurateci».
Perché l’Eroica è tutto ciò che vi abbiamo detto e in particolare ciò che ci dice Lorenzo quando il racconto sembra finito ma è appena iniziato: «L’Eroica è un modo per sentirmi vicino a un tempo che non c’è più ma batte ancora. L’Eroica sono mio papà e mio nonno, i loro insegnamenti, le loro abitudini, ciò che mi hanno sempre raccontato e che me li fa ricordare. L’Eroica è l’approvazione della gente quando arrivi a Radda in Chianti e, vedendo tutti i timbri, quasi ti spingono all’arrivo dopo averti sorriso. Ma è anche un paesino incantevole come Lucignano d’Asso, a cui non fa caso quasi nessuno nonostante sia bellissimo. Magari ti fermi giusto per prendere l’acqua. L’Eroica è l’attenzione per la mia bici, perché è lì che impari a trattare gli oggetti con cura perché se la meritano, la cura. Come le persone».
Foto: Lorenzo Mariotti
Della sabbia e del fango: intervista a Nicolas Samparisi
La prima parola che ci viene in mente per parlare di Nicolas Samparisi non può che essere schiettezza. Parlando con lui, classe 1992, lombardo di Tirano, si nota subito una spiccata lucidità, soprattutto nella valutazione del proprio lavoro, una sincerità spietata. Il mondiale di Ostenda non è andato come avrebbe voluto e nasconderlo non serve a niente: «Non è partito bene ed è proseguito peggio, purtroppo. Venerdì, in ricognizione, ero a ruota di Gioele Bertolini: lui è caduto ed io non sono riuscito a evitarlo. Mi sono ferito ad un dito, mi hanno dato immediatamente alcuni punti di sutura e dell’anestetico ma ormai il danno era fatto. La domenica sono già partito con questa problematica ed a lungo andare ha influito sulla prestazione».
Per preparare la gara di Ostenda, Nicolas era stato diversi giorni in Olanda, aveva gareggiato lì e si era allenato. «Credo sia utile seguire un percorso di questo tipo: quando torni da Olanda, Belgio o Repubblica Ceca senti immediatamente di avere una gamba diversa. Noi diciamo che “ti cambia la gamba” per intendere questo miglioramento repentino. Attenzione però perché è un’arma a doppio taglio. In questi paesi trovi moltissimi tracciati duri, ideali per crescere. In molti casi si rischia l’overtraining: arrivi in gara già stanco e ti pregiudichi il risultato». Quest’ultima problematica Nicolas la avverte particolarmente, anche a causa del suo carattere. «Sono molto preciso. Se in tabella sono indicate quattro ore di allenamento, anche se dopo tre e mezza sono stanco, non mi fermo. Se sono quattro, devo farne quattro. Forse, qualche volta, essere un poco più indulgenti con se stessi farebbe bene. Sono fatto così, posso farci poco».
Nicolas si definisce un passista-scalatore. «Dico sempre che la diversità caratteriale tra me e mio fratello Lorenzo passa anche per le nostre diversità tecnico-tattiche. Lui è uno scalatore puro, più istintivo, tanto nel cross quanto nella vita. Io, da buon passista, sono riflessivo. Però Lorenzo è una delle poche persone di cui mi fido ciecamente. Se mi dice che la pressione delle gomme in una determinata gara deve essere di 1.2 bar, non ci penso un attimo a regolarmi in tal senso». Tempo fa, Lorenzo è stato operato per il restringimento di un’arteria, Nicolas non ha avuto dubbi su cosa dirgli: «Gli ho solo detto di avere pazienza che sarebbe riuscito a tornare ai suoi livelli. Soprattutto gli ho ricordato che la vita non si ferma al ciclismo e che non bisogna mai dimenticarlo. Anzi, bisogna conservare la capacità di godersela, altrimenti si fa un errore madornale». Parlare di carattere è in realtà anche parlare dei vari percorsi che il ciclocross propone e delle caratteristiche che servono per affrontarli. Già, perché parte del tuo rendimento è direttamente influenzato da questo. «Il percorso del mondiale di Ostenda è indubbiamente stato uno dei percorsi più completi degli ultimi anni. L’introduzione della sabbia è molto significativa e bisogna parlarne. Nella sabbia si pedala in modo diverso rispetto al fango. Le ruote affondano ed è indispensabile una potenza non indifferente per uscirne. Devi prendere la canalina, riuscire a stare in equilibrio e gestire le sbandate. Il tutto con i battiti alti della gara».
A Samparisi piacciono percorsi di questo tipo ed è convinto che in Italia ci si stia muovendo nella giusta direzione, cercando di disegnare percorsi più duri dopo che per molto tempo si era puntato tutto sulla tecnica. Nicolas pensa che la presenza di van der Poel e van Aert sia un bene per tutto il movimento: «Con loro in corsa il ritmo gara aumenta di molto: solo così possiamo migliorarci. A livello personale credo che van Aert sia più forte mentre van der Poel più tecnico. Se guardiamo i dati delle gare questo emerge nettamente». Anche ora che, a casa, vuole solo dedicarsi alla propria famiglia ciò che prova in corsa lo emoziona: «Quest’anno è stato particolare e non fa molto testo. In Belgio le persone pagano per venire a vederci. Quanto devono tenerci? Quanto dobbiamo interessargli? L’anno scorso avevo fatto stampare mille cartoline da regalare ai tifosi: le ho finite e ho dovuto farle ristampare. Qualunque momento è buono per chiederti un ricordo o un pensiero. Rende l’idea della grandezza del cross?». Quando le cose non vanno, Nicolas Samparisi riesce a staccare mentalmente e ripartire, col tempo ha imparato ed oggi è questa caratteristica a salvarlo. «Non ero molto felice al ritorno da Ostenda ma pensarci non avrebbe comunque cambiato la situazione. Al campionato italiano c’è in palio una maglia tricolore a cui tengo molto, ora penso a quella. In più quest’anno ho capito di poter entrare tra i primi venti nelle gare di Coppa del Mondo, è un passo importante per cui lavorare giorno per giorno. Non c’è tempo per guardarsi indietro. Non vi pare?».
Foto: Previsdomini/Per gentile concessione di Nicolas Samparisi