Dov'è la casa di Ceylin
Ceylin del Carmen Alvarado ha imparato a sentirsi a casa. Rafael, suo padre, viaggiò ben presto dalla Repubblica Dominicana verso l’Olanda ed il resto della sua famiglia lo raggiunse quando Ceylin aveva appena cinque anni. A quell’età, i ricordi sono ancora nebulose, semmai restano i colori e i profumi, e puoi “fare casa” qualunque luogo ti cresca. Però, se è vero che buona parte della personalità si forma nei primi anni di vita, le esperienze di quel tempo ti consegnano qualcosa che resta inciso in quello che sei. Papà è un ciclista e vuole che la ragazza impari a pedalare seriamente sin da giovanissima. «Lo sport che pratico non sarebbe stata la scelta più logica per il luogo in cui sono cresciuta. Io vengo da Rotterdam» – racconta a CyclingTips – «quante atlete professioniste provengono da lì? Credo solo io e Lucinda Brand». Cabrera è così distante, di lei nella fredda Olanda resta quasi solo la lingua; Alvarado parla ancora spagnolo fra le mura di casa. Ma a Ceylin non manca nulla o almeno così sembra. Fra le vie di Rotterdam come nella terra fangosa in qualche città al centro dell’inverno.
«Sono cresciuta in fretta. Quando sono arrivata io, atlete come Helen Wyman, Nikki Harris e Marianne Vos, avevano lasciato e questo mi ha aiutato, senza dubbio. Soprattutto, però, mi ha guidato la capacità innata che ho in me. Riesco a far mio qualunque tipo di percorso e quando questo accade mi viene naturale fare la mia gara. C’è una natura estremamente fisica in questo sport. Mi spiego?». Circostanze e possibilità, come terra e bicicletta. Perché per saper pedalare nel fango devi saperlo accarezzare, certo, devi saper scegliere la traiettoria migliore, caricarti la bicicletta in spalla e coprirti gli occhi dagli schizzi: in breve devi saperne accettare il potere e la forza. Altrimenti rischi di essere un Don Chisciotte alle prese con i mulini a vento. Ma devi anche essere capace di imporre la tua legge, di spingere quelle ruote più forte che puoi, di strapparle delle scie sbagliate come salveresti qualcuno dalle sabbie mobili. Se non ci riesci, torni a essere Don Chisciotte. Circostanze e possibilità come vita e tempo. «Ho le mie giornate nere e a volte sto male. Dall’esterno sembra mi riesca tutto facile, lo so. Lo faccio sembrare facile, ma non è facile. Da junior ho avuto molti problemi al ginocchio, febbri ghiandolari e polmonite». Quel sorriso, bellissimo, nascosto sotto quei ricci neri che la fanno tutta capelli non è circostanza, è volontà e resta anche quando la luce si spegne.
Alvarado, “facendosi casa ovunque”, ha imparato il valore della sincerità. La vita dei ciclisti è vita del mondo e al mondo che ti accoglie devi la verità di ciò che pensi. Diversamente non sono il mondo, la città, la terra o il fango, a non accoglierti, sei tu a non accogliere te stessa e non potrai sentirti a casa nemmeno per un attimo: «Mathieu van der Poel è pagato per correre o per dare spettacolo? Io sono pagata per correre o per far divertire? Io credo di essere pagata per fare la mia corsa ma so che, se faccio la mia corsa, il pubblico si diverte». Dritta al punto tanto da non sembrare una ragazza di ventidue anni: «Certo che il tema dell’uguaglianza e della non discriminazione sono questioni importanti. Come potrei dire di no? Personalmente, però, non ho avuto alcuna esperienza negativa, forse per questo non sento la necessità di parlarne ogni volta. Solo quello. Oggi il tema si sente in maniera particolare perché il ciclismo sta crescendo sempre più». Alvarado ricorda la sua prima bicicletta: «Non provengo da una famiglia benestante. La mia prima squadra noleggiava le nostre biciclette, così ho potuto iniziare a gareggiare. Ma, prima o poi, i genitori devono comprare una bicicletta per i loro figli e non tutti possono permetterselo: comprare una bicicletta costa molto di più rispetto a comprare un paio di scarpe da calcio. Il ciclismo è uno sport costoso e diventerà sempre più costoso. Le federazioni devono iniziare un lavoro dalla base».
Nel 2020 Ceylin del Carmen Alvarado ha vinto sia il Campionato Mondiale a Dubendorf che il Campionato Europeo a ‘s-Hertogenbosch e di questo bisognerebbe parlarne, questo rende bene l’idea di chi sia. Oppure no? Forse l’idea di chi è davvero Ceylin è racchiusa altrove e lì andiamo a prenderla. «Probabilmente chi fa ciclocross ha un alone meno professionistico rispetto a chi fa strada. Però io qui ho mio padre, meccanico, mia madre, soigneur, e mio fratello, al primo anno da under23. Loro sono i miei appoggi». Già, perché chi viaggia, alla fine, lo capisce. Casa può essere il luogo da cui parti ma più spesso casa è il luogo in cui vuoi tornare. Un luogo da lasciare lì, con ancora qualcosa da sistemare, per avere una buona scusa per farci ritorno. E, se non possiamo sempre scegliere da dove partire, abbiamo il dovere di scegliere dove tornare.
Foto: Twitter/Trofeo Sven Nys
Il vento di Taylor Phinney
Parola di Haruki Murakami: «Quando la tempesta sarà finita, probabilmente non saprai neanche tu come hai fatto ad attraversarla e a uscirne vivo. Anzi, non sarai neanche sicuro se sia finita per davvero. Ma su un punto non c’è dubbio. Ed è che tu, uscito da quel vento, non sarai lo stesso che vi è entrato». Per Taylor Phinney quel vento è dietro una curva della discesa di Lookout Mountain, all’altezza del chilometro quarantacinque di corsa dei campionati nazionali statunitensi in linea. Dietro una curva qualunque, di un qualunque giorno di maggio, di un qualunque lunedì, in una discesa come tante altre, a Chattanooga, in Tennessee. Forse Phinney, quel 26 maggio 2014, aveva sentito dire da Murakami che, in fondo, scendere è sempre più difficile che salire. E probabilmente ci aveva anche creduto, astrattamente, non in quel momento. Perché la discesa ti inganna con la velocità, col respiro che è quieto, con le ruote che scorrono veloci e i copertoni che inghiottono la strada. La discesa ti inganna raccontandoti che manca sempre meno e con la sua follia mancherà sempre meno. La discesa ti fa sentire più vicino all’arrivo. A ciò che vuoi.
Basta un attimo, un secondo nato storto e, disteso a terra come sacco abbandonato, là, accanto a un guard rail, non riesci a immaginarti più nemmeno l’idea del movimento. La gamba è distrutta, la tua gamba sinistra è in frantumi. Più giù non puoi andare, non riusciresti nemmeno a rotolarti a valle con la forza della disperazione, più su non riesci nemmeno a guardare. Senti solo la scia delle altre biciclette che passano e ti sfiorano mentre i soccorsi provano a metterti in sicurezza prima di portarti via. Chiudi gli occhi perché quando hai dolore, hai la sensazione di sentire con ogni parte del corpo e tenerli chiusi ti illude di stordire il male. Per lo stesso motivo stringi i denti, serri le mani, magari le batti sull’asfalto. Sembra non passare più. Vorresti solo ti levassero quel male e potresti sopportare tutto. Forse lo chiedi anche: «Toglietemi il male, non mi interessa più di niente».
Il male, poi, si attenua. Perone e tibia sono polvere di ossa, il tendine della rotula è reciso: la chirurgia mette una pezza. Te lo ricorderai sempre quel taglio. Lo sentirai passandoci le dita, lo vedrai perché sarà sempre più chiaro della pelle circostante, la stanchezza si infiltrerà in quel pugno di muscoli e ti ricorderà che è tutta apparenza, una parte di te l’hai già buttata via.
I medici lo dicono chiaro e tondo a Phinney: «Riprenderai in mano la tua vita e sarà una vita normale. Dovrai cercare un altro lavoro, però: non potrai più fare il ciclista». È la seconda botta, inflitta mentre la prima fa ancora male. TI dicono che devi lottare per la normalità ma la tua normalità non c’è più. Te l’hanno tolta senza chiederti il permesso, senza una prova o una sentenza. Te l’hanno tolta dicendoti che “non è più possibile”.
La mamma di Taylor Phinney, Connie Carpenter, dice ancora oggi a Kasia Niewiadoma, fidanzata di Taylor, che quando si va in fuga bisogna guardare solo davanti, che del gruppo che insegue non deve importare nulla. Papà Davis ha lottato contro il Parkinson e ha capito una cosa: la ricerca è importante, fondamentale, ma il passo decisivo può venire dalle parole. Da ciò che si dice e si trasmette. Per esempio dal sapere, perché te lo hanno detto o perché lo hai letto, che vivere bene col Parkinson è comunque possibile. Phinney riparte prima di ripartire. Forse è l’unica possibilità per non impazzire: inizia a leggere, a studiare, conosce l’arte, sperimenta la pittura. Si rialza in quel momento Taylor e quando tutti lo vedono in piedi lui è già oltre, è già diversi passi avanti.
Da atleta era abituato a governare il suo corpo, a forzarlo, a fargli fare ciò che voleva, quando voleva. Ora deve scendere a patti con la propria carne. Non può fare nulla senza che il corpo non sia pronto, non può imporre tempi e ritmi. Deve ascoltare un tempo che non è più suo pur essendo fin troppo dentro di lui, nelle sue cellule. Quando riprende a pedalare lo fa assieme a Lachlan Morton e Cameron Wurf, lo fa per dirsi che è ancora capace, che ci riesce ancora. Non pensa a nulla di quello che di lì a breve accadrà. Taylor Phinney tornerà a correre fra i professionisti e sarà nuovamente quello di prima. Quello che una discesa aveva ribaltato ma non fermato. Quello che mamma e papà avrebbero sempre voluto.
Così simile a loro, così capace di declinare la vita a proprio modo, portandosi appresso il peso dei ricordi che diventa bagaglio per stare sempre meglio o per saper vivere anche stando male. C’è l’eco di Murakami qui. Sceglierà Education Drapac perché nell’educazione, nello studio, nella cultura, c’è il suo impegno e la sua promessa: quella di tornare sui banchi, questa volta per davvero, dismessa l’attività professionistica. Perché una parte della sua salvezza è lì ed è giusto tornare a trovarla. In fondo, il legame con ciò che ti salva è come il legame con chi ti tira una volata, ti accompagna in una fuga senza senso, o trasporta la tua barella in qualche corsia di ospedale. E Phinney, che oggi è un altro uomo, lo sa bene: «Può darsi che non sarai mai felice. Perciò non ti resta che danzare così bene da lasciare tutti a bocca aperta». Parola di Murakami, parola di Taylor Phinney.
Foto: Pentaphoto
Luca Scinto e il prezzo dell'essere veri
«Ho provato a mentire alle mie figlie per lavoro. Magari, il sabato, mi chiedevano di accompagnarle da qualche parte dopo la scuola e io rispondevo che non potevo in quanto dovevo andare in ufficio a lavorare. Non era vero, andavo ad allenare qualche ragazzo in vespa. Mi è accaduto con Visconti, con Tortomasi e con tanti altri: ero disponibile con chiunque me lo chiedesse. Non sarebbe stato mio dovere ma per come vivo il ciclismo non avrei mai potuto dire no. A me piace allenare i ragazzi».
Luca Scinto vive il ciclismo in maniera totale e come lo vive lo racconta. Non ci sono parole trattenute o nascoste, Scinto deve dire ciò che pensa e non importa il pensiero comune, lui, da buon toscano verace, dice la sua. «A volte i ragazzi non ringraziano nemmeno, come fosse scontato. Sto ore sullo scooter e non sono pagato per farlo. Lo faccio volentieri e non saprei fare altrimenti, mi chiedo solo se questo spirito venga capito. Al Giro d’Italia, arrivo a fine giornata sfinito. Perché? Perché vivo la corsa, soffro in corsa, partecipo ad ogni circostanza. Potrei fare come alcuni colleghi che arrivano in hotel e sono tranquilli perché hanno fatto il loro lavoro e poi “vada come vada”. Invece no».
Questo è un pregio ma, come dice Luca Scinto, potrebbe anche essere visto come un difetto. «Non ho mai trascurato la mia famiglia, sia chiaro. Grazie al lavoro, anzi, sono riuscito ad affrontare meglio difficoltà extra-lavoro. Sono riuscito a isolarle. Credo sia per il mio darmi completamente a quello che faccio. Ho tanti difetti e pochi pregi. Questo modo di operare spesso non viene compreso fino in fondo». Qui Scinto pensa alle delusioni avute in questi anni. «Cinque anni fa ho scelto di prendermi un periodo di pausa e dedicarmi ai più giovani. Angelo Citracca non avrebbe voluto, mi chiedeva di aspettare. Non potevo aspettare, si era rotto qualcosa con i ragazzi e non riuscivo più a continuare facendo finta di niente. Non mi fidavo più, ero stato deluso, ero stato tradito. Quando un corridore fa uso di doping, ti mente, finge di sentirti ma prende altre strade. Chi fa uso di doping imbroglia, ruba agli altri. Non è mai stato accettabile, oggi ancora meno. Sono tornato perché sapevo di avere la coscienza pulita, perché ero certo di non avere alcuna responsabilità ma è servito tempo. Ho sempre messo la faccia per i miei ragazzi. Citracca continuava a dirmelo: “Luca, guarda che non sei lo stesso. Sei cambiato, Luca. Torna come prima”. Ci ho messo tre anni per tornare come prima. Alla fine ti lecchi le ferite e vai avanti ma resta l’amaro in bocca. Capisci che, nella vita, ci sono degli irresponsabili e accetti questa verità».
In quell’anno Luca Scinto ha riflettuto. «Mi sono guardato intorno e ho capito chi erano i veri amici. Citracca era un amico, uno di quelli veri. Con lui condivido un’amicizia di quasi trentacinque anni, un’amicizia in cui si condivide tutto, anche fuori dal ciclismo. Tanti altri no. Ma le delusioni non sono solo queste. Sono delusioni anche tutti quei rapporti che cerchi di costruire con i ragazzi e che si disfano sotto il peso di questioni meramente economiche. Succede così. Certi rapporti puoi costruirli fino a quando gli atleti sono giovani poi diventa impossibile. Si tratta di un dato di fatto».
La gratitudine ha un peso notevole nella coscienza del direttore sportivo della Vini Zabù Ktm. «Sai, è importante dire i tuoi grazie, ogni tanto. Penso a mia mamma che non c’è più. Lei e i miei nonni mi hanno da subito supportato in questa scelta e posso assicurarti che per loro, per quei tempi, si trattava di un sacrificio notevole. Tutto quello che ho fatto, lo devo a loro. Penso a Maximilian Sciandri che mi ha voluto con lui al passaggio al professionismo. A tutti gli insegnamenti di Giancarlo Ferretti e agli anni condivisi con Michele Bartoli. Soprattutto penso ad Angelo Citracca».
Citracca e Scinto hanno corso assieme, sia da compagni di squadra che da avversari. Quando Luca Scinto stava per smettere, Angelo Citracca gli ha telefonato: «Mi chiese di andare con lui, c’era l’idea di costruire una squadra di dilettanti. Quando smisi, gli proposi di trovarci al bar per parlarne: ci fu una stretta di mano da amici quali eravamo e iniziammo tutto. Angelo è come un fratello per me, sono diciotto anni che lavoriamo assieme e, lo dico sinceramente, fino a quando Citracca resterà nel ciclismo io sarò con lui. Diversamente ci penserò, magari cambierò lavoro. Si discute, certo. Chi ti dice sempre sì, chi non dialoga ed accetta ogni cosa, non è un amico. Bisogna ricordarselo. Sembra strano da dire ma Angelo caratterialmente è più forte di me». Scinto sorride e ammette: «Sono salito in auto e ho provato a fare il direttore sportivo».
Nel tempo tante soddisfazioni: la più grande, a giudizio di Scinto, è la vittoria di Oscar Gatto a Tropea al Giro, davanti a Contador. Come non ricordare il secondo posto di Pozzato al Fiandre, «una scommessa di una piccola squadra che sarebbe potuta valere una grande classica», e i titoli italiani conquistati da Giovanni Visconti. «Sembrerà esagerato ma non lo è. In fondo, un direttore sportivo deve fare con i propri atleti quello che un genitore fa con i propri figli. Deve rassicurarli, tranquillizzarli, metterli a proprio agio. Bandire il panico. Questo comporta un forte rapporto con i corridori, bisogna sentirsi spesso, bisogna parlarsi molto».
Sull’abbrivio di queste considerazioni, Luca Scinto continua: «Non può esistere campione che non si conosca, che non conosca il proprio fisico. Ho avuto un grande preparatore come Luigi Cecchini ed il Centro Mapei mi ha aiutato molto ma certe cose devi capirle da solo. Un corridore deve sapere quando è il suo picco di forma stagionale. Deve sapere se va meglio con il caldo o con il freddo. Puoi avere tutti i migliori preparatori dell’ambiente ma se non ti conosci non vai lontano. Si sono fatti tanti passi avanti ed oggi anche i materiali sono parte integrante delle prestazioni, questo, però, viene a monte. A me non piace la programmazione esasperata. Sono atleti, non robot. Alcuni ragazzi hanno paura a restare un giorno senza bicicletta, sono terrorizzati. Il riposo è importante quanto l’allenamento, se lavori bene puoi restare anche due, tre giorni senza bicicletta. Ci sono tanti altri esercizi da fare. Molto sta all’intelligenza tecnico-tattica dell’atleta. Un discorso simile lo ho fatto ai ragazzi questa primavera rispetto all’uso dei rulli: va bene usarli ma non bisogna abusarne, non bisogna fare fuori giri. Quei momenti sono, invece, i migliori per lavorare su tutti quei dettagli su cui di solito non si lavora. Dettagli che fanno la differenza».
Scinto non ha dubbi. «Se un figlio mi chiedesse di correre in bicicletta, acconsentirei immediatamente. Il problema del ciclismo di oggi non è il doping, è la sicurezza stradale. Su quella bisogna lavorare». Del ciclismo, quest’anno, a Scinto è mancato il pubblico. «Dobbiamo ringraziare il fatto che ci è stata data la possibilità di correre, di lavorare. Il ciclismo ha superato un esame davvero difficile e questo deve darci fiducia. Ma andare alle partenze e vedere quei piazzali deserti è davvero triste. Mi sono mancate le persone, la loro richiesta di foto, di autografi, le loro grida ed i loro applausi quando attraversi un passo alpino, i giornalisti con le loro domande e le loro interviste. Il ciclismo è anche tutto questo. Io, lontano dal pubblico, sto male».
Quest’anno Luca Scinto ha detto addio a Giovanni Visconti, passato alla Bardiani. «Non rinnego nulla. A Giovanni voglio bene, per me è una persona importante. Mi ha regalato moltissime emozioni e quelle restano e resteranno sempre. Lui lo sa, abbiamo idee diverse. Io al suo posto avrei agito diversamente ma ognuno fa le proprie scelte e se ne assume le responsabilità. Mi sarebbe piaciuto vederlo concludere la carriera con noi e magari, chissà, con un ruolo in squadra anche successivo. Le cifre che ci chiedeva questa estate, per noi, erano importanti, è andata così. Forse è anche un bene. Ultimamente Giovanni non era più contento qui. Come dice quel detto? Le minestre riscaldate non vanno mai bene e probabilmente sarebbe stato meglio se non fosse tornato dopo la prima esperienza con noi. Gli auguro tutto il bene. Sono certo che vincerà ancora diverse gare».
Se Scinto dovesse parlare di un proprio difetto, parlerebbe del suo essere permaloso. «Questo non vuol dire che non mi piaccia scherzare. Anzi. Amo scherzare: bisogna essere capaci di sdrammatizzare e di alleggerire l’atmosfera alla vigilia di appuntamenti importanti. Però quando si scherza, si scherza. Quando c’è da lavorare seriamente, sono molto esigente. A me manca l’istruzione, non ho studiato e non so le lingue. Ma credo di fare molto bene il mio lavoro: date ad altri direttori sportivi il budget ed i corridori che ho io e date a me il loro, poi vediamo. Non tollero chi non è sincero. Si può dire tutto ma lo si dice in faccia. Sono un istintivo. Sono focoso, ora già meno dei primi tempi. Se parli male di me, se mi parli alle spalle, non venire a stringermi la mano perché non so far finta di nulla. Non sono capace di sorridere come se nulla fosse».
Il pensiero torna ad un amico e ad un maestro. «Franco Ballerini mi diceva di continuare a mostrarmi cortese anche con chi non mi stimava. Diceva che la cortesia non va mai negata a nessuno, nemmeno alle persone che non ci piacciono o a cui non piacciamo. Lui aveva sempre una parola buona per tutti. Mi insegnava bene, sono io che non ho imparato». Parlare di Franco Ballerini significa parlare di tante cose: del rapporto rimasto con la moglie, di tanti momenti vissuti assieme, delle gare e di pomeriggi indimenticabili. «Mi chiamava al cellulare e mi diceva: “Vengo a prenderti e si va da Alfredone”. Alfredone era Alfredo Martini. Si parlava di vita e di ciclismo. Con Franco si era amici prima che colleghi. Ci volevamo bene ma non mi ha mai regalato nulla. Pensa che quando eravamo in nazionale e per rispetto della professionalità ero più freddo, Ballerini lo diceva a sua moglie: “Scinto non mi ha neppure salutato, oggi. Eppure l’altra sera ridevamo e scherzavamo come niente”. Per me era una questione di serietà sul lavoro. Una volta me lo disse: “Luca, mi serve un uomo per il mondiale. Vorrei portarti perché so che su Scinto posso sempre contare, so quello che può darmi Scinto. Ma te lo devi guadagnare”. Lavorai duro e mi convocò. Questo era Franco. Certe volte penso che, fosse stato ancora qui, molte cose sarebbero state diverse. Penso che avremmo costruito una grande squadra. Assieme».
Foto: Vini Zabù-Brado-KTM
Daniel Martin ha scelto la leggerezza
Daniel Martin lo dice chiaro e tondo: «In fondo, è solo una corsa di biciclette». Che non vuol dire sminuire un lavoro, che è poi il suo lavoro, ma significa semplicemente portarlo alla dimensione che realmente occupa nella sua vita, per scelta consapevole e, grazie a questo ridimensionamento, forse, dargli ancora di più. Non tanto a livello quantitativo, quanto a livello qualitativo perché ciò che si mette in quel lavoro, a quel punto e solo a quel punto, è sgombro da inutili timori e da futili pretese, è più leggero e più leggeri si pedala meglio. «In certe occasioni resto davvero senza parole: per esempio, quando c’è una fuga in corso e tutti in gruppo si muovono. Per riprendere la fuga? No, neanche per sogno. Per difendere un piazzamento. Stiamo correndo in bicicletta, cosa abbiamo da perdere? Proviamo a vincerle queste gare invece di accontentarci di non perderle troppo vistosamente».
In fondo, Daniel Martin è ”umano, troppo umano”, come avrebbe detto Friedrich Nietzsche, e già questo potrebbe non essere scontato tra le varie circostanze di vita che, piano piano, risucchiano quell’umanità. Ancor meno scontata è la forza che Daniel Martin profonde per difendere quel suo istinto di umanità, per aggrapparvisi come ad un ramo affacciato su un precipizio. Tante piccole scelte, tutte importanti in questo senso. Scelte che hanno a che fare, in primis, con le distanze, impossibili da misurare o da contare per un ciclista. Ma, se è vero, che alcune distanze sono imposte dal lavoro, è altrettanto vero che, per altre, si può scegliere. Un esempio calzante sono i ritiri: se può restare a casa ad allenarsi Daniel Martin è più sereno, il tempo con la compagna e le due figlie, gemelle, lo fa stare bene. Allora si chiede: perché rinunciarci?
Martin non trova un perché che abbia davvero un senso e a quel tempo non intende rinunciare. Come non ha voluto rinunciare a vedere nascere le due gemelline, nonostante fosse in corsa, alla Vuelta. Avrà pensato: «Ma scherziamo? Quante volte potrà mai ripetersi questo momento nella vita di un uomo? Al diavolo la corsa. Torno a casa». Un aereo e via. Non c’è niente da fare, Daniel Martin è così. Si potrebbe ricercare il seme di questa essenza nei primi anni di vita, in quella bicicletta regalata a Natale e rinchiusa in uno sgabuzzino solo qualche giorno dopo, nonostante in famiglia il ciclismo fosse cosa importante: Neil Martin, suo papà, è un ex professionista ma c’è di più. E non poco di più, perché lo zio di Daniel Martin è Stephen Roche vincitore del Giro d’Italia, del Tour de France e del Campionato Mondiale su strada nel 1987. Può voler dire tanto ma può anche non significare nulla: molte volte è proprio quello che respiri in famiglia che vuoi fuggire. Non la sostanza, magari, ma il modo di approcciarsi a quella scelta di vita. Forse Daniel, vedendo gli allenamenti dello zio, dapprima ha pensato che quella scelta non faceva per lui, poi si è ricreduto e ha capito che non era la scelta il problema ma il modo di affrontarla. Forse a lui di essere un altro Stephen Roche non interessava neppure. O magari, più semplicemente e senza troppi ragionamenti, Daniel Martin è sempre stato così e nel ciclismo non ha portato altro se non il suo modo di vedere il mondo. Lo dicevamo prima, la leggerezza salva. Da cosa? Ad esempio dal doping.
Già, perché poi, si dica quel che si vuole, molte volte l’atleta che fa uso di doping, pratica scorretta e da condannare senza se e senza ma, ci mancherebbe, non è il mostro ritratto dai giornali e sbattuto in prima pagina, giusto per qualche copia venduta in più, soprattutto se il nome è importante e fa più gola ai lettori. Certe volte chi casca nel gorgo del doping è qualcuno di troppo fragile per resistere alle pressioni o alla paura del fallimento. Qualcuno troppo fragile per «stare bene lo stesso». Daniel Martin ha le idee chiare: «Non ho problemi a parlare di certe sostanze e ho ancora meno problemi a dire con chiarezza che non le assumerò mai. Per un motivo molto semplice: non ho bisogno di vincere per stare bene, io sto comunque bene». Parla di se stesso e dei colleghi e sgombra il campo da dubbi e polemiche: «Se pensi che il tuo avversario non sia onesto, è inutile che corri. Non è un ragionamento da fare».
Martin, nato a Birmingham il 20 agosto del 1986, corre a trentaquattro anni come correva per gioco da ragazzino. Se il ciclismo diventasse qualcosa di diverso da quello che per lui è, non gli piacerebbe più e lo manderebbe a quel paese senza troppi scrupoli, come quella volta in Spagna. Questo lo rende più vero, come tutto quello che piace a lui e come tutte le sue scelte che possono chiamarsi così proprio perché prese a briglie sciolte, ascoltando una coscienza ancestrale. Questo significa trovare molto e perdere altrettanto. Significa vincere un Giro di Lombardia, una Liegi Bastogne Liegi, due tappe alla Vuelta a Espana e due tappe al Tour de France. Ma vuol dire anche franare a terra e vedersi sfuggire ciò che con la pura razionalità, forse, avresti da tempo nel tuo palmares. Sarebbe bastato fare diversamente. Fare diversamente, però, avrebbe anche voluto dire avere qualche fardello in più da portare sulle spalle e qualche sacrificio a cui rispondere sì meno volentieri. Perché solo ciò che afferri con leggerezza può essere pesante e non pesare. Spesso non è il peso dell’oggetto ma il tuo mentre lo sollevi, a essere un problema. Per questo la leggerezza, al modo di chi «plana sulle cose e non ha macigni sul cuore», di Daniel Martin è la sua più grande bellezza.
Foto: Claudio Bergamaschi
Felice come Michael Matthews
Bling è Michael Matthews. Ma non è possibile spiegare pienamente cosa significa Bling, e di conseguenza raccontare Michael Matthews, senza andare con la mente ad una circostanza abbastanza frequente. Spesso è ciò che non ti aspetti a traghettarti in quella che poi sarà la tua dimensione. Nella vita questa è esperienza comune, lo si scopre ben presto. La scoperta, però, non finisce qui. Succede infatti che, proprio quando ti imbatti in quello che non ti aspettavi e percepisci che, in fondo, tu appartieni da sempre a questo qualcosa, ti volti indietro e, con un pizzico di lungimiranza o se volete di interpretazione, capisci che molte delle cose, che per il buon senso comune o per la logica della società in cui vivi sono da rimediare o da aggiustare, sono le uniche ad averti portato lì, dove sei felice. Bastava incanalarle, bastava indirizzarle. Michael Matthews lo ha dichiarato più volte: «Sono felice, davvero. Per questo sorrido sempre. La mia ricetta consiste nel godermi la vita. A più non posso». Tutto facile, no? No, per niente, perché per essere felici serve capire, senza comprensione non può esserci felicità. Senza comprensione può esserci solo inconsapevolezza. Ci si può sentire leggeri nella felicità, come nell’inconsapevolezza, ma non si tratta dello stesso sentimento.
«A Canberra, da ragazzino, ero considerato un “diverso”. Il mio soprannome viene da lì, Bling significa sgargiante, vistoso, appariscente». Si sa, i ragazzi, soprattutto nel periodo dell’adolescenza subiscono una forte spinta verso l’omologazione, necessaria per sentirsi parte di un gruppo o per conformarsi ad un modello. Si tratta di un modo come un altro per crescere sentendosi sicuri. Alcuni ragazzi condividono realmente l’approccio della maggior parte dei loro coetanei, altri no, ma si adeguano per non rimanere esclusi. La variante è rappresentata da coloro che non hanno alcuna paura di restare esclusi, anzi, non si riconoscono in alcuni aspetti della società in cui vivono e agiscono di conseguenza, per reale disapprovazione o per un istinto di protesta verso il sistema, più che mai sviluppato a quell’età: Matthews è stato uno di questi. «Un esempio? Tutti frequentavano scuole private, io frequentavo una scuola pubblica. Ma anche per l’atteggiamento o il modo di vestire non somigliavo agli altri ragazzi». Bling è un ribelle, frequenta quelle che si potrebbero definire cattive compagnie, finché un giorno la sua insegnante legge in aula un appello su un giornale: «Se nelle vostre classi sono presenti ragazzi di particolare talento in qualche disciplina sportiva, vi segnaliamo questo programma nazionale». Matthews è uno di quei ragazzi con uno spiccato talento, proprio lui che da bambino praticava motocross e che in città girava sempre in bmx.
Bling inizia così a correre, non senza qualche difficoltà. Si dice che all’inizio non avesse rivelato a nessuno dei suoi amici questa sua nuova passione. Probabilmente temeva il giudizio, la disapprovazione da parte della sua compagnia di amici un po’ ribelli. Ma Michael è sicuro delle proprie capacità, ora come allora ma in quel momento essere sicuri non era così facile: «La verità? Molti erano più forti di me. Ho faticato molto all’inizio». La sua è una famiglia umile, ma molto unita: Alan, suo papà, è macellaio, Dona, sua mamma, ha un negozio da parrucchiera. Poi ci sono Claire, la sorella maggiore, e Ben, il fratello minore. Michael proviene da un mondo che ha poco a che fare con lo sport, quella bicicletta, però, lo sta facendo “diventare”. Un verbo che fa paura diventare, Daniel Pennac lo diceva. Fa paura perché si svolge nel futuro, fa ancora più paura in certe situazioni, quando il tuo “diventare” sembra così a rischio perché il tuo presente è un poco sgangherato. Quanti di noi da ragazzi si sono proiettati avanti col pensiero e, magari, si sono chiesti: «Riuscirò a essere quello che voglio essere? Potrò esserlo?». E per qualcuno l’ostacolo era la lontananza, per altri il carattere, per altri la paura e via così. Per Matthews l’ostacolo poteva essere proprio quel suo modo di essere e di fare.
Per questo la felicità di oggi di Michael Matthews è una felicità che ha basi solide. Non è una felicità superficiale, non è una felicità inconsapevole. Bling ha capito: «In fondo, di quei ragazzi sono stato l’unico a passare professionista». Matthews che si è ribellato alla normalità, Matthews che si è ribellato anche allo stesso istinto di ribellione ed è “diventato”. Ha vinto tappe al Giro, al Tour, alla Vuelta, e un titolo iridato da Under 23. Ma soprattutto ha scelto la propria strada e, ciò che voleva gridare al mondo, lo ha gridato così. Perché basta dare un senso alle cose e la maggior parte delle cose ha un senso, da trovare magari sgomitando, trovando varchi e traiettorie insondabili, come in volata, in quello sferragliare di pedali. Si può essere appariscenti, si può essere diversi, si deve, forse, essere diversi: spesso è solo qualcosa che sta spingendo dentro per indicarti la rotta verso casa tua. Qualcosa da ascoltare e da guidare. Ben, suo fratello minore, se lo sarà sentito dire da Michael. Già, Bling qualche anno fa lo ha detto, in un’intervista: «Ben è molto bravo in qualsiasi sport scelga di praticare. Deve solo trovare la sua strada ma la troverà presto». Sì, perché, alla fine, quando hai capito dove cercarla, la felicità è solo questione di tempo.
Foto: Claudio Bergamaschi
Un tandem per due
«Daniele, perché non proviamo a correre il Giro delle Fiandre? Quello vero, intendo». Graziano Gallusi si è rivolto così a Daniele Riccardo al termine della Varese Van Vlaanderen, randonnée che si svolge su e giù per le strade di Varese. Daniele è rimasto stupito: «Il Giro delle Fiandre? Ma sai cosa significa correre il Fiandre?». Graziano sapeva bene cos’è il Fiandre ma di questo vi parliamo fra poco. Prima vogliamo raccontarvi di due ragazzi che si incontrano a una gara di tandem, in Veneto, e per caso si mettono a parlare. Quei due ragazzi sono proprio Daniele Riccardo e Graziano Gallusi. «Te lo confesso: all’inizio non avevo nemmeno capito che Graziano fosse non vedente. Ci siamo messi a parlare, per caso. In quell’occasione gareggiavamo con due compagni diversi». La sintonia fra i due è chiara da subito e proprio da lì nasce quella promessa: «Magari un domani ci incontreremo e faremo qualcosa assieme. Nella vita non si sa mai, no?». Sì, quelle cose che spesso si dicono così per dire. Non fosse che Daniele, ogni tanto, va a trovare Graziano a Parma ed entrambi vanno sul lago di Garda: «Era una scusa buona per allenarsi con una temperatura mite. In realtà avevo provato più volte a lanciare l’idea di correre qualche gara ma Graziano non voleva proprio saperne. La Varese Van Vlaanderen è stata quasi un caso». Daniele dice a Graziano che ogni tanto bisogna buttarsi, che se non si prova a fare qualcosa non si potrà mai sapere se si è effettivamente capaci oppure no, che, per una volta, sarebbe il caso di provare. Graziano accetta e quella mattina sono entrambi a Varese, alla partenza della gara.
A Varese piove, anzi, diluvia. Serpeggia il malumore, molti non vorrebbero partire. «Ho guardato Graziano poi ho guardato tutti i partecipanti che mi erano vicini: ”Ragazzi, lo vedete? Lui non vi vede ma è qui per correre. Lui vuole correre, ha aspettato tanto questo giorno e non gliene frega nulla della pioggia, poca o tanta. Vuole partire. Io parto, voi fate come credete». C’è un profondo senso di responsabilità in ogni parola che Daniele dedica a Graziano, un senso di responsabilità declinato nel segno della normalità. «Io e Graziano ci prendiamo in giro, ridiamo molto e, nonostante la distanza, riusciamo a vivere la condivisione. Credo il segreto sia proprio quella normalità: bisogna essere capaci di alleggerire determinate circostanze dell’esistenza. Non cambierà comunque la sostanza ma cambierà il nostro modo di approcciarci ad essa». Daniele Riccardo è fiero: «Potrei anche correre da solo, certo, ma non sarebbe lo stesso. Quando finisci una Milano-Sanremo sei contentissimo, pensa a quando finisci una Milano-Sanremo e voltandoti guardi il tuo compagno di tandem e lo vedi contento. Lui, senza qualcuno che lo aiutasse, non avrebbe potuto essere lì. Non avrebbe potuto essere così felice. Sei stato tu a portarlo lì, è anche grazie a te se quel ragazzo può essere così contento. Ci si porta assieme da Milano a Sanremo. A me fa già venire la pelle d’oca dirlo. Devi provare, poi potrai capire cosa si sente». Graziano è determinato: «Lui è pienamente autosufficiente. Se tu gli dai un appuntamento da qualche parte, lontano da casa, stai certo che te lo ritrovi al luogo dell’appuntamento nel giorno fissato. Puoi giurarci».
Dicevamo del Fiandre, già, perché Daniele e Graziano vogliono correre il Fiandre nella categoria amatori, la prossima stagione. Daniele, la domenica del Fiandre, accende la televisione ovunque si trovi. «Sono stato a vederlo di persona in uno degli anni in cui ha vinto Tom Boonen: ho i brividi a ripensarci».
Anche Graziano quella domenica ha la televisione accesa, non può vederla ma sente tutto e, quando parla con Daniele, propone la sua idea tattica della corsa. L’altra idea, quella del Fiandre, invece ha iniziato a concretizzarsi un paio di anni fa: «Dopo la proposta di Graziano, quel giorno a Varese, ci ho pensato bene. Ho trovato dei ragazzi che organizzavano e si muovevano assieme in pullman, per il viaggio. Qualcosa che si collega molto bene all’idea di amicizia che mi piace sentire nel ciclismo. Quest’anno non se ne è fatto nulla a causa della pandemia, ci è spiaciuto ma frastornati dagli eventi, forse, non ce ne siamo nemmeno resi pienamente conto. L’anno prossimo vogliamo esserci. Ce lo immaginiamo tutti i giorni quel momento. Ne parliamo sempre. La nostra fantasia va oltre: vorremmo correre tutte e cinque le classiche monumento. Io dico che ce la faremo». Daniele Riccardo viene dal mondo della pista e, fino al 2007, non aveva nemmeno idea di come si manovrasse un tandem. «Mi hanno visto gareggiare e mi hanno proposto di provare. Su queste cose vado molto di istinto. Per me guidare il tandem è stato subito come guidare una bicicletta classica. Pensa che ho iniziato a far bene e a vincere nelle gare in Italia in maniera abbastanza improvvisata. Io scattavo in faccia agli spagnoli, agli olandesi, ai campioni della disciplina. Non li conoscevo e questo mi aiutava perché non avevo alcun timore reverenziale. Rivedo come fosse ora la mia partecipazione alle gare in Belgio: là hanno una vera e propria cultura del tandem. Che fatica in quei giorni».
Daniele e Graziano assieme perché il tandem macina metro su metro grazie alla forza propulsiva di due persone. Ma soprattutto grazie alla fiducia di due persone: «Ci fidiamo l’uno dell’altro, diversamente sarebbe impossibile. Graziano non può vedere, io sono il suo sguardo. Gli segnalo le rotonde, gli ostacoli, i tratti in cui ci si può rilassare e i punti in cui bisogna spingere più forte. Lui si fida, non ha bisogno nemmeno dell’orologio: sente la mia voce e conta i secondi. Io so che lui non sbaglierà e mi fido. Abbiamo migliorato il mezzo meccanico bicicletta in vista del Fiandre. Quando corriamo, dobbiamo essere concentrati solo sulla corsa, gli inconvenienti possono capitare ma devono essere ridotti al minimo. Sulla fiducia non è servito lavorare, ci viene naturale».
Già, perché, diciamocelo, pedalare assieme è davvero una delle cose più belle che possano capitare.
Foto: Daniele Riccardo
Il viaggio di Cala Cimenti
Gabriel Garcia Màrquez lo aveva scritto: il colonello Aureliano Buendìa si sarebbe sempre ricordato di quel lontano giorno in cui il padre lo accompagnò a scoprire il ghiaccio. “Cent’anni di solitudine” inizia proprio così, con questo ricordo. Non è un romanzo, non c’è un paese di poco più di venti case di argilla e canna selvatica come Macondo, ormai tutte le cose hanno un nome e indicare con le dita è un privilegio dei bambini, ma il nostro reale conserva retaggi di qualcosa che Màrquez sapeva bene. Cose semplici e genuine, come fare il pane, andare in bicicletta, accarezzare le foglie per sentirne la consistenza, parlare con gli animali e percorrere un sentiero di montagna sulle spalle dei giganti, che altro non sono che gli adulti. «Il valore dei viaggi – racconta Cala Cimenti – me lo ha insegnato papà, da lui ho imparato la bellezza dell’esplorazione, il significato della scoperta». Cala è un alpinista e quel nome, che in realtà sta per Carlo Alberto, è un po’ un ossimoro: la montagna attira verso l’alto, qualcosa che “cala” è qualcosa che scende. «Nel tempo questa è diventata la mia vita. C’è qualcosa di vitale nella possibilità di scoprire e poi raccontare, qualcosa che ti risveglia. Come la coscienza dei limiti e la possibilità di oltrepassarli. La nostra vita si svolge per la maggior parte del tempo in luoghi protetti, al riparo dai rischi. L’alpinismo ti porta fuori da questa dimensione: lì devi essere tu ad avere cura di te stesso, devi essere tu a valutare le condizioni esterne e ad interagire con esse. Non puoi barare. Se solo pensi di barare, corri un rischio enorme: il rischio di non tornare più. L’alpinismo è un gioco, un gioco complesso».
Ora l’alpinismo è il suo lavoro, ma da ragazzino Cimenti aveva una forte passione per il ciclismo: «I miei pomeriggi li trascorrevo sempre in bicicletta, a girare per il paese. Sono passato attraverso la disciplina della mountain bike per arrivare alla strada. Ho smesso solo perché andando avanti e diventando juniores, il ciclismo avrebbe assorbito tutto il mio tempo e non avrei più potuto studiare; però il ciclismo non ha mai smesso di piacermi». Nella vita, però, ci sono ricordi che restano lì, depositati da qualche parte ai bordi dell’anima e non importa se per molto tempo non hai nemmeno una bicicletta da corsa in casa, non importa se le circostanze ti hanno portato altrove, qualcosa resta instillato e, chissà quando, tornerà fuori. Un giorno Cala Cimenti ha un infortunio, una lacerazione di sei centimetri del polpaccio. «Un brutto infortunio, seguito da uno stop e da un periodo di recupero di più di due mesi. Parte della riabilitazione consisteva proprio nell’andare in bicicletta» .
La bicicletta è tornata, non importa come ma è tornata, tutto nasce così. La pandemia farà il resto. «Molti dei progetti che avevo sono saltati proprio a causa della pandemia, io stesso ho avuto il Covid. A casa pensavo e ripensavo. Sentivo di voler fare qualcosa, dovevo solo capire cosa». La bicicletta diventa per Cala quello che, per lui, non era mai stata: «Per me è stata la prima vera esperienza di cicloturismo. Spesso sottovalutiamo la possibilità di viaggiare con altri mezzi, mezzi diversi da quelli abituali. Pedalare ti permette di attraversare fisicamente colori, odori, suoni, natura, paesi e strade. Cambia tutto: in quei momenti vivi il contesto, ti immergi nel contesto. Non solo. Se interpreti il viaggio come l’ho interpretato io, conosci persone, usanze e modi di vivere. Conosci il senso più vero dell’ospitalità quando vieni accolto in una casa per riscaldarti o riposarti».
Cala Cimenti parte da Cuneo intorno alla metà di ottobre, il progetto è quello di attraversare l’Italia in bicicletta, tutte le ventuno regioni, fermandosi in diversi paesi e approfittandone per una attività da svolgere all’aria aperta: arrampicata, parapendio o anche una semplice camminata in montagna. C’è un carrello di quaranta chili con lui, lì dentro si trova tutta l’attrezzattura necessaria. In realtà le problematiche legate al Covid-19 obbligheranno Cala a tornare a casa prima del tempo, dopo che dalla Liguria, era transitato per l’Emilia e la Toscana, proprio mentre stava per dirigersi nel Lazio. Sono trascorsi ventiquattro giorni dalla sua partenza. Nel tragitto percorso, però, c’è già tutto. «Sono sincero, mi immaginavo un viaggio diverso, forse più tranquillo. I primi giorni, percorrendo la via del Sale, sono stati davvero tosti. Dalla fatica ho davvero pensato di mollare tutto e tornare a casa».
Ma il Cala tiene duro, forse più grazie alla testa che ai muscoli indolenziti. I momenti difficili non sono finiti ma, adesso assumono, un’altra sfumatura: «Nei tre giorni in Liguria sono incappato in una bufera d’acqua e vento forte, che ha causato una frana sul percorso. Vorrei saper raccontare la goduria di quella doccia calda in un bed and breakfast di Spotorno: impagabile dopo giorni a dormire al freddo. Poi ho dovuto aspettare che arrivassero le condizioni climatiche ideali per lanciarmi col parapendio. In Emilia-Romagna ho trascorso tre giorni in un bed and breakfast connesso ad una fattoria dove si produce parmigiano. Ho dormito in alta montagna, con una tenda a bordo strada. Ho dovuto pensare a procurarmi il cibo. Arrivato a Pisa ho incontrato vecchi amici e ho ”volato” con loro. In meno di un mese ho cambiato tre volte le pastiglie dei freni della bici, ho dovuto far fronte all’usura del cambio, all’usura della bicicletta. Non è forse una scoperta anche questa?».
Non c’è viaggio che non racchiuda un significato, voluto o meno, palese o nascosto, raccontato o lasciato all’interpretazione di chi, in altre faccende affaccendato, sfiori qualche rotta percorsa dalle tue ruote. Ed il viaggio di Cala Cimenti è stata una celebrazione: «Volevo celebrare la libertà ritrovata. Il mio era un inno alla libertà, che è come l’aria, e come tutte le cose che scopriamo quando ci mancano. Per questo volevo spostarmi in tutte le regioni d’Italia, volevo portare in giro questa libertà e fermandomi mostrarla nelle sue vesti migliori, quelle delle attività che si fanno all’aria aperta. Purtroppo non mi è stato possibile finire questo viaggio, la libertà si è nascosta un’altra volta. Ma tornerà, sono certo che tornerà. Coltiviamo questa speranza. Proviamo a immaginarla, facciamo questo sforzo. Immaginiamo il giorno in cui farà ritorno. Non sentite che bello?».
Foto: Cala Cimenti
I nuovi inizi di Ivan Basso
Quanto vento in faccia ha preso Ivan Basso? «Il vento è una componente importante del ciclismo. Tu corri in strada e il vento soffia in strada. In gruppo, si dice spesso: “c’è vento contro”. Il vento contro c’è in gruppo ma anche nella vita di tutti i giorni. Quante giornate facili possono esserci in una vita? La maggior parte sono col vento contro ed è col vento contro che cresci. Solo lì impari e ti migliori. Il vento devi prenderlo sulla tua testa. Se stai a ruota, arrivi secondo. Quando sei al vento, fai fatica ma ci stai provando, stai insistendo. Ed è importante stare al vento. Fondamentale per un uomo».
Un vento difficile da raccontare, perché poi il vento devi sentirlo sulla tua pelle per capirlo. Devi sentire che respinge la tua pedalata per trovare il coraggio di continuare a spingere. Per capire perché quel coraggio è essenziale. «Raccontarsi è molto difficile. Almeno, per me lo è sempre stato. Fatico a raccontarmi ai miei corridori, puoi immaginare con i miei figli. Qualcosa però filtra, qualcosa passa, qualcosa lo racconti comunque e lo racconti indirettamente, con i gesti, con i messaggi quotidiani. Sai, i miei figli hanno età diverse. Domitilla e Santiago hanno vissuto certi momenti, li ricordano, li hanno sentiti, percepiti. Per i più piccoli questo non è stato possibile. Loro hanno comunque voglia di conoscere e di conoscermi sempre meglio. Sanno che papà è stato un ciclista ma vogliono entrare fino in fondo in quel mio essere. Domitilla frequenta il Liceo Classico e quando le sue professoresse le hanno consigliato di scegliere dei libri da leggere, lei ha scelto “In salita controvento”, la mia biografia, scritta con Francesco Caielli. Santiago è più pigro e non l’ha letta ma se l’è fatta raccontare. Sono abbastanza contrario all’abuso di tecnologia digitale per i più giovani ma ogni tanto lo vedo mentre fa i rulli e cerca in rete video della mia vittoria all’Aprica, allo Zoncolan, al Tour de France. C’è curiosità. Pensa che Levante, che è in quarta elementare, ha voluto quel libro e ne legge qualche pagina al giorno. Anche lui vuole capire chi è papà, vuole farsi raccontare papà. Io cerco di arrivare a loro come padre, non come ciclista. Ma il loro papà è stato ciclista per una vita e, ciò che ha imparato, lo ha imparato correndo in bicicletta. Tu sai cosa ti passa per la testa la notte prima di una tappa di montagna in cui ti giochi il Giro d’Italia? Non si può descrivere, è complicatissimo. Sono cose che difficilmente capitano nella vita di tutti i giorni. Del ciclismo mi resta questo ben prima delle vittorie. So come affrontare quei momenti, se si dovessero ripresentare sotto altre forme. Da padre è questo che ho il dovere di trasmettere ai miei figli».
Ivan Basso si ferma, riflette, poi riprende a parlare e questa volta è lui a porci una domanda: «Cosa ti insegna il ciclismo?». C’è un attimo di silenzio, stiamo per iniziare noi a rispondere, quasi i ruoli si siano capovolti, in realtà riprende lui, dando un freno a quel mulinello di parole con cui aveva iniziato a parlarci. La voce si appoggia sul diaframma, il tono è leggero, quasi confidenziale, le voci della hall dell’albergo svaniscono sullo sfondo. «Non siamo invincibili. Non lo siamo come uomini prima che come ciclisti o come campioni. Nel ciclismo si hanno dei compagni di squadra. Tu devi sapere che loro sono lì per te, che se hai bisogno, se sei in crisi, loro possono aiutarti. Devi capire che è necessario avere il coraggio di chiedere aiuto e sapere quando farlo. L’aiuto va chiesto prima di crollare. Se hai paura, se non ti senti bene, devi guardare i tuoi compagni negli occhi, il giorno prima o la mattina, prima della partenza, e dirglielo. Nella vita, tutti abbiamo persone di fiducia. Loro possono salvarci quando abbiamo paura o non ce la facciamo più. Il ciclismo ti insegna l’umiltà, la capacità di chiedere aiuto senza temere di apparire debole».
Ivan Basso, oggi, è uomo che ha capito le poche cose che contano veramente e, capendo questo, ha avuto ben chiaro l’unico modo possibile di comunicare con i suoi ragazzi, i ragazzi della Eolo-Kometa. «Non c’è poi moltissimo da dire ma quelle poche cose vanno dette in modo estremamente semplice ed interessante. Devi capire quando è il momento di parlare: in certi momenti parlare è inutile se non dannoso. Devi saper aspettare. Poi arriva il momento di parlare e allora è importante saper analizzare la situazione ma soprattutto trovare un gancio per un stimolo, per proiettarti in avanti e non indietro. Per capire dove stai andando, dove vuoi andare e soprattutto come vuoi arrivarci».
In questo tornano le parole di Aldo Sassi, preparatore di Ivan, una delle persone che lo hanno sempre affiancato, anche nei momenti in cui c’era il vuoto: «Aldo me lo diceva sempre: “Certe volte le cose non vanno perché non vanno. Non c’è molto da fare. Puoi continuare a inseguire il motivo a vuoto per mesi. Talvolta sono tanti piccoli fattori che non riesci neppure a trovare. L’analisi, costruttiva e severa, è importante, fossilizzarsi su quei motivi è deleterio. Ti affossa. Concentrati sulla ripartenza”. Pensaci bene: se vinci o se perdi, devi comunque ripartire. Ti chiederanno altri risultati e solo ripartendo potrai ottenerli. Il tuo focus deve essere la ripartenza perché si riparte sempre. Nel ciclismo è una costante: riparti per l’allenamento successivo, per la gara successiva, per la tappa successiva. In una gara quante volte riparti? Parte il gruppo, parte la fuga, riprendi la fuga e riparti, rilanci, magari riparte la fuga, riparti tu, per un ventaglio o una caduta. Bisogna imparare a ripartire perché saremo sempre chiamati a farlo».
L’inciso è colloquiale e disarmante per semplicità e profondità di senso e contenuti. «I corridori sono bravi, i corridori fanno quello che viene detto. Il punto non è questo. Il punto è la capacità di leggere bene la gara insieme, da gruppo, dando indicazioni precise. Non sei solo nemmeno a impostare la gara: è necessario confrontarsi con gli altri componenti dello staff. Altrimenti l’analisi successiva è inutile: è sbagliato criticare dopo, bisogna lavorare bene prima. Le cose si preparano e nella preparazione c’è già molto di quello che accadrà dopo».
Per imparare è necessario prestare un occhio agli altri sport, anche quelli apparentemente più diversi dal tuo. Soprattutto è necessario ascoltare. Ivan Basso quest’inverno si è trovato a sentire una conferenza di Julio Velasco, maestro della pallavolo. «Lui dice che, nel momento in cui si diventa allenatori, direttori sportivi o dirigenti, è necessario “uccidere” il giocatore che si è stati. Il tempo passa e cambia le cose: è tutto diverso rispetto a quando correvo io. I miei ragazzi sanno benissimo chi sono e cosa ho fatto durante la mia carriera. Non serve dirglielo, è proprio inutile. Si rischia di cadere nel: “Se ci fossi stato io, avrei fatto meglio”. Un errore madornale. È un altro mestiere. Serve la coscienza del fatto che hai tutto da imparare anche tu. Un’altra ripartenza».
Nel 2006 Ivan Basso vince il suo primo Giro d’Italia, poco dopo c’è il Tour. Basso è atteso a uno storico bis. Non avverrà. L’Operación Puerto, scandalo doping scoppiato in Spagna, lo raggiunge e lo travolge alla partenza del Tour, il 30 giugno 2006. In un primo momento Ivan Basso nega ogni responsabilità, poi ammette le proprie colpe. Il varesino lo dichiara serenamente. «Qualche anno fa l’ho detto: è stato difficile ma tutte le cose che sono accadute in quel periodo, mio malgrado, le ho cercate e volute io. Gli errori li ho fatti io ed era giusto pagarli. Anche nella sofferenza cresci, anche nella vergogna cresci. La bellezza dell’equilibrio la capisci quando lo perdi. Quando tocchi il fondo, se sai resistere, scopri che in realtà sei nel momento in cui hai più slancio per proseguire. Dal fondo, si salta meglio. Credo di essere un uomo migliore oggi, anche grazie a quel periodo». A casa Basso in quei giorni arrivano delle lettere, sono quelle di Alfredo Martini. «Ogni volta che rileggi una lettera di Alfredo scopri qualcosa di nuovo, c’è della poesia. Martini parlava all’uomo che eri e a quello che saresti diventato. Non c’era nulla di banale, nulla di scontato. Non c’erano frasi fatte. Lui capiva il tuo momento e ti stava accanto. Per noi era come un padre. Nel mio periodo più difficile, lui c’era e sapeva cosa dirmi. Parlare alla sofferenza è difficilissimo, certe parole sarebbe anche meglio non dirle. A cosa serve dire a chi sta male: “Tranquillo, passerà”. Se devi dire così, non parlare. Per dire qualcosa a un uomo in difficoltà serve una profonda sensibilità, un’intelligenza acuta. Prima parlavamo di vento? Lì avevo un uragano contro».
Aldo Sassi ha raccontato che Basso, al suo ritorno dopo la squalifica ha convissuto per lungo tempo con un forte senso di colpa. «Ivan si sentiva in debito, sentiva di aver mancato di rispetto al proprio mondo e soffriva per questo. Al suo ritorno in gruppo, ogni attacco era per dimostrare di essere ancora quello di prima. Per rendere qualcosa al suo pubblico. Al pubblico che non lo aveva mai abbandonato».
Ivan Basso si ritrova nell’analisi del suo preparatore, un’analisi vissuta e sofferta. «Come quantifichi il senso di colpa? Non puoi. Il punto è trasformarlo in altro. Questo era il passo. Sassi da una parte e Liquigas dall’altra mi hanno preso per il braccio e tirato fuori dal baratro. Ricordo come adesso il giorno in cui ho firmato, a Brescia, da Zani. Sono riusciti a non farmi sentire un corridore di cui avere pena. Non mi hanno fatto firmare per compassione, mi hanno fatto firmare perché credevano in me, perché mi ritenevano un corridore forte».
Il Giro 2010 arriva così e Basso si ripete, alla grande. Tutti ricordano la sua scalata allo Zoncolan, i suoi occhi a divorare la salita. Lui parla di Verona e di quel podio inconsueto, quello ritratto nella foto che tiene nel suo studi. «Il podio, di solito, eleva gli atleti sopra il pubblico. All’Arena no. All’Arena c’è il pubblico sopra e gli atleti sotto. Ma è giusto così, quella vittoria per me è stata una restituzione di qualcosa al mio pubblico. Loro dovevano essere in alto, non io». Una parte della forza del ciclista di Cassano Magnago risiede nella sua convinzione. «Quando da ragazzino andavo a vedere le gare, sognavo di vincere il Giro d’Italia. Poteva sembrare assurdo all’epoca, ma è successo. La stessa cosa siamo chiamati a farla adesso io e Alberto Contador: provare a portare questa squadra fra le migliori al mondo. Ci riusciremo? Vedremo, intanto ci proviamo. Con Alberto abbiamo condiviso gli ultimi anni da professionisti: io sentivo di aver finito il mio ciclo, lui sapeva di poter vincere ancora qualcosa ma avvertiva un cambiamento. Quando chiedi a Contador: “Perché vuoi fare questa cosa? Non credi sia difficile?”. Lui te lo dice: “Certo ma anche vincere un Tour de France è difficile eppure…”».
Proprio il Tour de France è stata la culla di Basso, la corsa in cui ha costruito la sua prima parte di carriera. Sempre lì, a giocarsela. Fino al podio, al terzo e poi al secondo posto. Tutto è partito da quel 16 luglio 2004, da quella vittoria a La Mongie, con gli occhi lucidi e la dedica a mamma, che sta attraversando un momento difficile. C’è un ragazzo che sta diventando uomo e c’è un uomo che, senza mamma vicino, senza poterle più raccontare nulla, dovrà affrontare tutta la vita. Lo stesso uomo che, in quel momento, sta crescendo anche come ciclista. Lo sa bene Giancarlo Ferretti, direttore sportivo di Basso, ai tempi di Fassa Bortolo: «All’inizio Ivan si accontentava. Se arrivava secondo, dietro a un corridore forte, era felice. Non rischiava. Gli andava bene il secondo posto. Quante volte ci ho discusso: “Piuttosto provaci. Magari arrivi con due minuti di ritardo, magari però vinci. Che senso ha aspettare così?”».
Basso se ne ricorda: «Ferretti aveva questa capacità. Era un “sergente di ferro” ma con un cuore gigante. Non si accontentava mai ma, allo stesso tempo, andava sempre bene quello che facevi. Sapeva che eri al massimo ma ti incitava a fare ancora di più, ti spronava e tu riuscivi a dare anche più di quello che avevi». Quando parla ai suoi ragazzi, Ivan Basso, ha ben presente ciò che Ferretti diceva a lui. «”Quando si è giovani è importante la spiegazione della condotta di gara ma, allo stesso modo, servono consigli per la tua quotidianità. Lavorare con un ragazzo giovane significa accompagnarlo nella crescita”. L’ho detto giusto oggi: “Avete davanti il futuro. Fate uno dei lavori più belli in assoluto. Fate attenzione ad usare bene questa possibilità”. Ferretti non voleva che comprassimo macchine di lusso, orologi preziosi, ci spronava a risparmiare e, semmai, a investire in qualcosa di duraturo, come la casa. Ci invitava ad essere degli onesti risparmiatori. Questi corridori hanno la possibilità di cambiare la propria vita per sempre: si parla di guadagnare centinaia di migliaia di euro per anni e anni. Alcuni atleti guadagnano come l’amministratore delegato di una multinazionale: non è facile ricoprire quel ruolo. Le vittorie, i successi, oltre ad essere una soddisfazione personale, sono un pezzo di costruzione del tuo futuro. Devi rispettare il valore del denaro e del lavoro: un corridore che fa bene il proprio lavoro, è un corridore che non ha nemmeno il tempo per spendere quei soldi».
Basso ha quarantatré anni e non sopporta le generalizzazioni e le semplificazioni: «Sai cosa accade? Alcuni direttori sportivi vanno sul bus e, dopo gara, dicono ai ragazzi: “Se partivi prima, vincevi”. Questo i ragazzi lo sanno già. Come sanno che se parte una fuga di quattro corridori, il quinto deve essere il nostro. Ferretti, scherzando lo diceva sempre: “La fuga parte in testa al gruppo, non in coda”. Era un modo come un altro per invitare a non dire ovvietà e a non parlare col senno di poi. Lo stesso discorso potremmo farlo per chi continua a parlare dei “propri tempi”. Cosa significa dire “ai miei tempi”? I tempi passano, cambiano. Il punto è riuscire a seguire il tempo che cambia. Spesso, se vai a vedere, chi si richiama ai vecchi tempi andati, in realtà, non sta più facendo nulla».
Non le sopporta in generale, le sopporta ancora meno quando queste generalizzazioni vanno a toccare i giovani. «L’errore è l’estremo. Su quello siamo tutti d’accordo. Ci devono essere delle regole e noi queste regole le poniamo. Regole ben chiare. Ma il mondo è cambiato e non accettarlo è assurdo. I ragazzi di oggi non possono correre con le biciclette dei ragazzi di vent’anni fa. Non usiamo più i cellulari di vent’anni fa, come le macchine di vent’anni fa. C’è stata un’evoluzione, una crescita. Bisogna stare al passo di questi cambiamenti, respingendo ogni estremo e ponendo molta attenzione. Questi ragazzi si allenano bene, hanno i migliori materiali possibili ma, per andare forte, questo non basta. C’è una parte interiore, psicologica, che devi essere in grado di capire. L’allenamento non può colmare questo aspetto».
Guardare avanti e guardare indietro sono per Basso due facce della stessa medaglia. Già, perché in entrambe c’è il tempo ed il tempo passa comunque, che tu lo accetti o meno. Il tempo ti cambia comunque. «Sono cambiato in tante piccole cose da quando ho iniziato questo nuovo percorso alla Eolo-Kometa. Non credo ci siano stati errori grossi, sicuramente ci sono dettagli su cui adesso agirei diversamente. Alla fine, però, non è neanche giusto dire così. Noi siamo uomini, calati nel nostro tempo. Per vivere dobbiamo accettarlo, cambiare con lui, tollerare ciò che non si può cambiare e migliorare il resto. Se non accetti i cambiamenti del tempo, resti staccato, dietro al gruppo. A inseguire a vuoto. Cambiare idea è bello, cambiare idea è importante».
Foto in evidenza: Ufficio Stampa Ivan Basso
Badlands, come un film
Alla partenza di Badlands, Bruno Ferraro nota Lachlan Morton. L’organizzatore, la sera prima, gli ha detto che Morton pensa di concludere la gara in due giorni, a Bruno pare impossibile così gli si avvicina e gli domanda quanto tempo crede di impiegarci, con una semplicità disarmante Morton risponde: «Non so, ci metterò il tempo che ci vorrà». La scena si svolge a Granada, in Spagna. Sono le otto di mattina: «Granada è una città accogliente, ci sono tanti negozi di biciclette e questo è importante. Ho avuto modo di fare un controllo della mia bici prima della partenza: sempre meglio in occasione di gare con questi chilometraggi. La partenza a quell’ora di mattina è ideale, molte volte si parte in piena notte. C’erano persone da tutti i Paesi del mondo, molte che avevo già conosciuto e davvero un bel clima».
In realtà questa atmosfera si disperderà nel giro di breve tempo. «Come si parte, tutto sembra così lontano. Soli quindici chilometri e inizi a pedalare in mezzo alle colline sperdute della Spagna. Siamo a Nord della città di Granada, in luoghi turistici. La particolarità di questa parte del tracciato sta nella luce: una luce bassa che cade sulla polvere e irradia riflessi dorati. Era il tipico paesaggio da Strade Bianche ed eravamo ancora in tanti e abbastanza raggruppati». Al chilometro settanta si transita da Guadix e si inizia a percepire l’aria del Deserto di Gorafe. Ferraro si ferma in un bar per fare scorta di acqua e cibo. «In questo locale c’è Rosalia, un’anziana signora molto attenta ai bisogni di tutti i suoi clienti. Mi ha fatto tenerezza perché, nonostante l’età, era indaffaratissima a fare su e giù dal magazzino per recuperare tutte le nostre vivande. Ad un certo punto, ho detto ad un ragazzo spagnolo: “Secondo me ti conviene dirle che fra poco arriveranno altre cento, centocinquanta persone, almeno è pronta e non deve fare tutto così di corsa”».
Al deserto di Gorafe si arriva nel tardo pomeriggio. «Mi ero documentato sulla zona e sapevo che da pochi anni è un luogo rinomato per il trekking. In sostanza si tratta di un deserto composto da formazioni geologiche scavate da vecchi corsi d’acqua, una specie di altopiano con diverse gole. Si pedala in mezzo al canyon, accanto alla gola del fiume: il percorso è ad anello e il luogo di partenza è lo stesso dell’arrivo. Quando ho terminato questa parte del percorso, il sole stava calando, era appena sotto l’orizzonte».
Da quella luce flebile, tra l’ocra e l’arancione puntinata di sassi dalle sfumature calde, si esce su una strada principale. «Ovviamente al termine del deserto avevamo bisogno di rifocillarci. La scena è stata simpatica perché l’unico bar della zona, dopo tanti chilometri nel nulla, era frequentato da molti vecchietti, intenti a fumare pipe, sigari e sigarette. Noi arrivavamo sfatti, pieni di polvere e sudore, con l’unico pensiero di portare via un sacchetto con del cibo. Ci guardavano tutti molto incuriositi».
Adesso non c’è più luce, il buio invade le strade e Bruno, per recuperare energie ed evitare crisi lungo il tragitto, cerca di dormire qualche ora. «Erano le dieci, massimo dieci e mezza. Mi sono sdraiato su una panchina, accanto a una fermata dell’autobus, fuori dalla città e ho provato a dormire. Non ci riuscivo, probabilmente non ero neppure stanco. Dopo un’ora mi sono alzato e sono ripartito. Era da poco passata la mezzanotte». La strada è in salita, si scala il Calar Alto, 2.168 metri di dislivello. «Ho retto abbastanza bene la prima notte, nonostante il freddo. Il momento più difficile è sempre intorno alle quattro, le cinque, del mattino».
Il giorno successivo è quello del secondo deserto, quello di Tabernas. Tutto cambia rispetto a Gorafe: il paesaggio vira su colori scuri, le pietre tendono al grigio, talvolta appaiono nere come la pece. Si intravedono le classiche sterpaglie di paglia giallognola dei luoghi aridi. «Questa è la zona dove sono stati girati i film western più famosi, anche quelli di Sergio Leone. Ci sono dei saloon allestiti con arredi dell’epoca e vecchie rovine di case. C’è una ferrovia abbandonata: non appena la vedi, pensi a dei banditi che assaltano una diligenza». L’unica ombra che si può trovare è quella che le rocce riflettono a terra: è l’una del pomeriggio e Ferraro si siede per qualche istante accanto a quelle rocce. Riprende fiato. La bicicletta è davvero difficile da spingere. In un locale, poco più in là, foto e ricordi di Terence Hill e di tutti gli attori di quei film: «Pensa, quel bar esisterà da quarant’anni. Chissà quante storie potrebbe raccontare il gestore».
Si entra a Cabo de Gata Natural Park: qui è la natura a trionfare con piante e coltivazioni. C’è anche una vecchia miniera abbandonata, un paesaggio molto suggestivo. «Poi il mare, proprio al tramonto. Difficile anche da descrivere quel momento. Vivi delle situazioni davvero difficili, per esempio quando la bicicletta non scorre nella sabbia e ti chiedi chi te lo abbia fatto fare. Ma quando vedi il mare, la spiaggia con i ragazzi, che scherzano fra loro con una bottiglietta di birra in mano, capisci che hai fatto bene a partire. Hai già nelle gambe quattrocentro chilometri, e ne mancano più di trecento, ma sei contento».
Si prosegue fino ad Almeria, pedalando su una strada che costeggia un parco naturale: lì lo attende un hotel con reception sempre aperta. Ferraro lo ha prenotato tempo prima e ha fatto bene: arriverà alle due e mezza di notte. «Sono entrato in camera, ho pulito i pantaloncini, sistemato le mie cose, cenato con due empanadas di pollo e mi sono fatto una doccia. Mi sono coricato dopo le tre, puntando la sveglia per le sette. L’alba arriva abbastanza tardi ed iniziare a pedalare con le prime luci è l’ideale. Quella notte ho dormito, talmente bene da non sentire la sveglia. Oggi posso dirlo: quella mezz’ora in più di sonno mi ha fatto davvero bene».
Quando riparte, Bruno sa, o ameno spera, che quello sia l’ultimo giorno di gara. Forse il giorno più duro: c’è da scalare il Passo Veleta, nel parco nazionale della Sierra Nevada. La cima si trova a 3.212 metri di altezza. L’aria, sopra i 2.500 metri inizia a rarefarsi e Bruno ha dei piccoli svenimenti. Deve scendere di sella e proseguire a piedi, ma c’è un ostacolo in più: è scesa la notte.
«Ho corso tutto il giorno con l’idea di arrivare al passo prima di sera, non ci sono riuscito. Allora ho cercato di raggiungere un ragazzo che conoscevo e che era davanti a me di poco: salire insieme mi avrebbe aiutato molto, almeno a livello morale. L’avevo praticamente raggiunto, ero lì. Lui invece ha scelto di fermarsi a dormire in hotel prima della scalata: un brutto colpo per me. Dovevo scegliere: proseguire da solo o ripartire il mattino successivo. Ho deciso di proseguire ed ho fatto bene. Proprio in quel frangente ho recuperato posizioni e sono riuscito a concludere quinto».
La scalata inizia alle nove di sera, in cima si arriva alle tre di mattina. La discesa tutto d’un fiato, ancora una salita e la successiva discesa e poi l’arrivo a Granada. Il sorgere del sole sorprende gli atleti con una vista da cartolina sulla città. È finita. «Ti senti strano quando torni in una grande città dopo un’avventura del genere. La bicicletta ricomincia a scorrere su strade di asfalto, vedi negozi di alimentari, di abiti, mezzi di trasporto e ricominci a sentire i rumori della città. Ci metti del tempo a capire. Questo accade anche quando torni a casa. Hai conosciuto un mondo, visto squarci sempre differenti, che sono ti entrati in testa e ora ti mancano. Devi ritrovare gli stimoli per salire in sella e fare ‘il solito giro’, devi inventarteli se necessario. Il ricordo però resta. Sembra un film».
Foto: Bruno Ferraro
Luca Santini e la libreria a pedali
La storia di Luca Santini è una di quelle storie che iniziano per caso. Come tutte, del resto. O almeno come quasi tutte. La differenza la fa il fatto che la storia di Luca, questa storia, quella che vi raccontiamo, qualche anno fa ha rischiato di non essere tale e le storie rimesse assieme, quelle che sono così perché nessun altro finale pareva giusto, sono più preziose. Già, perché insegnano a non adeguarsi a un finale qualunque. Ma andiamo con ordine. «Sono sempre stato un appassionato lettore e come tale ho sempre sofferto il fatto che nel mio quartiere non ci fosse una libreria. A inizio anni 2000, proprio qui, ha aperto un teatro dedicato alla musica sinfonica. Ero anche appassionato di musica e, con qualche risparmio, ho pensato di aprire una libreria lì accanto: “Libreria Largo Mahler”, dal nome del luogo dove si trovava. Era il periodo dei megastore, il mio era un microstore. Una piccola libreria di qualità, appartenente al circuito delle librerie indipendenti. Sono stati dodici anni molto belli poi la crisi economica, la riduzione del numero di lettori nel nostro Paese, l’avvento delle piattaforme online ed il calo del mercato indipendente hanno causato una grossa crisi che ha portato alla chiusura della mia libreria». Non sono mancate iniziative tese a cercare di salvarla, quella libreria: dalle raccolte fondi, ai meeting, ai comunicati. Purtroppo non è bastato ed il 9 novembre del 2013 la Libreria Largo Mahler ha abbassato la saracinesca. Ma Luca Santini, in quegli anni, ha maturato un modo di concepire la cultura, che ha permeato ogni sua esperienza: «Naturalmente immaginavo che la libreria fosse un luogo di scambio culturale, ma quello che non avevo pienamente compreso è l’ampiezza di questo scambio. Il fatto che le librerie devono essere il più aperte possibile. Che in una libreria deve incontrarsi il maggior numero di storie che si possano immaginare. Serve il contatto con le persone, il rapporto che si instaura con coloro che vengono a prendere un libro. La libreria deve essere un luogo caldo, accogliente, dove sfogliare libri, dove scambiarsi storie ma, soprattutto, dove incontrarsi. La libreria, se nasce e cresce così, diventa un punto di riferimento del quartiere». Così, nel giorno della chiusura ufficiale, in libreria arrivano centinaia di persone e Luca Santini si commuove. Tutte persone che erano in prima fila per salvare quella libreria.
In quella fine di 2013 Luca Santini aveva ricevuto altre due proposte di lavoro, sempre nel campo dei libri. Sono due suoi colleghi a cercarlo per due lavori diversi e lui si fida: «Mi dicevo che almeno una delle due opportunità si sarebbe concretizzata. Invece no. Il 31 dicembre del 2013 andarono entrambe in fumo. A quel punto, cosa potevo fare?». Un passo indietro nel racconto lo porta a quando era più giovane, a quando non aveva ancora moglie e figli: «Credo di essere stato uno dei primi ciclo-viaggiatori d’Italia. Ricordo lo stupore che destava la mia bandierina italiana, attaccata alla bicicletta. Ho girato tutta l’Europa in bicicletta e ho conosciuto tanto. In realtà con l’auto ho sempre avuto un cattivo rapporto e anche per gli spostamenti in città ho sempre prediletto la bicicletta». Santini pensa e ripensa. Pensa a quel detto che avevano coniato in libreria: “Sopra la panca, la libreria campa”. La panca era quella situata davanti alla libreria, quella su cui, ogni tanto, si sedevano i lettori. Santini sente che quel detto non deve essere tradito e, valutando le diverse opzioni, trova un varco: una licenza da itinerante. Sì, come quella per vendere gelati, caldarroste e panini. In questo caso una licenza da itinerante per vendere libri: «I lettori non potevano più venire da me ma la città continuava da aver bisogno di un luogo di incontro. Un luogo in cui la cultura non fosse qualcosa di asettico ma di vivo, fatto di relazioni e di incontri. Un luogo per le scuole e le associazioni che senza sarebbero destinate a impoverirsi. Se nessuno poteva più venire da me, ero io a dovere andare da loro. Per farlo non potevo scegliere altro mezzo che la bicicletta, il mio mezzo prediletto. Un mezzo che ti porta ovunque senza inquinare, che crea relazioni, un vettore, che può anche portarti i libri sotto casa. Una libreria a pedali, la prima in Italia».
Ed è così che Luca è ripartito, affiancato da una bicicletta e da un cargo: «Le persone sono incuriosite da questo tipo di scelta. Una scelta per cui ci vuole coraggio. Una scelta che non è da tutti. Milano, come gran parte delle grandi città, è estremamente insicura sulle sue strade. Tra automobilisti e ciclisti manca il rispetto, manca la comprensione. Due radici fondamentali di qualunque interazione umana. Viaggiamo su delle strade insicure, con un cargo, pieno di libri, che può arrivare a pesare cento chili. Si fa anche fatica, fatica fisica, a spingere sui pedali. Per questo mi sono fatto aiutare dalla pedalata assistita, ma fai comunque fatica». Vero, non una scelta qualsiasi, ma la scelta da chi ha ancora il coraggio di inventare: «La bicicletta, come la lettura, fa bene ai nostri giorni. E l’unico modo per stare meglio è accumulare momenti o circostanze che ci facciano stare meglio. Se andare in bicicletta aiuta, andiamoci più spesso. Se non ci sono abbastanza attività che comportino l’uso della bicicletta, inventiamole. C’è sempre una possibilità. Io sono stato il primo, però ora diversi hanno seguito la mia strada. Ora anche le autorità governative stanno capendo l’importanza delle librerie indipendenti e stanno cercando di aiutarle. Ci sono case editrici che ci sostengono, come Ediciclo. Tu inventa, il resto seguirà».
Lo dicevamo all’inizio: non tutti i finali vanno bene per la tua storia e sei tu ad avere il dovere di immaginare il tuo finale o quanto meno quale sarà la prosecuzione della tua storia. Alla base c’è sempre un’idea che può essere la stessa di Santini: fare bene il proprio dovere e magari fare del bene a qualcuno. Fosse anche una sola persona, è importante. Come è importante tutto quello che ti è stato raccontato in questi anni. Ed è quello che più manca quando i pedali non girano: «Il 25 febbraio di quest’anno c’è stato uno stop. Una fermata doverosa, ci mancherebbe, per la pandemia. Ma pur sempre una fermata. Mi ha preso un senso di angoscia, di inquietudine. Non voglio essere ipocrita: quando ti manca il lavoro c’è anche una preoccupazione economico-commerciale. Nel mio caso però non era l’unica. La mia angoscia era data dall’impossibilità di relazionarmi con le persone. Di scambiare libri, consigli od anche solo qualche gesto. Il mio pane è questo». Ed, in fondo, il senso di ogni libreria, sui pedali o fra le mura, è proprio questo.
Foto: per gentile concessione di Luca Santini