Vorrei essere come Alaphilippe: intervista a Santiago Umba

Santiago Umba è nato nel novembre del 2002. È esile, un colibrì, come nella miglior tradizione colombiana. Non ha paura. «Non ci ho dovuto pensare molto. Certo, lascio Arcabuco, la mia città, la mia famiglia ed i miei amici, ma so che loro sono orgogliosi di quello che sto facendo. Quando sono partito erano dispiaciuti, ma nei loro occhi si leggeva tanta dignità, tanta fierezza».

Accanto a lui c’è Gianni Savio, il team manager dell’Androni Giocattoli Sidermec. «Alla Vuelta al Táchira, in Venezuela, l’ho preso da parte e da padre gli ho detto: “Santiago, per molta gente tu sei un personaggio. Se farai bene, ti si avvicineranno in molti, si fingeranno amici, cercheranno di starti al fianco. Ricorda queste mie parole: non tutti saranno amici veri, sappi distinguere”. E Santiago mi ha guardato e con il suo solito sguardo colmo di educazione mi ha detto: “Lo so, Gianni. Ultimamente ci sono tante persone che mi cercano e che fino a qualche mese fa non mi guardavano neanche”. Non è solo forte in bicicletta, è anche di una maturità rara».

La stessa consapevolezza che traspare quando gli chiediamo di parlarci del suo carattere. «Mi piace la compagnia, mi piace ridere e scherzare, del resto a chi non piace? Ma nella vita bisogna saper distinguere. In certi momenti si può ridere, in altri serve serietà, testa bassa e lavorare».

Arcabuco è ormai distante e la sera che scende su Alassio è quanto di più distante da quella che vedeva dalle tende di casa sua, quando seguiva le imprese di Quintana in televisione. «Il calcio come il ciclismo ti permette di guadagnare molto e di migliorare la tua posizione economica. Io però non ho scelto la bicicletta per questo. Io l’ho scelta per realizzare un sogno».

Santiago Umba al suo primo allenamento in Italia con la maglia della Androni. (Foto: Luigi Sestili)

Matteo Malucelli si è sorpreso delle sue doti sui pedali proprio quando ha vinto la prima tappa della Vuelta al Táchira: i compagni che avrebbero dovuto far parte del suo treno sono caduti e Umba si è messo davanti a tirare per lui. Non solo. Dopo tre tappe complesse, Savio lo ha messo in guardia: «Non forzare la gamba, domani è una tappa difficile. Se non riesci a stare con i primi, lasciali andare». Santiago Umba, però, si mette in testa al gruppo. «All’arrivo gli ho fatto i complimenti – prosegue Savio – e gli ho chiesto come stesse. Sapete cosa mi ha risposto? “Come sto oggi? Ma oggi sto meglio di ieri!”. Incredibile».
«Ho il fisico da scalatore, ma ho anche spunto veloce e mi piacciono gli sterrati. Dovrò lavorare sulla velocità perché lo spunto non basta. Lo sprint è strategia pura: mi guardo intorno e cerco di imparare. Alla fine ho sempre fatto così. Anche ora che sono qui in Italia: voglio conoscere, voglio capire, sono curioso. Anche quando voi parlate italiano, io ascolto e provo a vedere quanto capisco». In Colombia lo paragonano a Julian Alaphilippe per caratteristiche e spirito. «Posso dirlo? Vorrei essere come Julian Alaphilippe. Vorrei vincere un mondiale e far vedere la mia maglia a tutto il mondo».

Umba appena tornato dal primo allenamento si è avvicinato a Giovanni Ellena: «Sai che sono appena caduto?». Ellena sorride come prima reazione. «Pensa che Bernal alla prima uscita con noi cadde dopo un paio di rotonde. Visti i precedenti, direi che promette bene, no?»

Ora noi possiamo immaginare gli occhi dei suoi genitori quando lo hanno salutato, li possiamo immaginare perché di sicuro somigliano molto agli occhi di Santiago mentre guarda Savio ed Ellena. «Mi trovo nel luogo in cui avrei sempre voluto trovarmi. Quando ho firmato il contratto avevo diciassette anni e mi hanno dovuto supportare i miei genitori, ma io dopo quella firma mi sentivo già qui. Capisci cosa intendo?». Lo capiamo noi e lo capisce anche Gianni Savio che gli mette una mano sulla spalla e inizia a parlare, a voce più bassa. «Questa è la tua intervista e sei arrivato qui da una manciata di ore. So che sei stanco e non vedi l’ora di andare in camera a riposare. Ricordati di questa intervista perché ne farai tante altre e racconterai tanto di te, tutto quello che vorrai. Ricorda questa intervista perché diventerai un grande. Ci proviamo? Scommettiamo? Ora vai a riposare. Domani ricomincerà tutto e tu sarai pronto».

Foto: Luigi Sestili


La storia di Natnael Tesfatsion

Il suo vero nome è Natnael Tesfatsion, ma in Androni Giocattoli Sidermec per tutti è “Natalino”. I massaggiatori ci raccontano che dopo vari tentativi e vari nomi sbagliati, glielo hanno chiesto: «Ti piace Natalino?», lui ha acconsentito e da allora il suo nome è quello.

Natnael è esattamente come potete immaginarvelo: tantissimi capelli ricci e un sorriso solare che si intravede anche dietro la mascherina. Ci racconta subito che non parla molto bene l’inglese ma, in compenso, conosce molte parole italiane. «Dopo la colonizzazione molti termini sono rimasti anche nel nostro linguaggio. Per esempio tutti quelli che riguardano la bicicletta: freno, manubrio, forcella, catena, rapporti. Non solo: anche scarpe e ciabatte. La prima volta che sono sceso a cenare in ciabatte i miei compagni ridevano e scherzavano, mi prendevano in giro. Li ho avvertiti: guardate che ho capito, so cosa sono le ciabatte». Racconta e sorride.

Poi ride di gusto pensando al suo arrivo in Italia. «Sono arrivato a marzo e nonostante qui si parli di primavera, io stavo congelando. Noi siamo abituati a venti gradi costanti, sono arrivato in maniche corte. La signora che mi ha ricevuto mi ha detto: «Ah ma allora sei già abituato alle nostre temperature, non le soffri». Non sapeva che ero praticamente ghiacciato». Natnael è nato ad Asmara, in Eritrea. «Qualunque cosa dicessi di Asmara, sarebbe una frase fatta. Sì, è la mia città natale ed è la mia terra. È il luogo dove vive la mia famiglia. Asmara è una vecchia città per bene. C’è aria di accoglienza, voglia di essere ospitali, di stare insieme. A noi piace la compagnia».

«Non sono il più bravo fra i ciclisti eritrei. Ce ne sono tanti meglio di me, ma purtroppo non hanno la possibilità di venire in Europa e correre qui. Sarebbero bravissimi, sarebbero l’orgoglio di tanti bambini che da grandi si immaginano vincitori del Tour de France, in maglia gialla. Anche io facevo quel sogno da piccolo. Lo faccio ancora oggi. Però è difficile, per loro è difficile anche solo pensare di intraprendere questa strada».

Vive a Lucca. «Mi piace molto la mia nuova città. Lì vicino c’è Pisa, con la sua Torre pendente e l’aeroporto. Per noi è un modo per sentirci vicino a casa, sappiamo che possiamo ripartire quando vogliamo. Ci dà sicurezza. Se ci fate caso tanti ciclisti eritrei vivono a Lucca o a Pisa». In Italia gli piace molto la pizza, di Asmara sente la mancanza di un piatto chiamato Injera. «Non saprei spiegare come è fatto, ma devi fidarti: è buonissimo. Se ci rivediamo te lo faccio assaggiare».

Natnael è molto religioso, per questo ha chiesto che il giorno di riposo possa essere la domenica, perché vuole andare a messa. Il suo credo pervade ogni campo, come un’essenza. «Sono uno scalatore, mi piacciono le montagne, mi piace scalare. Mi piace arrampicare. Tra l’altro, essendo scalatore, sento più vicino a me quel sogno: il Tour de France. Gli scalatori possono vincere il Tour. E a prescindere da questo, io sono certo che chiunque lavori duro, seriamente, possa fare grandi cose. Anche se sembrano impossibili. Se ti impegni, devi crederci, ci arriverai. Se non potessi realizzarle, non avresti neanche la possibilità di sognarle. Ne sono certo».

Foto: Luigi Sestili


I significati della fuga: intervista a Mattia Bais

Mattia Bais è cresciuto con l’insegnamento dei fatti. «Mio papà è imprenditore edile ed ogni mattina si alza prestissimo per andare a lavorare. Pochi fronzoli, solo la consapevolezza di dover fare il proprio dovere». Che poi il ragazzo trentino abbia una certa idea del ciclismo, forse, è solo la conseguenza. «Da grande vorrei essere come Thomas De Gendt, come Alessandro De Marchi. Puoi fare qualunque cosa nella vita ma non devi dare nulla per scontato, perché, di base, non ti è dovuto nulla. Io volevo diventare un ciclista professionista e ci sono riuscito, mi sentirei in grato se non ci mettessi tutto me stesso in ogni gara. De Gendt e De Marchi fanno questo. Andare in fuga è uno dei tanti modi per fare questo».

Bais gesticola, attorciglia le mani, come se stesse plasmando il pensiero proprio con quelle mani. «Non credo di aver mai avuto alcuna dote eccezionale. Sono sempre stato uno dei più minuti del gruppo: nelle categorie minori quando scattavo sorprendevo tutti, forse perché non se lo aspettavano. Quello che sono l’ho costruito. Se passi da un percorso simile al mio, certe cose fanno talmente parte di te da non riuscire più a rinunciarci. Fanno parte di te perché senza di loro, tu non saresti qui».

Mattia Bais parla della fuga, dell’essere fuggiaschi. «La libertà della fuga è un qualcosa di diverso dalla libertà del ciclismo. In fuga devi volerci andare. Si tratta di quella libertà che solo la fatica ti permette di conquistare. Non c’è libertà, senza fatica». Come quella volta al campionato italiano 2019, quando in fuga dal mattino si fermò a due giri dal traguardo e su un marciapiede parlò con Gianni Savio. «Savio ha capito subito tutto il senso che ha per me la fuga, l’essere davanti da solo a imporre il proprio ritmo. Ma, se ci pensi, lo capisce qualsiasi persona che sia sulla strada a guardarci. In certi tratti di di strada non può succedere praticamente nulla. Il massimo che ti può capitare è di vedere qualche coraggioso che va via da solo. La gente si entusiasma a vederti scattare in testa al gruppo, anche se mancano duecento chilometri e la domanda più logica da fare sarebbe: “Dove credi di andare?”. La gente non te lo chiede perché lo sa. Lo ha provato sulla propria pelle più volte di quante tu possa immaginare».

Bais racconta che quando scatta non si chiede quasi mai come andrà a finire. «Devi usare la testa in quel momento. Devi controllare i tuoi avversari, studiare il percorso e sapere cosa vuole il gruppo. Solo così puoi pensare di sorprenderlo. La fuga è un’avventura e come ogni avventura richiede istinto, coraggio, sfrontatezza ma anche pianificazione, progettazione».

La sua fuga più cara è quella dello scorso anno alla Milano-Sanremo. Quando è tornato a casa, si è messo davanti alla televisione e si è rivisto la corsa. «Quando sentivo il mio nome avevo la tentazione di tornare indietro e riascoltare da capo perché non ci credevo. Come appena passato professionista quando lo dicevo e nessuno ci credeva, ma in realtà ero io stesso a non crederci. Credo sia stata la Sanremo più lunga della storia, io ho fatto 275 chilometri in fuga, davanti a tutti, sono arrivato al traguardo, l’ho conclusa. E mi sono detto subito: “Qui voglio ritornarci e voglio rifare lo stesso”. Perché poi ti riprendono, poi non vinci, poi arrivi sfinito e mentre gli altri festeggiano ti accasci da qualche parte. Quello che provi in quei momenti vale tutto questo e non te lo può raccontare nessuno. Lo sai se lo hai provato».

In quei momenti non c’è quasi nessuno e chi c’è vale tutto. «Il direttore sportivo è la nostra guida e questo vale sempre. Il rapporto con lui lo costruisci quando sei a tutta, quando sei sfinito, quando puoi solo fare fatica. Quando sei solo in un tratto di strada in cui non c’è nulla e senza la sua voce ad incitarti, senza quella borraccia piena d’acqua o quel panino, non sapresti nemmeno più cosa pensare. Senza quella voce, in certi istanti, ti fermeresti a bordo strada ad aspettare il gruppo. Forse non ci pensiamo abbastanza ma siamo debitori a chi ci guida. Perché la strada la perdiamo tutti, prima o poi. La fuga è un’opportunità per ritrovarla».

Foto: Luigi Sestili


Storie di terre e di pedali: intervista a Giovanni Ellena

Giovanni Ellena era a pochi chilometri da Alassio, a Laigueglia per la precisione, quando nel 2006 entrò in sala per la prima riunione da direttore sportivo. «Entrai in questa sala e tutti si voltarono a guardarmi. Sono timido, introverso, puoi immaginare come mi sia sentito. Ero un direttore sportivo che non era mai stato professionista, solo dilettante. Alcuni colleghi mi avevano conosciuto durante un corso organizzato dalla federazione nel 2002 e avevano apprezzato questa mia timidezza, questo mio essere silenzioso. Ma io avevo paura, una paura incredibile. Però quando salivo in macchina mi passava, terminavo le corse quasi senza accorgermi».

Giovanni smette di correre perché deluso, da se stesso, dalla propria genetica, sa di non poter essere un campione ma vuole lavorare, fa il lavoro più distante da ciò che è: l’agente di commercio. Torna nel ciclismo per questioni affettive, perché quando accompagna dei ragazzi in allenamento, e poi alle gare, si rende conto che non vuole essere da nessun’altra parte se non lì. «L’unica volta in cui presi sette a scuola fu un tema di geografia: non perché fossi particolarmente bravo in geografia, ma perché conoscevo l’argomento, perché sapevo cosa dire. Io qui mi sento al mio posto ma allo stesso tempo mantengo l’idea di essere l’ultimo arrivato con una continua voglia di imparare. Non c’è nulla di filosofico, è quello che ti permette di restare in piedi».

Ellena parla dell’allenamento di ieri: offre un panino con il prosciutto a Natnael Tesfatsion, lui lo rifiuta. «Essendo ortodosso, a mio avviso poteva mangiare il prosciutto, così sono andato in camera da lui e ho cercato di capire. Ieri sera ho letto, mi sono documentato. Il maiale ha due unghie, per loro questo ricorda il diavolo. Vedi? Devi studiare e farti un esame ogni mattina. Altrimenti rischi di essere offensivo, di essere blasfemo».

Questo approccio volto alla comprensione è il grande credo di Ellena. Pochi giorni fa, Giovanni si è recato a prendere Andrii Ponomar, uno dei nuovi acquisti della Androni Giocattoli Sidermec, in aeroporto. «Non ha parlato per due, tre giorni. Non credo sia timido, è solo figlio della sua terra, forse un po’ freddo. Siamo stati a Torino a fare una visita cardiologica. Al ritorno l’ho guardato e gli ho detto: “Ma hai visto Zootropolis? Quel medico assomigliava da matti a Flash, il bradipo”. Gli si è accesa una lampadina ed è scoppiato a ridere: “Flash! Flash!”. Adesso, ogni volta che mi vede sorride e mi dice “Flash”. Per dire quanto basti poco. Ognuno ha una sua chiave per aprirsi».

In questi giorni Ellena ha aiutato anche Santiago Umba con le pratiche del volo, l’altra notte alle tre era sveglio per preparare tutte le carte, ma non solo. «In sostanza l’ho messo in sella in collegamento Skype. C’era suo papà che lo filmava sui rulli ed io gli spiegavo come fare. Secondo me può fare molto bene anche in volata, ha i numeri». Questi sono i ragazzi su cui Androni ha sempre scommesso. «Le cose sono cambiate radicalmente dai tempi di Rujano e di Serpa. Loro sono arrivati qui già adulti, sapevano già bene cosa fare. Con Sosa e Bernal è stato diverso: loro sono cresciuti con noi, erano ragazzini. Significa lasciare la propria terra e ritornarci, forse, due volte l’anno. Quanto è difficile? Sosa viveva in una cascina in mezzo ai campi, in una casupola. Ora vive con Egan Bernal e altri connazionali in un albergo-ristorante nel canavese. Il proprietario di questo ristorante ha delle galline: lui si sente a casa, la mattina scende e dà da mangiare alle galline».

Piera, la padrona di casa, racconta che Sosa la aiuta ad alzare le tapparelle del locale. «Il problema è che lui le alza anche al lunedì e noi al lunedì siamo chiusi». Così questi ragazzi vivono nel canavese ma si sentono in famiglia, cenando in cucina davanti a un camino, con le persone che gli vogliono bene. Poi c’è Wladimir, componente del fan club di Bernal, che ha un murales a casa con Egan in maglia gialla a Parigi. «Wladimir aveva detto a Egan che il giorno in cui avesse vinto il Giro d’Italia o il Tour de France, avrebbe dipinto la casa del colore della maglia. Bernal appena ha vinto lo ha chiamato ricordandogli la scommessa. Tu pensa che sapendo che avrei cercato di mediare, quella sera a cena non mi hanno nemmeno invitato. Che personaggio! Quando Bernal ha vinto al Tour de l’Avenir, Wladimir era sui tornanti: lo hanno sentito gridare da tre tornati più sotto. Ti rendi conto della passione?».

Dopo la notizia dell’esclusione dal Giro d’Italia, Giovanni Ellena non ha parlato per tre giorni. In ritiro, dopo diversi mesi a casa, ha ripensato a tutta la sua carriera, l’ha rivista al rallentatore, gli venivano in mente solo domande, tante domande. Si è ricordato degli inizi, di quel 2006, di quella signora della federazione che gli disse: «Ti auguro di durare molto, ma questo non è il tuo ambiente». Ripensa alla struttura di preparatori che Androni aveva messo in piedi negli anni, ai tecnici e ai preparatori che ora sono affermati professionisti. A tutto ciò che era possibile. Ripensa a quando, appena quarantenne, sbagliava approccio e cercava l’amicizia dei corridori: oggi sa che non va bene e non lo fa più. «C’è un bel rapporto con loro, ma non sono loro amico: se devo rimproverare un ragazzo lo faccio, se devo escluderlo per il bene della squadra lo faccio. Si tratta del mio lavoro e l’amicizia farebbe male».

Fra le tante domande, una lo assilla particolarmente: «Giovanni, sei sicuro che questo sia il tuo lavoro?». Una domanda che fa paura, una domanda che non mostra ai ragazzi, invitandoli a credere che un giorno saranno come Sosa, come Bernal, una domanda a cui poi deve darsi risposta. Ed Ellena quella risposta se l’è data qualche sera fa. «Ho una bella famiglia, una moglie, due figlie e un cane che adoro. Quando accadono queste cose pensi a loro. Ti dici che forse potresti anche fregartene e vivere più tranquillo. Quante cose si dicono? Quante? Sono bugie. Io sono venuto qui e non ho saputo fare nulla di diverso da quanto facevo prima. Sono fatto così e questo lavoro so farlo solo in questo modo. Non so se sia giusto. So che diversamente non saprei lavorare».

Foto: Luigi Sestili


L'Eroica di Lorenzo

Quando, a fine luglio, Lorenzo Mariotti ha ricevuto la conferma dell’annullamento dell’edizione 2020 dell’Eroica si è sentito come abbandonato, come se la fidanzata lo avesse lasciato senza una spiegazione, come se quella stagione fosse destinata a non finire. «L’Eroica per me è un ultimo giorno di scuola, un’ultima volta, di quelle belle, prima dello stacco. Ad aprile speravo che la situazione legata alla pandemia si sarebbe risolta, a fine luglio sapevo che non sarebbe stato possibile ma in un certo senso mi rifiutavo di crederci. Non volevo accettare che l’Eroica ci avrebbe abbandonato per quest’anno».

Lorenzo racconta che non trascorre molto tempo a pensarci: ci sono Andrea e Roberto, suoi amici d’infanzia, a cui telefonare per raccontare un’idea. «A me mancava come l’aria la condivisione della fatica, della strada, del pane, in questa gara dal gusto antico. Ma per tornare a condividere non avevo bisogno di molto, a chi potevo chiedere se non ai miei amici?». Andrea ogni tanto esce in bicicletta, Roberto no ed in più sua moglie non sembra essere molto contenta: «Il suo timore era di “rubare” un’esperienza alla compagna. Io glielo ho detto: “A Gaiole in Chianti non ci vai, se non per un motivo come questo. Non togli nulla a nessuno. Forse ti regali qualcosa”».

Già, Lorenzo li vuole proprio portare a Gaiole, ad un’Eroica speciale, la sua. «L’idea di guardarmi indietro fra qualche anno e pensare di aver perso un’occasione mi faceva paura. L’Eroica me la sono inventata io. Stesso percorso, stesso orario di partenza dalla piazza di Gaiole, addirittura stessi sacchetti con il rifornimento. Ho costruito i pettorali con borse di Juta e mi sono inventato delle targhette di legno compensato per il numero. Quattro cifre, come l’Eroica vera, ma i numeri li abbiamo inventati noi». La bicicletta d’epoca gliel’ha data papà, che è geloso di tutto ciò che è suo ma questa volta non ha potuto evitare di lasciarsi andare, di lasciarla andare. Lorenzo racconta ad Andrea e Roberto di Fiorenzo Magni a Bologna mentre stringe con i denti la camera d’aria per attutire il dolore del braccio rotto, racconta di Alfredo Binda e di quel giorno di Marco Pantani ad Oropa. Racconta per dare un senso a ciò che fra poco faranno.

Nella piazza di Gaiole, i tre ragazzi, si incontrano all’alba. c’è solo un fotografo ad attenderli. «Era deluso, aspettava tanti altri corridori. Probabilmente provava ciò che avevo provato io ed era lì per inventarsi anche lui una sua gara. Ci ha fatto qualche scatto e siamo partiti. Erano le 05:03». Mentre salgono verso il Castello di Brolio, Lorenzo spiega che gli anni scorsi, lì, c’erano delle fiaccole a illuminare. Ora è buio e ad indicare la strada ci sono solo le luci delle loro biciclette disposte in fila indiana. «Erano notti di luna piena e quella sfera bianca illuminava il sentiero. Verso le sette è arrivata la luce e, sullo sfondo, abbiamo iniziato a vedere le colline toscane ed i cipressi».

Le salite sono aspre, dure, rigide e serve un meccanismo per ingannare la mente e percorrerle. «Ci siamo inventati una sorta di “maglia a pois dell’Eroica” e ad ogni salita scattavamo per aggiudicarci dei punti immaginari. Ne ho vinte undici, avevo i polpacci di ghiaccio. Mi facevano male. In alcuni tratti è davvero disumano». Ci si aspetta, si condivide e si ripensa a tante cose. Per esempio al primo ricordo dell’Eroica che, per Lorenzo, è un vecchio filmato di Luciano Berruti su una bici anni ’30 della Peugeot.

Si pranza a Montalcino, non il solito pranzo fra i banchetti dell’Eroica, abbuffandosi di tutto ciò che capita a portata di mano, ma oggi bisogna fare così. Quando i tre ragazzi arrivano ad Asciano è già tardi e Lorenzo pensando all’anno prima, dice ai suoi amici che è contento, che per lui ci si può anche fermare, che si può tornare indietro. «Non hanno voluto. Io li ho portati sino a lì, loro mi hanno portato fino all’arrivo. Sono stati loro a voler concludere, a voler arrivare».

A Radda in Chianti inizia a diluviare, è la pioggia di ottobre, quella fredda, umida, quella da raffreddore. Si va avanti. Ad ogni stazione una firma, un timbro sul libro gara, per dire che si è passati anche da lì, nonostante tutto.
A Gaiole si arriva alle undici di sera, dalle cinque del mattino. «Abbiamo pedalato per più di quattro ore al buio e con la pioggia. Non sai quanti cinghiali, da soli o con i cuccioli, ci hanno attraversato la strada. In alcuni momenti abbiamo avuto paura. Dopo il pranzo, avevamo mangiato solo cioccolato e caramelle. Quando abbiamo trovato un locale aperto, ci siamo seduti al tavolo e abbiamo ordinato hamburger di chianina, eravamo i più felici al mondo». A quel tavolo, non c’è solo la soddisfazione per una bella giornata, a quel tavolo c’è soprattutto Roberto che lo dice ad alta voce: «A Gaiole porterò la mia famiglia in vacanza, giurateci».

Perché l’Eroica è tutto ciò che vi abbiamo detto e in particolare ciò che ci dice Lorenzo quando il racconto sembra finito ma è appena iniziato: «L’Eroica è un modo per sentirmi vicino a un tempo che non c’è più ma batte ancora. L’Eroica sono mio papà e mio nonno, i loro insegnamenti, le loro abitudini, ciò che mi hanno sempre raccontato e che me li fa ricordare. L’Eroica è l’approvazione della gente quando arrivi a Radda in Chianti e, vedendo tutti i timbri, quasi ti spingono all’arrivo dopo averti sorriso. Ma è anche un paesino incantevole come Lucignano d’Asso, a cui non fa caso quasi nessuno nonostante sia bellissimo. Magari ti fermi giusto per prendere l’acqua. L’Eroica è l’attenzione per la mia bici, perché è lì che impari a trattare gli oggetti con cura perché se la meritano, la cura. Come le persone».

Foto: Lorenzo Mariotti


Della sabbia e del fango: intervista a Nicolas Samparisi

La prima parola che ci viene in mente per parlare di Nicolas Samparisi non può che essere schiettezza. Parlando con lui, classe 1992, lombardo di Tirano, si nota subito una spiccata lucidità, soprattutto nella valutazione del proprio lavoro, una sincerità spietata. Il mondiale di Ostenda non è andato come avrebbe voluto e nasconderlo non serve a niente: «Non è partito bene ed è proseguito peggio, purtroppo. Venerdì, in ricognizione, ero a ruota di Gioele Bertolini: lui è caduto ed io non sono riuscito a evitarlo. Mi sono ferito ad un dito, mi hanno dato immediatamente alcuni punti di sutura e dell’anestetico ma ormai il danno era fatto. La domenica sono già partito con questa problematica ed a lungo andare ha influito sulla prestazione».

Per preparare la gara di Ostenda, Nicolas era stato diversi giorni in Olanda, aveva gareggiato lì e si era allenato. «Credo sia utile seguire un percorso di questo tipo: quando torni da Olanda, Belgio o Repubblica Ceca senti immediatamente di avere una gamba diversa. Noi diciamo che “ti cambia la gamba” per intendere questo miglioramento repentino. Attenzione però perché è un’arma a doppio taglio. In questi paesi trovi moltissimi tracciati duri, ideali per crescere. In molti casi si rischia l’overtraining: arrivi in gara già stanco e ti pregiudichi il risultato». Quest’ultima problematica Nicolas la avverte particolarmente, anche a causa del suo carattere. «Sono molto preciso. Se in tabella sono indicate quattro ore di allenamento, anche se dopo tre e mezza sono stanco, non mi fermo. Se sono quattro, devo farne quattro. Forse, qualche volta, essere un poco più indulgenti con se stessi farebbe bene. Sono fatto così, posso farci poco».

Nicolas si definisce un passista-scalatore. «Dico sempre che la diversità caratteriale tra me e mio fratello Lorenzo passa anche per le nostre diversità tecnico-tattiche. Lui è uno scalatore puro, più istintivo, tanto nel cross quanto nella vita. Io, da buon passista, sono riflessivo. Però Lorenzo è una delle poche persone di cui mi fido ciecamente. Se mi dice che la pressione delle gomme in una determinata gara deve essere di 1.2 bar, non ci penso un attimo a regolarmi in tal senso». Tempo fa, Lorenzo è stato operato per il restringimento di un’arteria, Nicolas non ha avuto dubbi su cosa dirgli: «Gli ho solo detto di avere pazienza che sarebbe riuscito a tornare ai suoi livelli. Soprattutto gli ho ricordato che la vita non si ferma al ciclismo e che non bisogna mai dimenticarlo. Anzi, bisogna conservare la capacità di godersela, altrimenti si fa un errore madornale». Parlare di carattere è in realtà anche parlare dei vari percorsi che il ciclocross propone e delle caratteristiche che servono per affrontarli. Già, perché parte del tuo rendimento è direttamente influenzato da questo. «Il percorso del mondiale di Ostenda è indubbiamente stato uno dei percorsi più completi degli ultimi anni. L’introduzione della sabbia è molto significativa e bisogna parlarne. Nella sabbia si pedala in modo diverso rispetto al fango. Le ruote affondano ed è indispensabile una potenza non indifferente per uscirne. Devi prendere la canalina, riuscire a stare in equilibrio e gestire le sbandate. Il tutto con i battiti alti della gara».

A Samparisi piacciono percorsi di questo tipo ed è convinto che in Italia ci si stia muovendo nella giusta direzione, cercando di disegnare percorsi più duri dopo che per molto tempo si era puntato tutto sulla tecnica. Nicolas pensa che la presenza di van der Poel e van Aert sia un bene per tutto il movimento: «Con loro in corsa il ritmo gara aumenta di molto: solo così possiamo migliorarci. A livello personale credo che van Aert sia più forte mentre van der Poel più tecnico. Se guardiamo i dati delle gare questo emerge nettamente». Anche ora che, a casa, vuole solo dedicarsi alla propria famiglia ciò che prova in corsa lo emoziona: «Quest’anno è stato particolare e non fa molto testo. In Belgio le persone pagano per venire a vederci. Quanto devono tenerci? Quanto dobbiamo interessargli? L’anno scorso avevo fatto stampare mille cartoline da regalare ai tifosi: le ho finite e ho dovuto farle ristampare. Qualunque momento è buono per chiederti un ricordo o un pensiero. Rende l’idea della grandezza del cross?». Quando le cose non vanno, Nicolas Samparisi riesce a staccare mentalmente e ripartire, col tempo ha imparato ed oggi è questa caratteristica a salvarlo. «Non ero molto felice al ritorno da Ostenda ma pensarci non avrebbe comunque cambiato la situazione. Al campionato italiano c’è in palio una maglia tricolore a cui tengo molto, ora penso a quella. In più quest’anno ho capito di poter entrare tra i primi venti nelle gare di Coppa del Mondo, è un passo importante per cui lavorare giorno per giorno. Non c’è tempo per guardarsi indietro. Non vi pare?».

Foto: Previsdomini/Per gentile concessione di Nicolas Samparisi


Il mondo dall'alto di Federica Zavischi

La storia di Federica Zavischi è una storia di sguardi dall'alto. Dalle parole di mamma che nei momenti no le diceva «stai investendo su di te, sul tuo futuro, ed il futuro è troppo bello per lasciarlo alla casualità», alle notti in maneggio, quando era la prima ad arrivare e l'ultima ad andarsene. La storia di Federica è la storia di chi ha voluto cambiare prospettiva e ha deciso che «dall'alto si vede tutto diversamente, non so se è meglio, ma di sicuro mi piace di più perché puoi guardare gli altri ed imparare». Federica è cresciuta fra quei cavalli anche quando passava ore sui libri o faceva l'assistente di volo, anche quando l'agonismo era diventato troppo invadente per essere sopportato, provava qualcosa di troppo forte per lasciar perdere. Il momento di lasciar perdere arriva solo quando ti accorgi che le cose non sono più come prima e che non c'è più possibilità di ritorno, non è la fatica a causarlo, è la delusione.

Federica Zavischi lo ammette: l'idea di tornare a casa e non avere più una passione di quelle vere, di quelle non sai manco tu come sono arrivate a te, ma sono lì e le senti forte, la spaventava. «L'ultima volta che ho cavalcato, sulla strada parallela alla nostra c'era una gara ciclistica. Ho pensato che forse avrei potuto ripartire dalla bicicletta». C'è voglia di intensità, quella voglia sparita da tempo: Federica compra una bici, è agosto. In due mesi la usa talmente tanto da distruggerla. «L'ho torturata quella bicicletta, ma dovevo conoscerla. Dovevo fare ciò che mi veniva in mente. Anche se sembrava impossibile, anche se non ero capace e finivo col farmi male».

Quando le viene l'idea di partecipare alla Tre Valli Varesine, si rende conto di dover cambiare bicicletta. Manca poco più di una settimana ma lei vuole esserci. «Ero folle. Non ero per nulla preparata, me lo hanno sconsigliato in molti, non li ho ascoltati. Ho fatto una fatica assurda ma al traguardo sono arrivata. Non ho mai messo il piede a terra». E questo concetto di fatica, Federica lo conosce molto bene: «Mia madre non mi ha mai obbligato a fare nulla. Avevo iniziato a sciare grazie a lei ma non mi piaceva. Ho smesso ed era contenta quanto me. Lei ha amato l'equitazione alla follia ed era orgogliosa di ciò che stavo facendo, quando ho smesso e ho lasciato la mia cavalla ad un'amica ne ha capito le ragioni e sapevo che era dalla mia parte. Mamma mi ha sempre fatto capire che abbiamo tutta la libertà di scegliere e dobbiamo usufruirne a piene mani perché è nostra. Poi, però, dobbiamo essere coraggiosi e andare avanti. Non esiste libertà di scegliere senza coraggio di decidere». Le prime pedalate di Federica sono un inno all'avventura e l'avventura è anche correre il rischio di essere impreparati.

Quando si corre la Bourgogne Cyclo diluvia, lei non é preparata, non ha l'abbigliamento ideale e non sa nemmeno cosa la aspetti. Il suo allenatore la invita a non partire. Lei non vuole sentire ragioni: «Quando cavalcavo avevo l'assillo del risultato, adesso no. Adesso pedalo perché voglio riprovare la sensazione di un gruppo che si muove, che viaggia, che condivide. Se avessi dovuto pensare al risultato, non sarei partita. In quel momento pensavo a me».

Da quel giorno Federica inizia a viaggiare. «Quando cavalchi ci sono mille possibilità, puoi essere preparatissimo e sbagliare tutto. Si tratta di una sintonia. In bicicletta la responsabilità è tua, dove arrivi o dove ti fermi sei tu a deciderlo». In bicicletta, torna la condivisione di un punto di vista diverso: «Ho scalato lo Stelvio con una compagnia variegata: da Como, alla Svezia, al Sudamerica. Vuoi la verità? Non conoscevo quasi nessuno. Molti dicono “ho fatto lo Stelvio”, per me puoi dire di aver fatto lo Stelvio solo se lo hai fatto in bici. Solo se, verso gli ultimi tornanti, ti sei affacciato e vedendo quanta strada mancava hai pensato fosse meglio non guardare. Se poi ci hai ripensato e hai sorriso. Perché hai capito quanto è valsa quella fatica, cosa ti sei costruito anche mentre non ce la facevi più. In bicicletta si parte quasi sempre da sconosciuti e si arriva che, pur non conoscendosi, ci si sente legati. Così fai la foto di gruppo davanti al cartello che indica la località, perché devi raccontare che ce l'hai fatta. Che ti sei portata lì».

La bicicletta per Federica non è solo questo, è soprattutto un luogo ed un cambio di vita. «Sono stata in vacanza all'Hotel del bosco'' sulle Dolomiti. Cosa vuoi che sia una vacanza? Vai in un luogo, lo vedi, ti piace, ti diverti poi torni a casa. Io da lì non sono stata più capace di tornare davvero a casa. Ci sono tornata solo apparentemente». Così Federica cambia ancora prospettiva e decide di trasferirsi a vivere in Trentino Alto Adige, dalla Lombardia. La prima cosa che chiede quando arriva e se ci sia una squadra di ciclismo. Sono in tre, ma non conta. «Quando ho detto che mi sarei trasferita in molti mi hanno detto che ero pazza. No, non sono pazza. Sono solo giovane e voglio provare. Sbaglio? Si può tornare indietro, non è un destino scritto, non è irreparabile. Succede come quando cadi dalla bicicletta e torni subito in sella. Se non avessi provato non saresti caduto, certo. Ma se non avessi provato non saresti neppure in sella». E da lì, dal Trentino, Federica Zavischi vuole poche cose: «Voglio godermela questa bicicletta e riprendermi tutto quello che la velocità e l'agonismo mi avevano tolto. Per guardare bene devi rallentare. Se vai troppo veloce non puoi. Io voglio prendermi la libertà di pedalare al mio passo, di andare dove voglio e magari di provare quella nostalgia di quando sei arrivato e puoi rilassarti ma in realtà vorresti tornare indietro per ripartire. Voglio godermi il viaggio, come una buona cena, un buon vino e tutta la compagnia che desideri».


Storie di scelte: intervista a Enrico Battaglin

C’è stato un momento in cui i pedali di Enrico Battaglin sembravano non girare più. Era il 2019 e nella testa di Enrico cominciavano a tornare le domande. «Quando vedi che le cose non vanno e non ne capisci il motivo, non sai più cosa raccontarti. La spiegazione è essenziale, almeno per accettare la situazione. Qualche giorno me lo sono anche detto: “Chissà forse non vado più. Magari è arrivato il momento di smettere”».

Non era quello il caso, per Enrico, infatti, tutto cambia dopo un’operazione al naso. Quel periodo, però, gli lascia molta consapevolezza. «Di persone pronte ad aiutarti, nella vita non solo nel ciclismo, ce ne sono poche. In compenso molte aspettano di sostituirti, di prendere il tuo posto. Non è il mio caso ma spesso succede così. Alla fine capisci che i problemi devi provare a risolverli da solo, ad uscire da solo dal fango in cui sei rimasto bloccato, altrimenti non c’è via. Ma forse è anche giusto così, non possiamo chiedere ad altri di semplificarci la vita. Si tratta di una nostra responsabilità».

Il ritiro diventa così per Enrico Battaglin l’occasione per conoscere al meglio i compagni e soprattutto per farlo in tranquillità: l’adrenalina delle gare spesso non lo permette ma la conoscenza non è un aspetto trascurabile per stare in gruppo.

Frequentare i luoghi e le persone, per conoscerle e migliorarsi. «So di un ragazzo che ha un preparatore che non ha mai incontrato personalmente. A me sembra impossibile. Vero è che questa realtà tecnologica tende ad annullare le distanze, ma la fiducia è anche questione di conoscenza diretta. Se c’è una cosa che cerco di portare ai giovani in Bardiani è la mia esperienza. Anche Giovanni Visconti fa lo stesso, ma abbiamo caratteri diversi. Lui è più estroverso, io più discreto, più timido. Non mi piace stare al centro dell’attenzione. Come provo ad aiutare i più giovani? Raccontando ciò che è capitato a me. Io credo che gli esempi restino più in mente. Per portare esempi, però, devi esserci, devi essere presente anche fisicamente, farti vedere, metterti in gioco. Come fai da uno schermo?».

Le esperienze estere di Battaglin, prima del ritorno in Bardiani, gli hanno reso evidente il valore della comunicazione. «Quando ho scelto la Jumbo-Visma, ci ho visto lungo. Non era la squadra di adesso. Poi ho avuto fretta e per non restare nell’incertezza sono passato subito in Katusha. Lì credo di avere sbagliato. C’è una costante: avrei dovuto conoscere meglio le lingue, l’inglese almeno. All’estero considerano molto questo aspetto, puoi avere tanti numeri ma, se si accorgono che non riesci a comunicare, iniziano a nutrire dubbi. So che nella nostra squadra è difficile perché siamo tutti italiani, ma credo serva lavorarci. Impari molto e stai certo che ti servirà».

Comunicazione che può e talvolta deve essere schietta, anche molto schietta. «Prendi Roberto e Bruno Reverberi: il primo è più diplomatico, il secondo più schietto. Alcuni dicono che il modo di Bruno è da vecchio ciclismo, io non credo. Ognuno ha la sua sensibilità ma personalmente se hai qualcosa da dirmi, voglio che tu lo faccia nel modo più diretto possibile. Senza troppi giri di parole. Dritto al punto». Sui Reverberi, Enrico è chiaro: «Bardiani è cresciuta, migliorata da quando io sono andato via. La Bardiani di adesso ha il livello di alcune World-Tour. I Reverberi mi hanno lasciato andare via e mi hanno lasciato tornare. Sono tanti anni che fanno questo lavoro, potrebbero anche stancarsi no? Può accadere a tutti. Invece con la loro parsimonia, vanno sempre avanti. E ogni anno qualcosa di buono lo fanno».

Al ciclismo Enrico Battaglin è arrivato quasi per caso. Praticava anche sci di fondo e gli piaceva, crede che le due discipline siano complementari. Ogni tanto si sofferma a guardare il Biathlon, in televisione. «Il punto è che con questi sport sei in mezzo alla natura, usi tutto il tuo corpo, lo conosci, ti conosci e in questo modo ti senti libero». Battaglin ha anche scelto il ciclismo, all’inizio come negli anni a venire. Dice che del ciclismo ha imparato ad accettare la distanza che, se all’inizio può essere avventura e scoperta, con gli anni, e con una famiglia al proprio fianco, può diventare faticosa da accettare. Poi riprende il filo del discorso e, lentamente, precisa: «La testa è fondamentale. Non devi tralasciare nulla, devi dare tutto ciò che hai ed anche di più. Non sono frasi fatte, lo capisci anno dopo anno. Così diventi consapevole e hai meno paure. Ti alleni meglio e sai esattamente cosa puoi fare. Arriva il giorno in cui puoi anche non gareggiare ma sei tranquillo, sai come hai lavorato e sai quanto puoi fare. Credo sia il momento migliore. Si cresce continuamente: bisogna saperlo per continuare a fare quello che si fa e per continuare a crederci».

Foto: Paolo Penni Martelli


La nuova vita di Sevilla

Chissà se anche a Medellín sarà lo stesso. Se quell’eco arriva fino a lì. I nomi dei ciclisti sono evocativi. Riportano indietro di anni e si collegano quasi automaticamente ad altri nomi, come nella ricostruzione di un puzzle. Succede per il ciclismo come per tutti gli altri sport. Chi non ricorda a memoria la formazione dell’Italia campione del mondo nel 1982? Alcune volte quei nomi sono persino associati alla particolare cadenza nella loro pronuncia da parte di un cronista. Quasi sempre a ricordi o pomeriggi estivi davanti al televisore. Magari nell’infanzia o nell’adolescenza. Per questo se vi nominiamo Óscar Sevilla, è come se vi nominassimo anche Santiago Botero, Juan Manuel Garate, Beat Zberg, José Maria Jiménez, Santiago Blanco, Igor Gonzàlez de Galdeano e molti altri. Solo alcuni fra gli atleti che hanno fatto parte del gruppo a cavallo fra gli anni novanta e il duemila.

Magari eravate ragazzini e seguivate il Tour de France durante le vacanze estive, oppure eravate già adulti e per sapere qualcosa dell’andamento della Grande Boucle aspettavate di infilarvi in macchina e di accendere la radio. Sevilla ebbe il suo anno migliore proprio in quel 2001 ed il racconto apparterrebbe agli annali, non fosse che il ”ragazzino” nato ad Albacete, in Castiglia-La Mancia, il 29 settembre 1976, è ancora sulla breccia e a quasi quarantacinque anni, qualche settimana fa, si è imposto nella prova a cronometro della Vuelta al Tàchira, in Venezuela, chiudendo poi secondo in classifica generale.

Óscar Sevilla arriva in gruppo nel 1998. Esile, non molto alto, ha il classico fisico da scalatore ed il sorriso tipico degli spagnoli. Corre per la Kelme marchio di abbigliamento divenuto noto in Italia per quella maglia a strisce verdi e bianche. Squadra di scalatori e fuggiaschi: Roberto Heras e Fernando Escartìn i più celebri, Alejandro Valverde tra i volti noti lanciati nel professionismo. Al Tour del 2001 chiude settimo, Sevilla. Ha quasi venti minuti da Lance Armstrong, non tiene il passo dell’americano ma è sempre nel gruppo dei migliori e prova anche a giocarsela. A Parigi vestirà la maglia bianca di miglior giovane e solo poche settimane dopo rischierà di vincere la Vuelta, superato dal connazionale Ángel Casero. Sarà la sua migliore annata, negli anni successivi stenterà a riconfermarsi a quel livello. Ma la batosta non è questa, la batosta deve ancora arrivare ed inizia a serpeggiare a fine giugno del 2006 fra le pagine dei giornali e il villaggio di partenza del Tour de France a Dunkerque. È l’Operación Puerto.

Sevilla non è coinvolto personalmente, ma come compagno di squadra di Jan Ullrich alla T-Mobile. «Ho sofferto molto- racconta a Cyclingnews- non potevo fare nulla. Non potevo neanche difendermi perché non ero accusato personalmente. La federazione ci ha lasciato in un limbo: non potevamo tornare e non avevamo nemmeno una giusta pena da scontare». Il ricordo più doloroso per Sevilla è legato alla sofferenza che respirava in casa, la paura di aver deluso. Se vuole andare avanti, deve cambiare qualcosa. Una delle possibilità, è cambiare terra. «Non fosse stato per l’Operaciòn Puerto correrei ancora in Europa. Avrei guadagnato più soldi e sarei anche stato più famoso. Ma non sarei mai stato felice come lo sono ora». Sevilla parte, va in Colombia.

Lì trova la vita vera: «La verità è che sono contento di aver superato quelle difficoltà e di essere qui. Nonostante tutto sto ancora facendo ciò che ho sempre voluto fare. Ho trovato un’altra vita, me la sono costruita. Perché? Perché ho trovato un’altra nazione, dove la vita è considerata per ciò che è e per quanto vale. Spesso in Europa non apprezziamo quello che abbiamo e abbiamo tantissimo. In Colombia hanno molto ma molto meno però danno un valore enorme ad ogni cosa. Si godono la vita e si godono ogni giorno. Non sono arrivato qui in un periodo facile, ma sono riusciti a farmi sentire a casa, a farmi sentire felice».

Così, a chi si chiede perché Óscar Sevilla corra ancora, a chi si meraviglia e non capisce come faccia ad essere così competitivo e a sfidare ragazzi che potrebbero essere suoi figli, lui risponde spontaneamente, quasi non percependo la profondità di ciò che va a dire. Sempre quel suo sorriso, a metà tra lo spavaldo ed il timido e quella cadenza impastata di spagnolo. «Alcune volte la vita ti toglie delle cose. Alcune volte molte cose, ma sappi che te ne restituirà altre. Cose che nemmeno ti immagini. Se ho avuto l’opportunità di ricominciare da capo, dovevo sfruttarla fino in fondo. Con tutto il bene e con tutto il male».

Foto: BettiniPhoto©2020


La scalata di Omar Di Felice all'Everest

Quando squilla il telefono, Omar Di Felice sta sistemando i bagagli per la partenza ed è proprio di questa idea legata al viaggio che inizia a parlarci quasi confidenzialmente. «Ogni volta che si parte o si riparte si rivive la stessa storia. C’è entusiasmo per la carica di avventura che ti aspetta ma hai paura perché, alla fine, cosa realmente ti aspetta lo sai quando lo vivi». Del resto Di Felice non sta partendo per un viaggio qualunque: in circa tre settimane, senza supporto, raggiungerà il Campo Base dell’Everest a quota 5364 metri. Il 6 febbraio, dopo essersi sottoposto a un tampone molecolare per il Covid, Omar volerà verso il Nepal, verso Kathmandu. Da lì, il 15 febbraio, dopo un periodo di quarantena e un altro tampone, aggancerà i pedali e ripartirà, questa volta in sella. «Devo dire la verità, con il periodo che stiamo vivendo mi riesce sempre più difficile essere certo di ciò che farò. Anche in questo caso, credo che la certezza vera e propria non l’avrò fino alla prima pedalata».

L’idea viene da lontano, dall’autunno. «L’ultracycling è qualcosa di solo apparentemente individuale, in realtà dietro devi avere delle persone competenti, che credano in te, che credano alla tua idea e che ti aiutino a realizzarla. Certe cose sono possibili solo grazie a loro, anche se poi a pedalare sono io. Alcune idee mi vengono durante le sgambate invernali, poi c’è la realizzazione. Sono queste persone che ti aiutano ad attrezzare tutte le vie di fuga possibili, le uscite di sicurezza, tutto ciò che ti rende più sicuro e rende più tranquille anche loro che magari ti vogliono bene e ti sanno su qualche passo himalayano nel mezzo della notte. Non è facile».

Da Kathmandu, Omar pedalerà verso nord-ovest sino alla suggestiva regione del Mustang. Di Felice spiega che i primi trecento, quattrocento chilometri per quanto difficili saranno su strade percorribili. Il problema arriverà quando si inizierà a salire verso Kora La Pass, 4660 metri, Annapurna e Thorung La, 5416 metri. Da qui, infatti, si giungerà al Campo Base del Tilicho Lake, 4919 metri, e successivamente al Campo Base dell’Everest.

«In molti tratti dovrò per forza procedere a piedi, con la bicicletta in spalla. Per esempio sull’Annapurna, un passo che in inverno non percorre nessuno. Io mi aiuterò con ramponi e scarponi per oltrepassarlo. Sarò l’unico lì in quei giorni. Nello zaino avrò l’essenziale, gomme chiodate, attrezzatura da bikepacking e vestiti adatti, il più compattabili possibile. Non potrò portare molte riserve di cibo o di acqua. Mi affiderò all’ospitalità dei villaggi locali. Le popolazioni asiatiche sono molto accoglienti, lo sappiamo. Chiederò aiuto a loro». Il problema sarà il freddo. «La possibilità di congelamenti non è data tanto dalle temperature di meno venti, meno trenta gradi, è la quota a fare la differenza. Sarò per molti giorni a 4000, 5000 metri, col rischio di rimanere bloccato e di passare lì la notte, magari in mezzo a una bufera di neve».

In questi casi Omar monterà la sua tenda ed utilizzerà il sacco a pelo, il resto delle notti, invece, lo passerà nei villaggi. «In Mongolia mi trovavo in un deserto, qui no. Credo che gli abitanti del Nepal non siano abituati a vedere ciclisti, però si relazionano con alpinisti ed escursionisti. Chissà. Di sicuro stare con loro mi aiuterà a recuperare. Dovrò avere molta pazienza per l’acclimatamento ed in alcuni casi dovrò anche tornare indietro per aiutare il mio fisico». Di Felice si è confrontato con un medico che gli ha sottoposto un protocollo per il freddo. «L’altitudine è imprevedibile. Noi europei non siamo abituati a confrontarci con queste altitudini. Si può andare incontro a edemi polmonari, a edemi cerebrali. Ho dei medicinali che potranno aiutarmi. Spero di non averne bisogno».

Se Di Felice dovesse trovare una chiave di lettura per questo percorso di circa 1300 chilometri e 40000 metri di dislivello, parlerebbe di visione: «Se chiedi a cento persone se sia il caso di affrontare un viaggio come questo, almeno novanta ti daranno del pazzo. Io mi fido dell’appoggio di chi ho accanto e mi scordo il consenso delle persone. Questo ha voluto essere sin dall’inizio un viaggio “verticale”, un’ascesa al tetto del mondo. Quante possibilità c’erano di realizzarlo? Poche, abbiamo visto tutti cosa è successo con questa pandemia. Credo, però, che le possibilità dobbiamo anche essere bravi a crearcele da soli. Essere visionari, in questo senso. Ed io sono visionario».

Omar chiude la cerniera di uno zaino e torna a parlare. «L’istinto è solo la prima fase. Ti immagini un qualcosa e decidi che vuoi provare. In realtà, quando inizi a camminare dentro ciò che hai immaginato, capisci che l’istinto non basta più. Servono persone che non frustrino le tue idee e che ti aiutino a ritrovare i migliori pensieri anche quando non ne hai più. Soprattutto serve la paura. Non sono un uomo invincibile, non sono un supereroe. Posso sbagliare, posso farmi male. Può accadere di tutto anche a me. Per questo una buona dose di paura la avverto sempre. Non è qualcosa di cui vergognarsi. La paura mi ha sempre salvato, la paura mi ha fatto capire quando dire basta, quando fermarmi, quando tornare indietro. Alla paura devo un grazie».

Foto: @6Stili/Luigi Sestili