Negli anni novanta, la bottega di nonno Valerio era il rifugio perfetto per le mattinate a casa da scuola e per i pomeriggi di gioco di Andrea. Quel garage sotto casa, nel tempo, era diventato un vero e proprio laboratorio artigianale, una sorta di precipitato di un’altra epoca, mentre un signore con le mani sporche di olio e una vecchia divisa con i segni dei lavori passati portava avanti il suo mestiere. Inizialmente sui tavoli di nonno non c’erano che tanti oggetti, di svariate misure e forme, di cui ancora non immaginava l’uso, ma, ad ogni ritorno, la situazione cambiava e da quei “pezzi” prendeva vita uno strumento nuovo. Prima solo accennato, poi sempre più definito e uguale, in tutto e per tutto, a quelle biciclette che vedeva per le strade, solo che queste erano plasmate dalle mani di nonno. A dire il vero, sebbene molto più grandi, erano anche simili alla sua, a cui aveva da poco tolto le rotelle. In un angolo del cortile aveva anche portato le coppe vinte da papà Livio, a cui era stata tolta la targa originale della gara di provenienza ed incollata una nuova etichetta su cui era scritto il nome della gara immaginaria che si sarebbe tenuta quel giorno. La lista di partenza prevedeva due corridori, Andrea ed il cugino, con tanto di gomitiere e ginocchiere. Sì, accessori costruiti in gomma piuma, dai rotolini degli imballaggi che arrivavano in bottega. Alla fine, un pennarello, la scritta Specialized ed il gioco era fatto. «La costruzione di una bicicletta è, di fatto, un gioco, che resta tale anche nell’età adulta. Potrei raccontare della spada di legno che mi costruì il mio nonno materno – spiega Andrea- che abitava sotto di noi e si occupava di “cose di legno”, verniciava, smontava, rigenerava. Qualche volta, quell’impugnatura non mi piaceva più, allora, con la lima e la carta di vetro, la modificavamo e tornava perfetta. Insostituibile. I giochi sono così, li vogliamo a misura della nostra fantasia. Vale anche per la bicicletta. Un catalogo non può soddisfare queste esigenze. Allora c’è il nostro mestiere». In via Lanzo 207, a Borgaro Torinese, oggi c’è Cicli Drigani che, apparentemente, sembra un’altra storia rispetto a quella bottega artigianale, tuttavia ne è solo la prosecuzione: da una bottega artigianale, a un negozio sotto un portico, da due a sei vetrine, all’officina distaccata, fino alla sede odierna, nel 2019. Dall’osservare la collina di Torino per trovare ispirazione, al perdersi fra le colline delle valli di Lanzo per lasciare andare i pensieri. Perché Andrea è Andrea Drigani, figlio di Livio e nipote di Valerio.
Poco distante, al centro estivo, in quegli anni, il telefono squillava spesso. Era la signora Giuliana, madre di Andrea, che telefonava al parroco, Don Ester, per accordarsi sull’orario in cui andare a prendere il figlio. Al mattino, l’avvertiva sempre: «C’è la tappa, posso venire a casa a vederla?». Anche Don Ester era appassionato di ciclismo e biciclette e non si perdeva una corsa. Il 5 giugno del 1999, il telefono era suonato e la cornetta era stata afferrata dalle mani del sacerdote: «Non credo serva che venga a prendere Andrea. Marco Pantani non parte al Giro». Ed infatti quello fu l’unico giorno in cui Andrea non tornò a casa in orario e tutto sembrava più triste. In giorni così, anche oggi, Andrea va in officina, talvolta mette le mani su qualche bici, altre volte resta solo a guardare i meccanici lavorare. Si sente meglio, non ha nulla da chiedere: «Era il luogo in cui bazzicavo da ragazzino, all’età delle scuole medie, quello in cui ho iniziato a darmi da fare, nel mio primo giorno di lavoro, nel 2012, una mattinata di luglio, con una laurea fresca fresca. Forse è per questo, forse no, ma, ogni tanto, sento il bisogno di ritornarci. Poi, magari, prendo la bicicletta ed esco a pedalare. I dubbi cerco di togliermeli così».
Certo, anche l’officina è cambiata, nel tempo: ai tempi di nonno c’erano telai saldobrasati, ruote lenticolari, qualche brevetto, quel mozzo su cuscinetto, ad esempio, utilizzato poi da Miche, e tutto quel che si trova da un piccolo artigiano. Suo padre Livio, quando si licenziò dal suo precedente incarico in Michelin, arrivò lì con il baule della macchina pieno di componenti e pezzi di ricambio per le biciclette: spese così tutti i soldi della liquidazione. Ancora oggi, Livio è il primo ad arrivare al mattino e l’ultimo ad andare via la sera e, se un meccanico è malato, si precipita in una delle sue postazioni della nuova officina e ci pensa lui. All’officina si accede sia dall’interno che dall’esterno dei locali, nel negozio, però, una vetrata permette di vederne l’interno. L’altra possibilità per osservare il lavoro dei meccanici è una balaustra, sulla rampa che porta al piano di sotto: «Spesso sorprendo qualcuno intento ad osservare dai vetri. Dico di più: su quella balaustra si appoggiano in molti e restano a scrutare per minuti e minuti. A loro piace vedere il processo di riparazione di una bicicletta, a me piace guardarli, così immersi in quell’osservazione. Mi ricordano qualcosa del mio passato».
Il negozio si estende su circa 800 metri quadrati, l’ingresso avviene tramite una rampa interna, costeggiata da foto, da molte foto, delle persone che lavorano da Cicli Drigani: la zona espositiva comprende tre brand, Specialized, Bianchi e Pinarello, ma anche diversi capi di abbigliamento. Oltre a sei meccanici è presente un settimo tecnico che si occupa di tutti gli aspetti legati alle garanzie. Proseguendo troviamo una zona per il lavaggio biciclette, il magazzino, l’area dedicata all’usato e un parcheggio bici al coperto per chi porta la propria bici da sistemare. «Se tu mi chiedessi di scegliere tra un venditore molto esperto di tecniche di vendita, ma completamente digiuno dell’ambiente bicicletta, e un altro venditore che, magari, deve perfezionarsi nella vendita, ma è appassionato, pedala, viaggia ed ha esperienze da raccontare, sceglierei, senza dubbio, il secondo. Le foto all’ingresso hanno a che vedere con questo concetto. L’empatia è il primo passo in questo lavoro: nessun catalogo potrà mai informarti sulle sensazioni che si provano in sella, sulla fatica e la sofferenza, sul vento in faccia, come nessun manuale descriverà mai la soddisfazione che si prova quando ci si trova di fronte a qualcuno che comprende quel che provi e si mette nei tuoi panni». Anche per questo motivo, Andrea ha voluto quella maxi parete che si trova all’ingresso. Una sorta di retro podio, con la scritta Cicli Drigani ripetuta in diversi colori, ma soprattutto, nella banda centrale, il motto del locale: “Immagina, costruisci, pedala”. «Alla fine, questi tre predicati riassumono quel che accade qui dentro, ma, ben prima, identificano quel che ho fatto sin da bambino e che facciamo tutti. Pensiamo a una bicicletta, a quella dei sogni, la costruiamo, se è il nostro lavoro, altrimenti, più spesso, chiediamo a qualcuno di costruirla come vorremmo, poi andiamo a ritirarla e facciamo subito il primo giro. Non stiamo nella pelle». Pedalare resta un bisogno essenziale: Andrea racconta che, nel periodo della pandemia, quando si vendevano molte bici e tutti erano soddisfatti, lui, ogni tanto, si sorprendeva giù di morale, pensieroso, apatico. Sì, tutto quel lavoro, comunque importante, toglieva ogni spazio per sfogarsi in sella e lui lo pativa.
Non molti anni fa, da Harrods, a Londra, è rimasto colpito da quella scritta: “Dallo spillo all’elefante”. Una sorta di manifesto: «Significa che puoi trovare tutto quello che cerchi. Come fosse un piccolo mondo, un universo in cui sai che, se quello di cui hai bisogno ha a che fare con la bicicletta, da qualche parte, sopra o sotto, a destra o a sinistra, dentro o fuori, ci sarà. Può essere una bicicletta, una riparazione, un capo di abbigliamento, un massaggio, la messa in sella, un trattamento di chinesiologia, persino un caffè, in una sala relax, sfogliando una rivista, osservando delle fotografie». Dal 2012, in dodici anni, è certamente cambiato il modo di porsi dei clienti che si rivolgono a Cicli Drigani, ma anche quello di Andrea. In primis per il passaggio del tempo e l’acquisizione di esperienza, anche, però, per i vari cambiamenti che sono avvenuti nella società in questo periodo: «Ero molto giovane e, quando si è giovani, c’è sempre un poco quel retropensiero che fa si che si venga trattati con sufficienza, “perché tanto cosa vuoi saperne, sei un ragazzino”. La credibilità, oltre che dal cognome che porto, viene anche dai molti giorni qui, dalle tante volte che mi hanno visto e da tutte le cose che mi hanno visto fare. Tuttavia i clienti si pongono in maniera differente anche perché la consultabilità dei dati tecnici è aumentata: conoscono di più e vogliono confrontarsi, chiedere, sapere».
Drigani riflette e afferma che questa maggiore conoscenza, a suo parere, è positiva: «Certo che capita chi vuol far vedere di saperne di più solo per il gusto di mettersi in mostra, lo sappiamo, lo accettiamo. Ma non tutti fanno così. Alcuni sfruttano le competenze acquisite per confrontarsi, anche fra loro, per consigliarsi prima dell’acquisto. Mi piace ascoltare i loro scambi, come mi piace confrontarmi a mia volta». Questa conoscenza, aggiunge Andrea, permette di eliminare quell’atteggiamento di fiducia esclusiva, senza dubbi, riposta nel venditore ed è un bene perché, quando c’è solo fiducia, obbligata dal fatto di non sapere, i timori si manifestano alla lunga. Allora si inizia a pensare che il commerciante abbia consigliato per interesse personale, per proprio
vantaggio, e questo non va bene, anche se, apparentemente, è più comodo.
Livio e Andrea qualche sera si ritrovano a pensare a Valerio che è mancato prima che Cicli Drigani diventasse quel che è oggi. Ognuno porta la propria considerazione, si dicono che sia stato proprio un peccato che non possa vedere come si è ingrandita quella bottega, «non ci sono più le biciclette Drigani, ma c’è tanto altro. Sì, nonno sarebbe stato orgoglioso». Se, dopo troppi chilometri in sella, i muscoli fanno male, Andrea torna in officina, guarda e pensa. Ricorda delle volte in cui qualcuno, sentendo quel cognome, gli ha chiesto: «ma tu sei quel Drigani?» ed ha iniziato a raccontare di un parente od un amico che era stato in negozio. Sta in silenzio. La responsabilità di «portare quella maglia» è grossa, ma lui ne è fiero. Sempre più fiero.
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