Forse il modo migliore per raccontare questo viaggio in Turchia è partendo da chi, proprio in Turchia, si è ritrovato. All’aeroporto di Bodrum, dopo le dieci di sera, davanti ai bagagli che scorrono e agli occhi che cercano, per poi scoprire che qualcuno manca sempre, che qualcuno è sempre in ritardo. C’è solo da sperare non sia andato perso. Quando un meccanico giapponese passa accanto a un direttore sportivo toscano e i due si salutano con naturalezza non rinunciando a nulla di ciò che è proprio: qualcosa di orientale e quella cadenza toscana con le lettere scandite in maniera inconfondibile e la battuta sempre pronta. Sono loro e potrebbe essere chiunque altro perché quando il ciclismo viaggia lo fa così. E stamattina è stato proprio qualcun altro ad avvicinarsi a quel meccanico giapponese per chiedere qualcosa in prestito: «Domani te la restituisco». La mano a dire non preoccuparti, e via.
Con i cartelli fuori dall’aeroporto con scritto “Presidential Tour of Turkey” e i ragazzi e le ragazze che li tengono ben in alto, a guidare le squadre verso il pulmino che le accompagnerà in hotel. Il nostro, per esempio, quello che ha accompagnato noi e tutti i ragazzi Bardiani, aveva un autista portoghese.
«Conosci l’italiano?»
«No, ma capisco qualche parola perché sono portoghese e certe cose sono uguali».
Detto in un inglese stentato, ma sufficiente per rendere l’idea. Per rendere la curiosità, perché non è il primo anno che le squadre sono qui ma è quasi come se lo fosse. Chi ti porta la valigia in camera rallenta nei corridoi e ne approfitta per chiederti di dove sei, di dov’è la rivista per cui lavori. Forse non capisce la città, ma la regione sì. Così ripete: «Piemonte? Piemonte sì». E c’è una certa fierezza, come nella ragazza, traduttrice, che ci presenta un collega e: “Sapete, lui parla molto bene italiano, lavora per un’altra squadra. È un mio amico”.
Qui si ritrova chi non si ritrova da tempo, chi è stato lontano. Basti pensare che in Bardiani, squadra con cui seguiremo la gara, noi veniamo da Malpensa, qualcuno è arrivato dall’aeroporto di Bruxelles e qualcuno da Venezia. Ci si ritrova con il mare che si vede dalla finestra e un tempo quasi estivo. Con un cibo più piccante, quelle case bianche accese, con il the caldo in bicchieri di vetro dalle forme particolari e quei divani alti, bassi, lunghi, corti, sagomati, dai colori sgargianti in tutto l’albergo, ma restano le costanti del ciclismo.
I rumori che sentiamo in camera: quelli del mattino, del pomeriggio e poi della sera. Sono diversi e chi vive le corse potrebbe capire l’ora solo ascoltandoli. Al mattino sono gli attrezzi dei meccanici a farla da padrone, quelle borse che si aprono e “costruiscono biciclette”, verso le due le voci si mischiano al suono dei clacson e al rumore dei camion che caricano e scaricano materiale, verso le sei, mentre noi scriviamo, le voci si calmano e le mani si muovono più velocemente, a dare indicazioni per il giorno seguente.
Del materiale sta ancora arrivando, qualcuno va a fare la spesa nei negozi qui vicino e compra ciò che manca o ciò che teme non ci sia in giusta quantità. L’olio, ad esempio, che, se ci pensate, è di uso frequente, non certo raro, ma lontano ti preoccupi anche di questo. Qualcuno chiede come sono le strade in Turchia: «L’asfalto è duro, lo capisci subito». Perché, poi, il bello dei ciclisti è anche questo: la loro attenzione posata su ciò a cui non faresti mai caso e quei termini gergali ripresi dal lessico di tutti i giorni per descrivere una catena , un manubrio o una sella. La loro familiarità.
E quella non te la scordi nemmeno se viaggi tutto il giorno e in aeroporto vorresti ritrovare subito la tua valigia e andare in hotel a riposare. Quella resta lì, come il meccanico giapponese e il direttore sportivo toscano e ti fa capire perché hai scelto il ciclismo.