Ci hanno detto che, a Napoli, il concetto di festa, tra le altre cose, è racchiuso in una domenica insieme, mentre sul fuoco c’è il ragù. A dire il vero, la festa è nel ragù che inizia a “pippiare”, ovvero a sobbollire. Quel pippiare è l’inquietudine dolce e turbolenta della felicità, di un attimo di dimenticanza, per dirla con Totó.
Quel “pippiare” è quel classico sbuffo che è ben più di un suono: è un profumo, un posto a tavola aggiunto all’ultimo, un tavolo, anche piccolo, attorno cui possono stare tante persone, “perché a quello serve una tavolata”. Abbiamo ascoltato e abbiamo pensato che se è così, festa è, in fondo, la possibilità del circostante di realizzare il proprio significato, oppure uno dei propri significati. Festa è l’azzurro delle decorazioni per il Napoli Campione d’Italia, perché i bambini, quando giocano a pallone la prima volta, sognano un tricolore sul petto. Festa è Diego Armando Maradona perché manifestazione di un talento, di un divertimento che fa divertire, che porta dimenticanza. E, nel frattempo, quel che non va resta sospeso, da solo, e quasi perde di peso.
Festa è il gruppo che pedala sulle strade della Costiera Amalfitana: perchè quelle biciclette sembrano perfette per stare lì, perché i mille colori di una canzone, che da queste parti si sente spesso, sono dentro e attorno il gruppo. Festa non è solo musica, grida di gioia e notti con la luna a vista, festa è anche il silenzio di chi sa che, oggi, la propria festa sarà diversa. Sarà un dolore quietato, il sollievo di un lettino dei massaggi, di una doccia, la consapevolezza di essere stati coraggiosi, perché, ricordate, festa è realizzare la propria possibilità. Pensiamo ad Andrea Vendrame, che è partito con una “disgiunzione alla spalla sinistra” dopo la caduta di ieri. Lasciate stare i termini precisi, vuol dire dolore, male, vuol dire non potersi girare nel letto senza sentire male e faticare a tenere il gruppo quando “mena”, come si dice in gergo, in una tappa mossa, agitata. La sua festa è così, dolorante, opposta al concerto di festa tradizionale, ma identica al coraggio, alla volontà. Alla realizzazione di ciò che si ha dentro, anche se fa patire.
Un discorso simile e diverso vale per Alessandro De Marchi e Simon Clarke. Nelle sensazioni, guardandoli, seguendoli, sperando in quella fuga, che si tifa sempre ma oggi forse di più, c’è il “pippiare” del ragù. Uno sbuffo dentro, un tuffo di qualcosa che salta e zampilla, che può essere preludio alla gioia o all’amarezza, alla mancanza. La fuga è la loro personale festa, il loro sentire, il loro manifestarsi, la loro radice che si espande e cerca altri luoghi. La loro festa è una curva, un momento in cui il gruppo scompare. Vengono ripresi a trecento metri dall’arrivo dopo aver scosso polmoni e nervi all’indicibile. Si cercano con una mano sulla spalla, mentre poco più avanti Mads Pedersen vince, esulta.
Quella di Pedersen è, forse, la festa classica, è forse una domenica, anche se è giovedì: è il traguardo dopo la fatica, dopo il lavoro, dopo quasi una settimana di Giro. È la soddisfazione costruita lentamente, come lentamente si costruisce una volata: nei meccanismi, nei tempi, nella velocità e nel caos che riempie quei momenti. Pedersen che stringe la mano a Milan, un’altra sfumatura di festa.
E nell’aria c’è quell’inquietudine che fa presagire la festa, la realizzazione di qualcosa. Diverso per ciascuno come diversa per ciascuno è la festa.