Gran parte dei giornalisti era già radunata nel truck. Il truck viene chiamato così per semplificare, ma in effetti è una specie di autotreno (un camion? un furgoncino grosso, quindi furgoncione?) che si apre e al cui interno entrano ogni giorno il vincitore di tappa e la maglia rosa. Per salire e scendere, una ripidissima scala da cinque o sei gradini, particolarmente pericolosi soprattutto se bagnati, diventa, per schiere di giornalisti, un ostacolo ben più temibile del foglio bianco.
Eravamo in tanti, insomma, lì dentro. Nei dintorni del rifugio Auronzo, sul lato un po’ più brutto delle Tre Cime di Lavaredo, faceva freddino e almeno stare al chiuso di avrebbe riparato dal vento. Ben più di mezz’ora è passata da quando Roglič e Thomas hanno sprintato per rosicchiarsi qualche secondo a vicenda. Da dentro la sala stampa si sente forte e chiaro un urlo che indica a quale punto della corsa siamo: «C’è Cavendish!».
Mi interessava vedere l’arrivo degli ultimissimi, guardare in faccia la fatica di chi ha impiegato sei ore e mezza a concludere una tappa con oltre cinquemila metri di dislivello. Così arrivo sul traguardo che sta sopraggiungendo un quartetto della Bahrain-Victorious. Da sinistra a destra ci sono Arashiro, Sütterlin, Milan e Pasqualon. La maglia ciclamino deve aver sofferto tantissimo per portare la bici al traguardo, ma sono tutti sorridenti perché, ormai quasi un’ora prima, ha vinto un loro compagno di squadra.
Diversi minuti prima era arrivato anche Edoardo Zambanini, incaricato invece di aiutare Damiano Caruso in salita. Il ragusano è andato forte, approfittando della giornata no di Eddie Dunbar per salire al quarto posto in classifica. Non sono riuscito a origliare cosa dicesse Zambanini, ma anche lui aveva un gran sorriso stampato in faccia. Una squadra, almeno, ieri era contenta da cima a fondo.