Il cellulare di Davide Formolo squilla alle diciannove: «Ti stavo aspettando». Non abbiamo tempo di dire granché, perché Davide riprende subito a parlare, una sorta di confidenza a cui tiene tanto: «Ma sai che sono proprio felice? Tutti mi dicevano: ”Così diventi papà” e io rispondevo che sì, sarei davvero diventato papà. In realtà non puoi capirlo fino a quando non accade e ti vedi lì quell’esserino che piange appena nato. Un’emozione fortissima. Sono contento di essere qui, a casa, con Mirna, mia moglie, e Chloe, la nostra piccola. L’abbiamo chiamata così. In questo momento non potrei immaginarmi da nessun’altra parte. Non riuscirei mai a pensare di partire per qualche gara. Per fortuna adesso non ce ne sono, per fortuna adesso posso stare qui con loro». Davide Formolo era alla Vuelta a Espana fino alla penultima tappa, se è tornato un giorno prima è stato perché voleva vederla nascere la sua bambina: «Tre giorni prima di partire per la Vuelta, il ginecologo ci aveva detto che la bimba era ”bassa” e sarebbe nata entro dieci giorni. Mi aspettavano tre settimane di Vuelta; il mio lavoro è importante ma come puoi perderti la nascita di un figlio? Non c’è nulla che valga tanto. Sono stato abbastanza agitato in questa Vuelta: appena finiva la corsa correvo ad accendere il cellulare, controllavo se c’era qualche messaggio di mia moglie. Lo stesso facevo nel pieno della notte o al mattino. Pensavo di trovare una foto sua con la bimba, pensavo che non sarei mai riuscito a tornare in tempo. Poi c’è questa situazione, quella legata alla pandemia, e i voli sono bloccati: per tornare a casa da Madrid ho dovuto fare scalo ad Amsterdam e poi a Nizza. Non ce l’avrei mai fatta ad essere a casa in tempo, ma volevo perdermi meno tempo possibile di mia figlia. Invece lei mi ha aspettato. C’ero anche io quando è nata».

Davide Formolo è un mulino di parole, a volte squillanti, a volte increspate dall’emozione: «In questi giorni ci stiamo scoprendo a vicenda. Per noi è la prima volta e non sappiamo tante cose. Ma anche per Chloe sono i primi giorni. Ha un pianeta da scoprire, per lei è tutto nuovo. È bello stare ad osservarla». Davide che è cresciuto in Valpolicella: «Fossi rimasto nelle mie terre, forse avrei fatto il contadino. Sono cresciuto lavorando la terra, con mio nonno e mio zio. Dopo la scuola, al pomeriggio andavo nei campi. Però, appena avevo un momento libero prendevo la bici e via, pedalare». Il legame con papà Livio è un legame fatto di tutte quelle cose che hanno condiviso. «Mi accompagnava a nuoto, andavamo assieme in bicicletta o a camminare nei boschi. Ha sempre tenuto al fatto che facessi sport perché gli piaceva vedermi mentre mi divertivo. Il Giro d’Italia? Ma io fino a diciassette, diciotto anni nemmeno sapevo cosa fosse il Giro d’Italia. Ho iniziato a correre, sono arrivati i risultati e va bene così ma io non mi sono avvicinato alla bicicletta per quello. Adesso che abito al mare, per esempio, non vedo l’ora venga il momento di immergermi con la tuta da sub. Lo devo a papà, a tutto quello che mi ha fatto scoprire». Racconta di essere testardo, nella vita come nel lavoro: «Può essere un bene o un male. A scuola ricordo che dividevo le materie fra quelle che mi interessavano e quelle che non mi interessavano. Delle prime sapevo tutto, delle seconde nulla. E potevano così dirmi che non era giusto, io andavo avanti per la mia strada. Sai quante volte, magari in prossimità di una gara, non guardavo più i libri e pensavo solo a correre?».

Correre, già. «Questa situazione non mi spaventa per il ciclismo. Il fatto di aver portato a termine questa stagione deve rassicurare; se ce l’abbiamo fatta quest’anno, possiamo farcela sempre. Le bolle hanno resistito, siamo stati messi nelle condizioni di lavorare al meglio. Questa situazione mi spaventa per gli sponsor che saltano, per le squadre che chiudono, e per tutte le persone che rischiano il lavoro. Ma il ciclismo è forte, il ciclismo resiste. Dobbiamo crederci di più. Questo sì”. Il ciclismo è forte ma non solo: ”Penso a Tadej Pogačar: lui vive tutto con la spontaneità di un ragazzo di vent’anni. Il ciclismo è cosa semplice, alla fine. Dobbiamo solo spingere due pedali. L’importante è fare il massimo e spingere al meglio su quei pedali. Cerchiamo di non appesantire le realtà che viviamo: lavoriamo bene e, quando possibile proviamo a dare spettacolo. Le persone lo meritano ed è giusto farlo. Però anche loro devono capire una cosa. Quando sono in gara mi concentro sulla corsa e non mi accorgo molto di quello che accade intorno. Tuttavia ci sono tanti tifosi che vengono a sbraitarti nell’orecchio mentre sei a tutta e questo non fa molto piacere. Anche adesso: rispettiamo le distanze di sicurezza, è importante per tutti. Si tornerà alla normalità ma sforziamoci di fare ciò che è necessario, per ora».

Il giorno più bello per Davide Formolo, da quando è atleta, è uno di quei giorni di cui si non si parla neanche tanto rispetto ad altre sue vittorie: «L’anno scorso ho vinto al Catalunya. Eravamo in ritiro da tanto e saremmo tornati in altura dopo quei giorni. Per me non era un momento facile, così ho chiesto alla squadra se mia moglie fosse potuta venire con noi. Bene, quel giorno io vinsi proprio nei momenti in cui Mirna arrivava in aeroporto a Barcellona per ripartire con la nostra squadra. Sono quelle coincidenze strane, tanto belle quanto rare. Riprovassimo, qualcosa del genere, non accadrebbe più». E al giorno in cui si ripartirà per le gare, Davide Formolo pensa mai? «Nella mia vita ho imparato a ragionare per priorità e necessità. Quando parto mia moglie mi manca, la bambina mi mancherà tantissimo, ma la vita da atleta dura poco e bisogna dare tutto affinché sia la migliore possibile. Ho scelto io questa vita, devo onorarla. Poi si torna a casa e la famiglia è qualcosa di unico ma bisogna ripartire. Anzi, bisogna sgommare, come dico io. C’è ancora tempo e questi attimi mi piacciono troppo per pensare ad altro».

Foto: Claudio Bergamaschi