Qualche volta, in ritiro, nei giorni di riposo, Elisa Longo Borghini permette alla fantasia di spaziare. Ultimamente le capita spesso di immaginare una fuga, una fuga impossibile, una di quelle fughe che, come dice lei, si possono solo pensare e mai mettere in pratica, soprattutto quando si è Longo Borghini. Lei le chiama “fughe ignoranti”, dove l’aggettivo si richiama alla follia e, quindi, alla bellezza: «Penso ad uno scatto dopo dieci chilometri di una tappa del Tour de France, su uno strappo su cui nessuno farebbe mai nulla. Quelle fughe che fanno esplodere il gruppo, con atlete da ogni parte. Se facessi qualcosa di simile, giustamente, dalla radio mi chiederebbero spiegazioni. Non accadrà, ma, qualche volta, vorrei essere nei panni delle atlete più giovani che queste cose possono permettersele». Un pensiero di questo tipo e dall’altra parte il mare, come ieri.
Solo un pensiero perché nei giorni di riposo, Longo Borghini, negli anni, ha imparato a non toccare proprio la bicicletta, ma non è stato facile, a causa di quel senso del dovere che, tempo fa, le faceva pensare che non si potesse, che non fosse giusto. «Facevo troppo» ci dice e la frase riassume molti momenti. Per esempio, il 2017, il mondiale di Bergen, l’overtraining, le cose che non vanno e un pensiero che si affaccia: «E se fosse finita qui? Se fosse il momento di smettere?». Ha sempre saputo che la vita di una sportiva ha un termine e, in fondo, si è sempre ripetuta di essere pronta ad accettarlo, semmai spera di capirlo prima, che non sia uno stop forzato, ma una consapevolezza che arriva, una scelta, non un’imposizione «perché se non sei tu a scegliere, è molto più difficile farsene una ragione, ma, comunque, ci sono altri capitoli, altre pagine». Così, a quella domanda, nel 2018, ha provato a rispondersi sinceramente e sarebbe stata pronta a scendere di sella, se avesse sentito che al ciclismo non poteva più dare il 100%: «Preferisco non iniziare nemmeno se so che non posso essere totalmente in quello che sto facendo. È una questione di rispetto: per me stessa e per ciò che faccio».
Fino a una telefonata, quella di Luca Guercilena che le proponeva un progetto in Trek Segafredo. Elisa ascoltava le parole di Guercilena, rispondeva e, intanto, pensava: «Perché mi vogliono? Perché vogliono proprio me? Non è la mia stagione, non è il mio momento».
Ha risposto subito di “sì”, ha firmato quel contratto, quanto ha vinto lo sapete, lo sappiamo, ma, a distanza di anni, in un pomeriggio di gennaio, Longo Borghini pensa soprattutto a quanto, nella sua carriera, l’aiuti la consapevolezza che qualcuno ci crede, che qualcuno ti crede, come Luca Guercilena in quel momento. Tornando indietro nei ricordi, pensa che una delle prime volte in cui questo fatto ha avuto importanza è stato nel 2013, quando ha vinto il Trofeo Binda, la prima volta, l’ultima, invece, è di due anni fa. C’erano già dei risultati importanti, ma lei voleva la certezza che il ciclismo potesse essere il suo lavoro, così ha parlato ai genitori: «Datemi due anni, tre anni al massimo. Provo a diventare una ciclista e, se non riesco, mi rimetto sui libri». C’era un corso per interpreti in Università Bicocca, Elisa Longo Borghini ricorda di aver cercato informazioni a proposito, per essere pronta. In ogni evenienza. Non è servito perché, poi, il Trofeo Binda l’ha vinto.
«Quando dicono che il primo a credere in quel che vuoi fare devi essere tu, è vero. Ma da soli non ce la fanno neppure i campioni. Anche i campioni hanno bisogno di sapere che per i propri genitori possono riuscirci, che per la propria famiglia possono riuscirci. Restare soli a vedere un sogno è davvero troppo». Anche perché la crepa dei dubbi, del timore di non essere all’altezza, può arrivare anche in corsa e basta poco. Bastano quelle voci confuse dei tifosi che sembrano solo un insieme di suoni che nessuno distinguerà mai, invece, si colgono nettamente: «Quando sei al massimo dello sforzo, tutti i sensi si acuiscono, qualunque sensazione si esaspera. Vale anche per l’udito. Soprattutto quando ti stacchi, quando sei in fondo al gruppo e le altre se ne vanno. Certe parole sono come sberle involontarie: “Guarda, Longo Borghini è staccata” oppure “Longo Borghini è in crisi”. Le senti e ti dici che non è possibile, che non puoi non farcela, che non puoi non essere all’altezza. Voglio dire: ha importanza ciò che senti a bordo strada e io alcune volte ho reagito proprio per qualche voce sentita lì. Dietro tutta l’epica, alla fine, ci sono solo esseri umani e gli esseri umani cercano anche queste cose». Intanto i vestiti per l’allenamento del giorno dopo sono pronti sul letto e la bicicletta è in garage.
Proprio in quel momento, a Longo Borghini viene in mente che non l’ha ancora lavata e, quando non c’è gara, la lava sempre. Spiega che è una pratica che l’aiuta anche a pensare, a riflettere. Si tratta di un’abitudine che risale ai tempi del team Top girls Fassa Bortolo. Lucio Rigato, il suo direttore sportivo, aveva un assioma: bici pulita, atleta pulito, maglie pulite, atleta pulito. Longo Borghini spiega meglio questo concetto: «Non è cosa da poco dire: questa è la mia bici. La maggior parte del tempo lo passo su questa bici, le devo rispetto come si deve rispetto al proprio lavoro. Faccio attenzione a non rigare il telaio e, per quanto sembri assurdo, mi infastidisce anche quando i meccanici la toccano troppo. Inizialmente non volevo la toccasse nemmeno Jacopo Mosca, il mio compagno. Poi ho capito che lui ha lo stesso approccio che ho io con la bicicletta e oggi può prendersene cura anche lui. Ma c’è voluto tempo. La bicicletta è una parte di me e con ciò che sento appartenermi sono molto riservata. Lo difendo».
Una bicicletta con cui gareggia, perché è il suo lavoro, una bicicletta che, in realtà, identifica come stile di vita, come modo per divertirsi, per farsi del bene. Dice che è questo l’importante e lo sintetizza con una frase di disarmante semplicità: «Se non ti diverti, cosa lo fai a fare? Talvolta bisogna divertirsi seriamente, tutto qui». Oggi, al Teide, riprendono gli allenamenti e il mare è più lontano.
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