Non è stata una stagione facile per Giulio Ciccone. Ma il ragazzo di Chieti è rimasto quello che abbiamo conosciuto anni fa: «Se dovessi trovare un modo per raccontarti come vivo il mio mestiere partirei da quel ragazzino che girava per Chieti con la sua bicicletta rossa e aspettava impaziente che i genitori gli comprassero una sella nuova, un tubolare particolare, un nuovo pezzo per quella bicicletta. Ricordo ciò che sentivo quando aprivo quei pacchetti e tutti i progetti che facevo. Bene, oggi accade la stessa cosa: appena c’è una novità per la bicicletta, ho la stessa curiosità, la stessa forma di entusiasmo». In realtà, Ciccone ha lasciato Chieti quando aveva solo diciotto anni e forse anche per questo è rimasto così legato a quei luoghi.
«Quando vai via presto succede sempre così. C’è un richiamo costante per tornare perché, in fondo, ti mancano le sensazioni che ti dava la tua terra e ti manca la quotidianità della tua famiglia. Il fatto di fare il ciclista accresce tutto questo perché appena arrivi a casa le persone ti cercano». Dice che lo ha salvato il fatto di restare grintoso e genuino come è la terra d’Abruzzo, in fondo, quella terra che torna a scoprire negli allenamenti: «L’allenamento perfetto è quello che tocca mare, colline e montagna. Se riesco a salire a Passo Lanciano, sono felice». Poi c’è il carattere: «Anche da quel punto di vista non sono cambiato e credo non cambierò mai: non so essere distaccato da ciò che vivo. Sono come tutti mi vedono, com’ero già da ragazzo».
È così anche se parla delle difficoltà della stagione trascorsa. «Al Giro ero soddisfatto perché stavo facendo bene al primo anno in cui provavo a far classifica. Quando sono caduto a Passo San Valentino e ho pagato dazio a Sega di Ala, ero deluso, ma vedevo il bicchiere mezzo pieno. In fondo, era stata la sfortuna a bloccarmi». Ciccone racconta che questa sensazione l’ha avuta per qualche tempo: arrabbiato con la sfortuna, però sereno perché con quello che aveva dimostrato la stagione lo avrebbe ripagato.
«Purtroppo, non è stato così: alla Vuelta un’altra caduta mi ha tolto di mezzo. È stato il momento più difficile di tutto l’anno perché a quel punto mi sono reso conto che non avrei più potuto fare nulla e la stagione stava finendo. Farsi male quando non ci sono più opportunità per rialzarsi è la cosa peggiore che possa succedere». Non è tipo da lamentele, Giulio Ciccone, anche perché sa sin troppo bene che lamentarsi non serve. Per esempio, rifiuta la nostalgia di ciò che è stato e del modo di vivere il ciclismo nei primi anni da professionista.
«Le cose cambiano perché passano gli anni e cresci. Ho sempre vissuto il ciclismo in maniera seria, anche quando avevo otto anni ed era solo uno svago. Volevo divertirmi seriamente, non so se mi spiego. Le pressioni che aumentano ti fanno gareggiare in maniera differente e vivi anche gli allenamenti diversamente, nei primi anni sei più leggero. Non ho nostalgie però vorrei dire a tutti i giovani che si affacciano al ciclismo di non avere fretta di crescere. Mi sembra che spesso abbiano troppa fretta di assomigliarci. C’è tempo, è inutile prendere la rincorsa». Suo padre gli ha sempre detto che avrebbe potuto fare qualunque cosa nella vita e, se avesse scelto il ciclismo, lo avrebbe aiutato ma «prima si finiscono le scuole». In Colpack il passaggio decisivo, perché lì ha capito che quella bicicletta stava davvero diventando un lavoro.
Nelle difficoltà che ha vissuto Ciccone nell’ultimo anno, un punto saldo è stata la famiglia che per lui è un concetto ampio. «Per me sono famiglia anche gli amici, le persone che ti sono spesso vicine e che ti conoscono bene. Quando le cose non vanno, la famiglia ne viene toccata per forza. Come atleti siamo fuori casa molti giorni all’anno e abbiamo bisogno di un punto saldo, per questo, nonostante la lontananza, tutto ruota attorno alla famiglia».
Da scalatore non resiste al fascino del Mortirolo, non solo perché lassù ha vinto, ma perché quella salita più di altre lo fa sentire a proprio agio. C’è anche una grande classica, però, nella testa di Ciccone: «Ho corso solo una volta la Liegi-Bastogne-Liegi e l’ho fatto con freddo e pioggia, vorrei ritornarci». Col tempo, chissà.
Ora, qualche giorno per staccare e poi pensare al 2022: «Non chiedo molto: vorrei solo avere una stagione libera da fattori esterni che la condizionino. Le prestazioni, secondo me, ci sono. Un po’ di tranquillità e ci divertiremo».