Aldo e Francesco. Come tutti i loro fratelli, ben dodici, e come tanti altri ragazzi. Almeno fino ad un certo punto, ma forse anche dopo. Insieme a Palù di Giovo, anche negli inverni in cui c’era più neve che anime in città. Oggi sono poco più cinquecento gli abitanti di questa frazione in provincia di Trento e, non fosse che per il silenzio di certi giorni, Palù di Giovo è come tante altre città. Non sappiamo quanti abitanti ci fossero negli anni sessanta del novecento, ma non abbiamo difficoltà a immaginarci le strade di Palù in quegli anni. Non abbiamo difficoltà a figurarci lo stupore raccontato da Francesco Moser in questi giorni, quando Aldo, il fratello maggiore, tornava a casa in ammiraglia: «Non eravamo abituati. In queste vie passavano solo i carri trainati dai buoi o dai cavalli». Si vedevano poche macchine, l’ammiraglia era quasi un mezzo futuristico. Non solo per i fratelli minori in casa Moser ma per tutti coloro che affacciandosi alle finestre vedevano quest’auto così diversa parcheggiare in città. Qualcosa che assomigliava alle speranze di un futuro diverso anche per i più poveri. Qualcosa che somigliava a un domani in una grande città e a un lavoro che potesse riscattare un passato difficile. Per i più giovani ma anche per i più anziani che in quel domani ci avevano creduto ed erano stati delusi sin troppe volte.
Francesco e Aldo come tutti quei fratelli che si divertivano assieme nei cortili e per le strade e poi si fermavano a mangiare un panino appoggiati a un muretto, magari con i pantaloncini corti e le ginocchia sbucciate. A fianco un piccolo podere di famiglia, il primo, e il cimitero del paese. Aldo che è del 1934, Francesco del 1951. Aldo che diventa uno sportivo importante mentre Francesco sta ancora crescendo. Francesco che sente ciò che tutti dicono di suo fratello ed è certo di essere fortunato ad avere un fratello così. E si parla a voce e a testa alta di un fratello maggiore così e quell’aggettivo possessivo si acuisce di tutto quello che, ora più che mai, appartiene ai Moser: grinta, dignità, orgoglio. Gente di poche parole e di tanta concretezza perché in quegli anni non potevi che essere in questo modo per poter sperare di farcela. Quando Aldo torna dal Giro d’Italia del 1969, guarda Francesco e glielo dice. Gli dice: «Ma perché non provi anche tu? Dai, prova anche tu». In quelle tre settimane in giro per l’Italia era andato tutto bene e Aldo aveva capito che il ciclismo poteva avere lo stesso volto di quello sperare e credere in quel paesino che gli aveva dato i natali. Dovevi fare fatica, certo. Ma non l’avresti fatta fra quella terra? La terra è sincera, ti restituisce crudamente ciò che dai. In questo assomiglia alla bicicletta. Entrambe non possono mentire.
Francesco che quel giorno si sentì scelto e probabilmente pensò quello che pensiamo tutti quando qualcuno ci sceglie: «Davvero credi io possa farcela? Pensi davvero io sia come te?». Fiero perché Aldo era, ed è, il suo modello e pensare che, in fondo, quel fratello maggiore lo immaginava così simile a lui non poteva che farlo felice. E Aldo faceva lo stesso che fino a qualche anno prima aveva fatto Francesco: ne parlava con gli amici e con i colleghi. Li portava a vederlo correre e diceva: «Certo che il mio fratellino corre davvero forte. Guardalo». Lui che aveva scalato il Bondone sotto una nevicata degna di questi giorni, ma era giugno. Era l’8 giugno del 1956 e, per oltrepassare i massi di neve, la bicicletta la si prendeva pure in spalla. Mentre qualche direttore sportivo faceva ritirare i suoi atleti perché “non aveva più senso”. Forse molti gli avrebbero semplicemente detto: «Non gasarti troppo. Dovrai vederne di cose». Lui si stupì e lo disse a tanti. E noi siamo certi sia stato meglio così.
Non sappiamo cosa Aldo abbia detto a Francesco, quando lo vide tornare a casa in maglia rosa dal Giro d’Italia del 1984, quel Giro che Francesco Moser vinse. Non sappiamo, ma ci piace immaginarlo, come Aldo Moser vivesse la rivalità Saronni-Moser. Come si gustasse le corse in televisione e cosa dicesse, al telefono con Francesco, di “quello là”. Chissà come lo chiamava. Chissà cosa si sono detti in quell’ultima passeggiata assieme. Chissà che aria c’è oggi a Palù di Giovo. Forse qualcuno guarderà fuori dalle finestre, poi cercherà con lo sguardo un bambino e gli dirà: «Vedi quel parcheggio? Lì, tanti anni fa, c’era l’ammiraglia di Aldo Moser…».
Foto: Aldo Moser al Trofeo Baracchi 1956