Il gruppo, tra Riccione e Cento, assomiglia alla Romagna. Intendiamo dire che, più di altri giorni, forse, il plotone è casa e trasmette sensazioni simili a quelle che si possono vivere su una spiaggia romagnola, mentre qualcuno, nella realtà o nel ricordo, disegna la sabbia con piste, paraboliche, inganni, trabocchetti, salite, discese, poi mette la mano in un secchiello, tira fuori le proprie biglie, le fa scorrere, simili a pianeti, fino a scoprire chi vince. In quegli “specchi” rotanti, i volti degli atleti, dei campioni che un gruppetto di ragazzini sognavano di essere, sognavano di essere e, per qualche ora, erano, quasi una magia teatrale, la finzione più bella, perché è realtà. “Semplice”, il gruppo, in giornate così: si può fare “ciao” alle persone a bordo strada, persino alle telecamere, magari accompagnandolo con una faccia buffa, all’unisono con un compagno di squadra. Si mangia un boccone, un minuscolo panino, con più tranquillità, lasciando che il sapore accarezzi le papille gustative. Anche lo scherzo e la risata fanno parte di giorni simili, il divertimento, la capacità di divertirsi, altra essenza di questi luoghi. Di ballare, ad esempio.
La Riccione-Cento è un liscio, a proposito di balli e gioia, perché non c’è un rilievo, un’increspatura nell’altimetria, solo qualche cavalcavia, magari non lontano da una ferrovia ed è in tappe come queste che i “treni” fanno parte del ciclismo. In tappe che presentano come tracciato “un percorso piatto come una tavola di biliardo e diritto come quello dell’Orient Express” per dirla con Marco Pastonesi, quando scriveva di Ercole Baldini, il campione di Forlì, con “il suo motore umanamente romagnolo”. La Riccione-Cento è una giornata di primavera che tende all’estate, con i campi verdi, macchiati dal rosso di qualche papavero, e un’aria limpida, un cielo sgombro, sull’asfalto, a tratti, l’effetto Fata Morgana, un miraggio: lontana di un anno l’alluvione, il fango non c’è più, perché le strade, con fatica, si possono pulire, ma non ci sono più nemmeno tante persone e tante altre cose, piccole e grandi. Resta invece il ricordo, la memoria, la paura, quando la luce cambia e le nuvole ritornano. Sarà perché quel che succede non passa mai del tutto, almeno dentro.
Manuele Tarozzi è di Faenza: parla velocemente, sin troppo, a volte, con la musicalità delle parole declinate qui, e dice che ama solo le fughe che arrivano perché “non sarà mica bello essere ripresi sulla linea del traguardo”. Aggiunge che va in fuga per vincere, non per provare. Uno deciso, Tarozzi. Ha qualche dubbio solo a tavola e non saprebbe scegliere tra cappelletti e piadina, “il pane, anzi il cibo nazionale dei Romagnoli”: la vorrebbe anche al rifornimento. Il caffè, invece, sempre. Uno deciso, Tarozzi, tanto che parte lancia in resta, con il compagno di squadra Alessandro Tonelli e con Andrea Pietrobon. Il gruppo, se lo vede, lo osserva solo da dietro per più di cento chilometri: lui vedeva così De Gendt, agli inizi, e quando se l’è trovato davanti, le prime volte, è rimasto sorpreso perché, tutto sommato, “fisicamente mi somiglia pure, lo facevo più alto, più piazzato”. In chi va in fuga si mette sempre un pizzico di eroismo, di romanticismo, per cui diventa, in ogni caso, di più. Non importa cosa o quanto, ma di più. Oggi Manuele Tarozzi ha fatto un’eccezione: è scattato più per provare che per vincere, per arrivare nella sua città davanti al gruppo, in fuga, con quel “di più” che dicevamo.
I treni delle tappe per velocisti sono quelli che cuciono la volata, vestito dello sprinter, ma sono anche quelli che affrontano il vento, i ventagli, che proteggono i velocisti, fanno da scudo e da “corda” a cui aggrapparsi per resistere o per rientrare, per attaccare, anche. Jonathan Milan che, per qualche istante, da solo affronta il vento per tornare in gruppo, dopo l’azione della Ineos che l’ha trovato nel secondo gruppo, staccato, è un treno ad un vagone, ad alta velocità però. L’inquadratura si allarga, l’effetto è quello di quando, seduti in treno, parte il treno accanto e si ha la sensazione di muoversi a propria volta, mentre è un’illusione. Che forza, quanti watt, che potenza sviluppa il ragazzone friulano. È un antipasto. Sessanta chilometri dopo, quando il gruppo si scatena e inghiotte curve e cambi di direzione, le sue gambe avranno già recuperato lo sforzo. Simone Consonni, dopo aver svolto il suo lavoro, lo lascia partire sulla scia di Fernando Gaviria che prova ad anticipare la volata. Si rialza, Consonni, e, allungando leggermente il collo, osserva la scena da dietro.
Vedrà il casco di Milan, la testa, continuamente scossa, quasi anche lei imprimesse velocità alla bicicletta, qualche tratto di ciclamino nei movimenti frenetici dello sprint, un tratto impressionista, nulla più. Frontalmente non è solo Milan ad alzare le braccia, ma anche Consonni, l’ultimo uomo. Jonathan Milan dirà poche parole, soprattutto “grazie”, alla squadra. Glielo abbiamo sentito dire molte volte, sempre intriso di timidezza e di umiltà. Tra Riccione e Cento, l’ha detto ancora, un’altra volta. Le biglie si raccoglieranno dalla spiaggia, qualche signora su una vecchia ed elegante bicicletta di famiglia tornerà a casa. Domani sapremo il resto.
Foto: SprintCyclingAgency