Nelle “Postille a Il Nome della Rosa”, uscite in un’edizione successiva del romanzo e divenute tanto celebri quanto il libro stesso, Umberto Eco rivela tante cose sulla creazione del suo capolavoro. Tra tutte, ogni volta mi colpisce il singolo motivo scatenante, uno solo, per la realizzazione del libro: «Avevo voglia di avvelenare un monaco». È una frase di una semplicità disarmante se messa a confronto con la complessità del libro e i vari livelli di lettura cui si presta: proprio questa discrepanza tra il nocciolo della questione e il risultato finale mi pare la caratteristica fondamentale delle corse a tappe di tre settimane.
La Bra-Rivoli è stata, per fare un paragone piemontese, l’impasto di cacao e zucchero che avvolge la Tonda gentile: molto buona e gradevole, ma non del tutto cruciale, perché ciò che vuoi addentare sta al centro. «Il resto», dice sempre Eco nelle Postille, «è polpa che si aggiunge strada facendo». E così la corsa è transitata ai piedi di un luogo echiano come la Sacra di San Michele, ma gli uomini da classifica generale, temendo forse il veleno sugli angoli delle pagine, non hanno voluto aprire il libro della guerra.
Oggi, forse, una sbirciata al finale del romanzo riusciremo a darla. Per la verità, non è ancora successo che uno dei contendenti al podio finale sia uscito di scena per hybris, per voglia di conoscere il contenuto misterioso non di un libro rarissimo ma delle proprie gambe. Alcuni sono usciti di scena causa malattia (Evenepoel, Vlasov, Uran), altri per sciagure di varia entità (Geoghegan Hart, Vine): tanti vorranno tenere le proprie carte in mano, giocare sulla difensiva, cercare di rimanere fuori dai guai. Come insegna il Nome della Rosa, non è sempre la strategia corretta.