Cosa può significare stare ventiquattro ore in sella a una bicicletta? Cosa senti dopo dieci o venti ore a pedalare? Fin dove arriva l’acido lattico e quanto tira ogni singola fibra dei muscoli? Qual è la linea di confine tra il piacere, il dolore e la resistenza? Christoph Strasser, trentotto anni, tra il 16 e il 17 luglio, presso la base aerea di Hinterstoisser a Zeltweg, in Austria, è stato raggomitolato su una bicicletta per ben ventiquattro ore, sotto una pioggia battente, ed ha percorso 1026,2 chilometri alla media di 42,75 km/h, stabilendo il nuovo record mondiale. Strasser è stato il primo ad andare oltre i 1.000 chilometri in questa prova. E non si fa per dire, perché, a conti fatti, Strasser ha davvero pedalato 24 ore, solo due minuti di inattività, quelli del cambio gomme.
Strasser non è nuovo a prove di questo tipo. Dopo aver corso la Race Across America, nel 2011, aveva provato a stabilire il nuovo record del mondo di distanza nelle 24 ore a Berlino in Germania e ce l’aveva fatta, ma non era del tutto soddisfatto perché non aveva raggiunto il suo obiettivo, all’epoca 900 chilometri. Era tornato a provarlo in pista, in Svizzera, per avere le condizioni ottimali, e c’era riuscito, per la seconda volta: 941 chilometri, sempre, però, lontano dai mille. Ma c’era il suo allenatore a dire che era possibile andare oltre ai mille chilometri e che lui era l’uomo giusto per farlo.
Quel giorno di luglio era tranquillo, perché il suo tentativo ufficiale sarebbe stato mesi dopo, in Colorado, in fin dei conti quella era solo una prova per verificare a che punto fosse la sua preparazione. Le prime ore sono sempre le più difficili perché la posizione aerodinamica che sei obbligato a tenere per aumentare la velocità crea dolore ovunque; Christoph lo sa, dopo le prime due ore andrà meglio, bisogna proseguire e tentare di non pensarci: «Quante volte può capitare qualcosa del genere nella vita di un atleta? Quando pensi di mollare devi ricordarti che potrebbe non succedere più, perché certe possibilità non ritornano».
Anche il circuito sembra fatto apposta per portare fuori velocità: pianeggiante, 7,58 chilometri a tornata, curve veloci. La parte più difficile è forse quella più affascinante: “pedalare attraverso la notte” come dice lui. Non c’è particolare segnaletica e talvolta, nelle curve, le ruote vanno a toccare la parte di brecciolino a bordo strada. E Strasser si mangia le mani: «Perderai trenta secondi per volta ma è molto fastidioso». Quanti metri potevano starci in quei secondi?
La pioggia che cade è come il tempo. Quando le gocce si fanno più dense, più fitte, pensi di non farcela, poi l’acqua rallenta e tu riprendi a sperare. Solo alla fine è diverso, perché come il traguardo si avvicina quasi non senti più la pioggia e quel tuo body inzuppato che ti rallenta, che pesa come non mai. Non puoi mangiare, così tutto l’apporto energetico lo trai da ciò che bevi. E continui, senza pensare, spingendo solo sui pedali.
«Quando ho passato le ventitré ore ero sfinito, ma come ho oltrepassato i mille chilometri tutto ha lasciato spazio alla felicità». Il luogo è particolare perché a pochi chilometri da lì c’è il posto in cui Strasser ha provato il primo record sulle ventiquattro ore, soli, si fa per dire, 400 chilometri, l’inizio di tutto. Un cerchio che si chiude o che si apre e fa spazio a tutto ciò che può ancora accadere. Ad attenderlo ci sono circa trecento persone che restano lì nonostante la pioggia in una pazza giornata d’estate. Lui arriva, scende di bici, guarda verso il cielo, quasi a sciacquarsi il viso dal sudore con quell’acqua. Sorride e scherza: «Dopo questa giornata, penso che abbandonerò il ciclismo». Strasser ce l’ha fatta, il suo allenatore, tanti anni fa, aveva ragione.