Ogni giorno, a ogni tappa, c’è in moto la sofferenza. Ogni mattina ci si sveglia, un piede giù dal letto, poi un altro. C’è chi è ferito e va avanti, nonostante tutto; chi è motivato, chi sente qualche dolorino, chi sta bene, chi mente, chi guarda avanti e sa che ci sono ancora venti giorni in quel gran casino che è una corsa a tappe di tre settimane. Chi si guarda indietro è perduto.

Ogni giorno si pensa ai sacrifici che si fanno – ciclofachirismo – poi bum, basta un attimo. Si analizza e si racconta come per un ciclista il dolore provocato da una caduta non sia mai un’esperienza nuova, ma una riscoperta. Il prezzo da pagare per diventare corridori. E così che si cade e ci si rialza, tremenda quanto ingiusta metafora dell’esistenza. Tremendo quanto ingiusto meccanismo di uno sport che a volte appare maledetto.

Si cade e si sbatte sull’asfalto, c’è il casco sì, per fortuna, ma le ossa del corpo scricchiolano ugualmente, poi si rompono. La pelle si brucia. Bum, basta un attimo.
Così oggi Thomas: stamattina raccontava ai giornalisti di avere sempre con sé alcuni talismani, ma Geraint, andiamo, la prima regola della scaramanzia è che non si rivelano mai gli oggetti che ci proteggono dalla malasorte. Oggi appena c’è stata la prima caduta è andato giù. Ci ha messo un po’ per rialzarsi, ha stretto i denti e poi il manubrio, poi è rientrato: chissà se ha pensato a quando ha rivelato ciò che lo protegge dalla cattiva sorte. O chissà, qualcuno dirà, forse è risalito in bici grazie proprio a quel rituale ormai non più segreto. Ci piace pensare come, dietro a un mondo ammalato di razionalismo, sia sempre viva l’influenza di qualcosa di magico che protegge, stimola, ti dà la giornata di grazia, ti fa alzare al mattino convinto, nonostante la sofferenza, nonostante se guardi davanti a te vedi ancora venti giorni di Tour. Quella magia che ti fa sognare, urlare, tifare, pedalare, rialzarti da ogni caduta.
Chissà a cosa si appiglia Gesink, pensando alla sua sofferenza, come quella di chiunque abbia perso qualcuno di caro, come chiunque abbia visto la sua carriera volare via da predestinato a incompiuto, a uno dei tanti. Oggi è caduto e si è ritirato mentre sognava di passare da casa sua (vive a El Tarter, Andorra, dove passerà il Tour più avanti) per salutare suo figlio. Era raggiante, magicamente illuso. E invece oggi è caduto, mentre domani si ralzerà come ha già fatto quando si ruppe le gambe. Quando subì un trauma cranico, e poi vinse quando nessuno se lo aspettava più.
E non c’è rito a cui attaccarsi per Roglič: è un attimo anche per lui quando si arrota con Colbrelli. In una frazione di decimi la sua corsa può essere svanita – un pugno assestato dispettoso, dove fa più male. Lo scorso anno c’è voluta una cronometro, oggi l’incontrollabile: le maledette cadute, di uno sport, che ti illude e poi manda tutto in frantumi.

E poi si cade ancora e ancora, vanno giù Haig e Démare, Pogacar resta in piedi per miracolo, e poi in volata – vince Merlier – un’altra caduta: Ewan stavolta, il suo Tour è finito.

C’è qualcosa di magico, di incontrollabile, di maledetto nel ciclismo. È un attimo: la sofferenza è in moto e non si ferma. Domani ci si rialzerà, feriti, ma guardando avanti. Nonostante tutto.