Parola di Haruki Murakami: «Quando la tempesta sarà finita, probabilmente non saprai neanche tu come hai fatto ad attraversarla e a uscirne vivo. Anzi, non sarai neanche sicuro se sia finita per davvero. Ma su un punto non c’è dubbio. Ed è che tu, uscito da quel vento, non sarai lo stesso che vi è entrato». Per Taylor Phinney quel vento è dietro una curva della discesa di Lookout Mountain, all’altezza del chilometro quarantacinque di corsa dei campionati nazionali statunitensi in linea. Dietro una curva qualunque, di un qualunque giorno di maggio, di un qualunque lunedì, in una discesa come tante altre, a Chattanooga, in Tennessee. Forse Phinney, quel 26 maggio 2014, aveva sentito dire da Murakami che, in fondo, scendere è sempre più difficile che salire. E probabilmente ci aveva anche creduto, astrattamente, non in quel momento. Perché la discesa ti inganna con la velocità, col respiro che è quieto, con le ruote che scorrono veloci e i copertoni che inghiottono la strada. La discesa ti inganna raccontandoti che manca sempre meno e con la sua follia mancherà sempre meno. La discesa ti fa sentire più vicino all’arrivo. A ciò che vuoi.
Basta un attimo, un secondo nato storto e, disteso a terra come sacco abbandonato, là, accanto a un guard rail, non riesci a immaginarti più nemmeno l’idea del movimento. La gamba è distrutta, la tua gamba sinistra è in frantumi. Più giù non puoi andare, non riusciresti nemmeno a rotolarti a valle con la forza della disperazione, più su non riesci nemmeno a guardare. Senti solo la scia delle altre biciclette che passano e ti sfiorano mentre i soccorsi provano a metterti in sicurezza prima di portarti via. Chiudi gli occhi perché quando hai dolore, hai la sensazione di sentire con ogni parte del corpo e tenerli chiusi ti illude di stordire il male. Per lo stesso motivo stringi i denti, serri le mani, magari le batti sull’asfalto. Sembra non passare più. Vorresti solo ti levassero quel male e potresti sopportare tutto. Forse lo chiedi anche: «Toglietemi il male, non mi interessa più di niente».
Il male, poi, si attenua. Perone e tibia sono polvere di ossa, il tendine della rotula è reciso: la chirurgia mette una pezza. Te lo ricorderai sempre quel taglio. Lo sentirai passandoci le dita, lo vedrai perché sarà sempre più chiaro della pelle circostante, la stanchezza si infiltrerà in quel pugno di muscoli e ti ricorderà che è tutta apparenza, una parte di te l’hai già buttata via.
I medici lo dicono chiaro e tondo a Phinney: «Riprenderai in mano la tua vita e sarà una vita normale. Dovrai cercare un altro lavoro, però: non potrai più fare il ciclista». È la seconda botta, inflitta mentre la prima fa ancora male. TI dicono che devi lottare per la normalità ma la tua normalità non c’è più. Te l’hanno tolta senza chiederti il permesso, senza una prova o una sentenza. Te l’hanno tolta dicendoti che “non è più possibile”.
La mamma di Taylor Phinney, Connie Carpenter, dice ancora oggi a Kasia Niewiadoma, fidanzata di Taylor, che quando si va in fuga bisogna guardare solo davanti, che del gruppo che insegue non deve importare nulla. Papà Davis ha lottato contro il Parkinson e ha capito una cosa: la ricerca è importante, fondamentale, ma il passo decisivo può venire dalle parole. Da ciò che si dice e si trasmette. Per esempio dal sapere, perché te lo hanno detto o perché lo hai letto, che vivere bene col Parkinson è comunque possibile. Phinney riparte prima di ripartire. Forse è l’unica possibilità per non impazzire: inizia a leggere, a studiare, conosce l’arte, sperimenta la pittura. Si rialza in quel momento Taylor e quando tutti lo vedono in piedi lui è già oltre, è già diversi passi avanti.
Da atleta era abituato a governare il suo corpo, a forzarlo, a fargli fare ciò che voleva, quando voleva. Ora deve scendere a patti con la propria carne. Non può fare nulla senza che il corpo non sia pronto, non può imporre tempi e ritmi. Deve ascoltare un tempo che non è più suo pur essendo fin troppo dentro di lui, nelle sue cellule. Quando riprende a pedalare lo fa assieme a Lachlan Morton e Cameron Wurf, lo fa per dirsi che è ancora capace, che ci riesce ancora. Non pensa a nulla di quello che di lì a breve accadrà. Taylor Phinney tornerà a correre fra i professionisti e sarà nuovamente quello di prima. Quello che una discesa aveva ribaltato ma non fermato. Quello che mamma e papà avrebbero sempre voluto.
Così simile a loro, così capace di declinare la vita a proprio modo, portandosi appresso il peso dei ricordi che diventa bagaglio per stare sempre meglio o per saper vivere anche stando male. C’è l’eco di Murakami qui. Sceglierà Education Drapac perché nell’educazione, nello studio, nella cultura, c’è il suo impegno e la sua promessa: quella di tornare sui banchi, questa volta per davvero, dismessa l’attività professionistica. Perché una parte della sua salvezza è lì ed è giusto tornare a trovarla. In fondo, il legame con ciò che ti salva è come il legame con chi ti tira una volata, ti accompagna in una fuga senza senso, o trasporta la tua barella in qualche corsia di ospedale. E Phinney, che oggi è un altro uomo, lo sa bene: «Può darsi che non sarai mai felice. Perciò non ti resta che danzare così bene da lasciare tutti a bocca aperta». Parola di Murakami, parola di Taylor Phinney.
Foto: Pentaphoto