Alcuni personaggi, decisamente più importanti di chi scrive, hanno provato a spiegare come, rispetto alla conclusione di un’avventura, sia più importante lo svolgimento della storia. Ad esempio, per Thomas Eliot: “quello che conta è il viaggio e non la destinazione”, e persino Einstein sosteneva come amasse viaggiare, quanto odiasse arrivare.

Cerchiamo parole di consolazione un po’ per noi, per la verità ampiamente ripagati da quel finale di Sonny Colbrelli che ancora ci pensiamo e non ci rendiamo conto, ma soprattutto per Gianni Moscon e quell’impresa sfiorata e accarezzata come i capelli profumati di un amore adolescenziale.

Usare una metafora parlando di amore e profumi dopo la gara di ieri appare un po’ azzardato, prendete Matteo Jorgenson – in fuga, poi a lungo col gruppetto di van Aert e poi immortalato in un fosso a espletare i suoi bisogni; parla di «Sei ore a mangiare fango e merda di vacca che mi hanno ribaltato lo stomaco. A volte la natura chiama e non si può fare altro che rispondere». Ma per un attimo abbiamo provato a uscire dal contesto.

E così che un pensiero Moscon lo merita. Se non altro perché è proprio questo il caso in cui vale più il viaggio (che poi un 4° posto alla Roubaix buttalo via) della destinazione. Più che l’emozione finale, uno dei punti è il crescendo e il misto di emozioni che abbiamo vissuto durante la sua prova.

Moscon che (forse) non ha espresso ancora del tutto il suo (enorme) potenziale: chissà che aver sfiorato la leggenda – perché di questo si sarebbe trattato – non gli dia nuova carica per una seconda parte di carriera che inizierà dal 1° gennaio 2022 in maglia Astana.

Ieri Moscon stava per realizzare qualcosa di enorme, e forse lo ha fatto. Partito lontanissimo dal traguardo con altri corridori, poi sempre attento a domare quelle pietre che su di lui, nonostante sin troppo leggero rispetto ad altri bestioni da pavé, sembrano cucite su misura. A poco più di 50 dall’arrivo, quando è rimasto solo dopo aver accelerato, abbiamo sognato e avremmo voluto fermare il tempo come un’istantanea.

E poi la foratura e la caduta: stamane sul giornale belga Het Nieuwsblad hanno scritto che la preparazione della bici di riserva non era l’ideale per guidare sulle pietre finali: sembrava che la pressione delle ruote fosse troppo alta. Il suo DS Knaven ha subito risposto: «Ma quale pressione errata: la bici di scorta era uguale a quell’altra. Semplicemente Gianni, dopo la foratura, era stanco morto. È un peccato perché oggi aveva dimostrato di essere il più forte in gara».

L’altalena di emozioni ci ha trascinato ribaltandoci lo stomaco come al povero Jorgenson e ci ha coinvolto nel vedere il distacco di Moscon scendere all’improvviso, poi di nuovo crescere per un attimo: mera illusione. Una volta dentro Carrefour de l’Arbre per lui ormai era finita.

Avrebbe vinto senza quei due problemi? Chi lo sa. Ci verrebbe da dire di sì perché il vantaggio era sostanzioso e stabile, ma mancavano ancora dei tratti a 5 stelle di difficoltà. E di bastarda come la Roubaix non c’è corsa. «Dopo la foratura e il cambio bici mi sono trovato a guidare oltre il limite e sono caduto. Sono stato un po’ sfortunato perché se non vinci con queste gambe… certo magari non avrei vinto lo stesso, ma già essere protagonisti nella corsa più bella del mondo è qualcosa di unico». Ieri, come hanno spiegato diversi saggi, è contato più il viaggio che la destinazione. Più il come (ha corso) che il cosa (ha vinto). Ieri Moscon ha mostrato che credendoci e correndo in questa maniera, all’attacco come vuole il ciclismo degli anni 2020, e da leader, può sognare qualcosa di grande. E ovviamente noi con lui.