Words: Gino Cervi
Voice: Luca Mich e Claudio Ruatti
Sound design: Brand&Soda
Il 10 maggio 1931 è un giorno di grandi duelli. Sulle strade d’Italia, seppure a distanza di mille miglia, vanno in scena due appassionanti contese sportive. In Sicilia, sulle curve e i saliscendi delle Madonie, si corre la ventiduesima edizione della Targa Florio, una delle più antiche e illustri corse automobilistiche. Al volante di rombanti fuoriserie i piloti più forti del momento: su tutti spicca la sfida tra il vecchio, Tazio Nuvolari, e il giovane campione, Achille Varzi. Al termine dei quattro giri di circuito, 584 km, 9 ore, 0 primi e 27 secondi, alla media di 64,836 km/h, taglia per primo il traguardo di Cerda l’Alfa Romeo del Nìvola, il “Mantovano volante”; Varzi, su Bugatti, arriva soltanto terzo; in mezzo un’altra Alfa Romeo, quella di Mario Umberto Borzacchini. Completa la classifica dei migliori, Giuseppe Campari, quarto. Sembra una canzone di Lucio Dalla.
Dall’altro capo della penisola c’è un’altra sfida. Non schiacchiano i piedi su acceleratore, freno e frizione ma mulinano le gambe sulle pedivelle delle loro biciclette. Nella prima di tappa del Giro d’Italia, la Milano-Mantova, 206 chilometri e mezzo, piatti come una tavola e più o meno dritti come una ferrovia, il testa a testa è tra Alfredo Binda e un altro mantovano che non è ancora volante, ma sta per spiccare il volo: Learco Guerra.
Ci sono almeno due buoni motivi per appassionarsi all’ouverture dell’edizione numero 19 del Giro. Il primo è che da quest’anno la corsa si è data un colore che la accompagnerà per il resto della sua storia. Il leader in classifica generale indossa una maglia che lo distingue per eccellenza: una maglia rosa. Rosa come la carta sulla quale, fin dal 2 gennaio 1899, viene stampata “La Gazzetta dello Sport”. L’idea è “copiata” dal Tour: anche lì da qualche anno, il primo in classifica è riconoscibile per una maglia gialla, gialla come il colore delle pagine del giornale “L’Auto”, l’organizzatore della manifestazione.
Pare che a Mussolini e agli alti dirigenti dello sport fascista la scelta non convincesse per niente. Il rosa non è u colore che si addice agli eroi, virili e ardimentosi, dello sport. Forse per questo la novità viene poco enfatizzata dagli stessi organizzatori e dalla stampa. Il termine infatti compare timidamente sulle pagine della “Gazzetta” solo al termine della 7a tappa e, a Giro concluso, in una poco appariscente didascalia di una foto del vincitore. Col tempo tuttavia il colore “delle dita dell’aurora”, come scrive Omero che di epica se ne intende, conquistò anche i suiveur del Giro. Non solo la maglia del più forte, ma anche il Giro stesso divenne “la Corsa Rosa”.
Il secondo motivo è questo. Se vogliamo restare fedeli alla tradizione omerica, diciamo che Alfredo Binda e Learco Guerra si accingono quel giorno a diventare l’Achille e l’Ettore del ciclismo nazionale. Così, spalla a spalla, e col coltello tra i denti, si presentano i due avversari alle porte della pista del Te, che prende il nome dal vicino palazzo gonzaghesco a Mantova.
A poche decine di metri dall’ingresso in pista, mentre il gruppo compatto si accinge a preparare la volata, cade Antonio Negrini. Sei corridori si trovano in testa: Di Paco e Battesini della Maino, quindi Binda della Legnano, Guerra ancora della Maino, e poi Mara della Bianchi e, a chiudere, un altro “ramarro” della Legnano, Marchisio. Devono ancora percorrere un giro e mezzo di pista. Ma noi, per il momento, li lasciamo qui. E facciamo un passo indietro per raccontarvi da dove arrivano i due duellanti.
Se fossero vissuti a cavallo tra il I e il II secolo d.C. Plutarco, lo scrittore greco di cittadinanza romana, Alfredo Binda e Learco Guerra li avrebbe inseriti nelle sue celebri Vite parallele. Invece sono figli del XX secolo e ci tocca raccontarli in un altro modo, magari proprio in un podcast. Le vite di Binda e Guerra incominciano nel 1902, quasi appaiate: l’11 agosto nasce Alfredo, 14 ottobre Learco.
A Cittiglio, provincia di Varese, il primo; a San Nicolò Po, frazione di Bagnolo San Vito, provincia di Mantova, il secondo. Un lombardo di lago e un lombardo di fiume. Binda, decimo di quattordici figli, cresce in una famiglia quasi agiata. Il padre ha una piccola ditta edile: il piccolo Alfredo trova anche il tempo di studiare musica e suonare la tromba nella banda del paese. All’indomani della Grande Guerra, sulla “sponda magra” del Lago Maggiore non c’è però lavoro per tutti. E il giovane Alfredo, al seguito del fratello maggiore, Primo, emigra e va a cercar fortuna in Francia, come stuccatore e decoratore nelle belle case della Costa Azzurra.
Qui incomincia ad appassionarsi di ciclismo: all’inizio accompagna il fratello alle corse, poi scopre di avere un innato talento sui pedali.
A vent’anni comincia a correre. E comincia a vincere nelle gare a cui si iscrive, da dilettante, tra un lavoro e l’altro. Va talmente forte che presto diventa quello il suo lavoro. Nel 1923 in una corsa in salita aperta ai professionisti, la Nizza-Mont Chauve, batte tutti, francesi e italiani, Girardengo compreso.
Learco Antenore Giuseppe Guerra è figlio di Attilio, capomastro mantovano, e di Pasquina, combattiva casalinga di simpatie socialiste. Perché lo battezzino Learco nessuno lo sa. Che Learco in mitologia sia lo sfortunato figlio di Atamante, ucciso dal padre reso pazzo per vendetta da Era, o Giunone, non importa a nessuno. Learco suona bene e basta così. A Learco piace lo sport: è forte, atletico, resistente. Gioca a pallone. Vorrebbe anche provare a correre in bicicletta. Ma di tempo da perdere, in famiglia Guerra non ce n’è. L’unica bicicletta è un vecchio tandem. Lo inforca insieme a Papà Attilio per andare nei cantieri.
Nel Mantovano gli anni della guerra sono durissimi: l’alluvione del Po nel giugno del 1917, i disastri della ritirata di Caporetto in autunno; e poi, a guerra finita, le tensioni sociali. Il 3 e 4 dicembre 1919 a Mantova le Giornate rosse dei braccianti, sempre più poveri e sfruttati. Protestano contro il costo della vita e la disoccupazione. Manifestazioni e scontri di piazza degenerano in saccheggi e devastazioni. L’esercito interviene: 8 morti, 50 feriti, centinaia di arresti. Anche alcuni amici di Learco finiscono in carcere e sotto processo. I socialisti vincono le elezioni amministrative del 1920. Le squadre fasciste iniziano le spedizioni punitive nelle campagne. Nel 1921 devastano la cooperativa di San Nicolò.
Learco a vent’anni è chiamato alla leva militare e si toglie per un po’ da quella polveriera. Due anni dopo, al suo ritorno, nell’ottobre del 1924, è già papà. Nasce Gino Beniamino e la mamma è Letizia Malavasi, la sua “morosa” fin da prima di partire soldato. Si sposano qualche mese dopo. Ora che c’è una famiglia da mantenere, c’è ancora meno posto per le fantasie ciclistiche. Eppure Learco non smette di pensare a quegli aitanti ciclisti che corrono nel Pedale Mantovano, o per 23a Legione Bersaglieri del Mincio; e ai campioni locali di cui legge sulle pagine dei giornali. Alfredo Donini e Spartaco Boselli; Giacomo Gaioni e Aimone Altissimo; e Armando Maggiori, che nel 1927 corre il Giro da indipendente. Learco sente che, in sella a una bicicletta, non sfigurerebbe al loro confronto. Ma restano solo sogni.
Ad Alfredo Binda invece la bicicletta ha fatto svoltare la vita. Dopo aver vinto in Francia una trentina di corse, sul finire del 1924 torna in Italia per partecipare al Giro di Lombardia. Ha un obiettivo: vincere le 500 lire di premio messe in palio per chi passerà primo sul Ghisallo. Alfredo ce la fa. Scollina per primo con 2 minuti di vantaggio su Brunero e 3 e mezzo su Girardengo. In discesa viene ripreso da Brunero, che poi lo stacca a Viggiù. Al traguardo, arriva 4°, a 8 minuti da Brunero, il vincitore, ma insieme a molti navigati campioni come Girardengo e Linari. L’occhio lungo di Eberardo Pavesi, direttore sportivo della Legnano, lo nota. A corsa finita gli fa firmare un contratto con la Legnano. Per un decennio sarà la fortuna di Binda, ma anche di Pavesi.
L’anno seguente, con la maglia verde ramarro, il “Trombettiere di Cittiglio” – come hanno iniziato a chiamarlo sui giornali – vince il Giro d’Italia al primo tentativo e, a fine stagione, anche il Giro di Lombardia. Nel 1926 arriva secondo al Giro, ancora dietro a Brunero, ma vince sei tappe, si ripete al Lombardia e conquista il suo primo titolo di campione italiano su strada.
Nel 1927 ammazza il Giro: guida la classifica dal primo all’ultimo giorno e vince dodici tappe su quattordici. Sgomina la concorrenza internazionale al primo Campionato mondiale su strada, sul circuito del Nurburgring. Quindi ancora Campionato italiano e ancora il Giro di Lombardia.
Nel 1928 si “limita” al terzo Giro d’Italia (con sette tappe su dodici) e alla terza maglia tricolore.
Nel 1929 vince la prima Milano-Sanremo e poi cala il poker sia al Giro sia ai Campionati italiani.
Non è un dominio: è una tirannia. Binda pare imbattibile. In meno di cinque anni ha sbaragliato il campo, mettendo all’angolo un Campionissimo come Girardengo. Quello che sconcerta di più è la scientificità dei suoi successi. Tutto, nelle sue imprese, pare calcolato al millimetro: sforzi ed emozioni. Il varesino ha una gestione perfetta del proprio talento sportivo ma non entusiasma le folle. Anzi, i tifosi del ciclismo, abituati fin dalle origini alle rivalità e a i duelli – Gerbi e Cuniolo, Ganna e Galetti, Girardengo e Belloni – cominciano a irritarsi per questa incontrastata egemonia. Lo capiscono anche gli organizzatori del Giro d’Italia. Nel 1930, per non privare d’interesse la corsa, gli propongono questo accordo: «Tu resti a casa, noi ti paghiamo lo stesso il premio del vincitore: 22.500 lire». Binda accetta: così avrà modo di prepararsi meglio al suo primo Tour de France.
Cosa succede intanto dalle parti di Mantova al muratore Guerra?
Autunno 1927. Ferruccio Gatti, fascista della prima ora, è il presidente della società sportiva della 23a Legione Bersaglieri del Mincio, affiliata alla Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale. Gli presentano Learco: ha già venticinque anni, non ha mai corso in bicicletta, però quel giovanottone massiccio, con le mani grosse da muratore, gli ispira fiducia. Learco si lascia alle spalle il suo passato di simpatizzante socialista: prende la tessera del partito e viene iscritto. Non vede l’ora di essere messo alla prova.
Nelle prime corse solo piazzamenti. La prima vittoria è nel Giro della Provincia di Ferrara: porta a casa 1200 lire, quel che ci vuole per rispondere alle perplessità della famiglia che non vede di buon occhio la passione ciclistica.
Si iscrive come indipendente al Lombardia: tiene fino a 10 km dall’arrivo, poi si ritira. Ci riprova nella “Coppa d’Inverno”. Arriva 11° e si merita una menzione da Emilio Colombo della “Gazzetta”:
«Atleta solido, ben piantato, munito di un fiato rimarchevole. Potrà certamente fare qualcosa».
Si batterà generosamente in altre corse, ma i risultati non arrivano. Manca qualcosa: forse la preparazione, forse l’assistenza tecnica. Forse è troppo tardi per lui: le grandi case, la Legnano, la Bianchi, non si accorgono di lui. A fine stagione sta per mollare tutto. Ma un amico, Gino Ghirardini, piccolo imprenditore mantovano, gli procura una bicicletta Maino e una maglia grigia. Gli dice di presentarsi a Milano alla partenza della Sanremo: la Maino gli ha procurato il materiale tramite Spaggiari, un loro rivenditore mantovano.
Learco è stupito: ma il 19 marzo è alla partenza della Classicissima di primavera. Si presenta a quelli della Maino, tra cui Antonio Negrini che si sta facendo massaggiare da Biagio Cavanna. Lo guardano storto: Guerra, timido e orgoglioso, gira al largo. Ma in corsa gira eccome. È l’unico tra quelli in maglia grigia ad arrivare al traguardo, anche se a 17 minuti e 35 secondi da Binda, che stravince. All’arrivo però non capisce perché nessuno della squadra gli rivolga una parola, una pacca sulla spalla, neanche uno sguardo. A stento riesce a trovare qualcuno che gli presti i soldi per tornare a casa in treno. In viaggio lo assalgono pensieri cupi. Una volta tornato a Mantova scopre la verità: non era vera la storia dell’invito della Maino. Era stato l’amico Ghirardini a comprare bici e maglia al rivenditore Spaggiari. Learco è mortificato.
Ma quella Milano-Sanremo “regalata” è la sua sliding door. Girardengo che non prendeva parte alla gara l’ha notato in corsa e convince il commendator Giovanni Maino a dare davvero una possibilità al muratore mantovano. Corre il Giro del Piemonte. Dopo aver dato l’anima per Negrini, che infatti vince per distacco su Binda, Learco è costretto al ritiro da due forature. Testardo, insiste. Giro di Romagna. Anche qui si batte alla morte per Giacobbe e Negrini, che arrivano alle spalle di Binda. Lui solo 17°. Alla Maino però hanno capito che ci si può fidare. E lo ingaggiano per il Giro d’Italia. Learco tocca il cielo con un dito: neppure un anno e mezzo prima la bici la usava solo per andare a lavorare. Al servizio Negrini e Giacobbe chiude 24° in classifica generale. Prima della fine della stagione vince la Coppa Appennino, a Vignola, e la Benevento-Napoli, 4a tappa del Giro di Campania; e poi, tra la sorpresa generale, i Campionati nazionali di mezzofondo su pista, a Carpi, battendo Binda e altri campioni come Piemontesi e Linari.
La stagione 1930 inizia con un 7° posto alla Milano-Sanremo. Ma è al Giro d’Italia, quello che si corre senza Alfredo Binda, pagato pur di lasciare il campo agli avversari, che Learco Guerra diventa finalmente protagonista. Dopo un anno di apprendistato tra i professionisti, grazie all’allenamento, a una migliore alimentazione e una maggior assistenza tecnica, Guerra inizia a esprimere tutte le sue potenzialità. È un formidabile passista, perfetto per le gare a cronometro. Sa battersi allo sprint ma ha anche notevole capacità di tenuta sulle lunghe distanze.
Ma soprattutto è un esplosione di temperamento. Così come Binda applica un metodo scientifico alla sua condotta di corsa, Guerra è al contrario un arrembante esplosione di vitalità. Per questo che i tifosi iniziano ad amarlo ancora prima che diventi un vero campione. E al Giro del 1930 Guerra parte all’arrembaggio. Vince due tappe (a Roma e a Forlì), arriva due volte secondo, una volta terzo e altre due volte quarto. Alla fine si piazza 9° in classifica generale, a 36 minuti e 10 secondi dal vincitore, Luigi Marchisio della Legnano.
Il giornalista della “Gazzetta” Valdo Cottarelli lo ribattezza “La Locomotiva Umana”.
La consacrazione a idolo dei tifosi avviene un mese dopo. Guerra è chiamato a far parte della squadra italiana che partecipa al Tour de France. Il patron Henri Desgrange, inventore e autorità assoluta della Grande Boucle, ha rivoluzionato la formula della corsa. Basta con le squadre-corsa delle marche di biciclette. Alla partenza cinque squadre nazionali, Francia, Belgio, Spagna, Italia e Germania, formate da otto componenti l’una; più una schiera di un ottantina di touristes-routiers, ovvero di corridori che correvano in autonomia, senza assistenza tecnica a supporto. La rappresentativa italiana è tutta votata al successo di Alfredo Binda: lo affiancano il vecchio Tano Belloni che ha già 38 anni, Domenico Piemontesi, Giuseppe Pancera, Leonida Frascarelli, Marco Giuntelli, Felice Gremo e, appunto, Learco Guerra, «il più taciturno, spesso appartato, quasi sempre imbarazzato»
Ma se al Tour tutti quanti attendono l’exploit internazionale di Binda, a stupire è proprio il campione mantovano. Vince la seconda tappa, la Caen-Dinan, e indossa la maglia gialla. Ha un vantaggio esiguo, 12 secondi, sul francese Charles Pellissier. L’uomo che tutti temono resta Binda. I francesi cercano di farlo fuori, non perdendo occasione per farlo innervosire. Nella volata di Bordeaux, Pellissier gli si aggrappa alla maglia e los supera di slancio sul traguardo. Pellissier viene penalizzato e retrocesso, ma il campione di Cittiglio vuole ritirarsi. Lo convincono a ripartire ma nella tappa seguente rompe un pedale e poi cade: accumula un ritardo di oltre un’ora. Binda è sempre più intenzionato ad abbandonare, ma c’è la maglia gialla di Guerra da difendere. Lo fa con successo nella Hendaye-Pau. Ma nel successivo tappone pirenaico, la Pau-Luchon, con Aubisque e Tourmalet da scalare, Guerra cede di schianto: Binda va a vincere per il secondo giorno consecutivo, ma la maglia gialla passa sulle spalle del francese André Leducq.
Nella Luchon-Perpignan, vittima dell’ennesimo incidente, si ritira infine anche Binda. Guerra, secondo in classifica, rimane solo, con Pancera e Giuntelli. Nonostante questo, e nonostante le provocazioni dei francesi, Guerra si batte come un leone. Si conquista anche la stima e la simpatia dei tifosi francesi, che lo chiamano Ghérà. Vince altre due tappe, a Cannes e a Grenoble, e a Parigi, sul traguardo finale, arriva secondo. Un secondo posto che vale 30.000 franchi di premi e la popolarità. Che vuol dire altri soldi. In Italia Guerra che corre il Tour de France suscita l’entusiasmo dei tifosi. In segno di gratitudine aprono cospicue sottoscrizioni a suo favore. A Mantova si raccolgono 13.358 lire. Un sarto si offre di tagliargli un abito su misura. Un barbiere gli assicura barba e capelli gratis per un anno. Attraverso le pagine della “Gazzetta” si arriva addirittura alla cifra di 111.761 lire. Per dare l’idea del valore, all’epoca un buono stipendio di un impiegato di banca era di 500 lire al mese. Albergatori di tutta Italia, da Montecatini e Ponte di Legno, lo invitano a soggiornare gratuitamente nelle loro strutture. Ma la stagione non è ancora finita. Il 30 agosto ai Campionati mondiali di Liegi 1930, Guerra è di nuovo al fianco di Binda nella lotta per la conquista del titolo iridato. Si corre in casa del campione belga Georges Ronsse, vincitore delle ultime due edizioni. Da alleati, Alfredo e Learco sono imbattibili. Nella fuga decisiva a quattro, vince il primo, lanciato in volata dal secondo: Ronsse è solo terzo.
Gli ultimi appuntamenti dell’anno sono le prove del Campionato italiano. La sera del 13 settembre parte la Predappio-Roma, 477 km, praticamente una Gran Fondo. La gara si decide a 60 km dal traguardo, quando Guerra parte in solitaria e stacca tutti. Arriva primo all’ippodromo di Villa Glori, portato in gloria dalla folla di tifosi. Si ripete il 5 ottobre, nell’ultima prova del Campionato tricolore: vince la Coppa Caivano, vicino a Napoli, e si aggiudica il titolo italiano, interrompendo la serie di quattro successi consecutivi di Binda. Da qui in poi tra i due sarà guerra, di nome e di fatto. A prendere le parti di Learco sono soprattutto i vecchi tifosi di Girardengo, che, ormai a fine carriera, è di fatto anche il mentore di Guerra alla Maino, come spiegano i commentatori più avveduti:
«Guerra è curato, consigliato, indirizzato da Girardengo al quale non par vero di buttare un tale ostacolo tra le ruote dell’aborrito rivale. Binda aveva vinto per quattro volte consecutive la maglia tricolore? Ebbene, al primo serio assalto di Guerra, egli dovrà cedergliela. Il dito di Dio! Sentenziano gli inconsolabili girardenghiani, d’incanto diventati guerriani per la pelle…».
E sono sempre loro a raccontarci che, soprattutto a Mantova, l’ex muratore di San Nicolò Po non conosce più la solitudine:
«Anche Virgilio, se potesse, verrebbe giù dal piedistallo e apparirebbe sotto i platani del Te con il suo bravo programma delle corse in mano».
Per le vie della città lo salutano affacciandosi alle finestre, le automobili rallentano, si fermano per strada. Se va a comprare il giornale, le edicole vengono prese d’assedio. Se entra in un bar a prendere un caffè, fuori fanno la fila per vederlo dalle vetrine. I bambini gli corrono dietro, le ragazze gli sorridono, le autorità se lo contendono.
Al Giro di Lombardia, gran chiusura di stagione, tra i due litiganti, secondo Binda e terzo Guerra, gode Mara, primo dopo la squalifica di Piemontesi per scorrettezze in volata. Mantova tutta gli prepara una gran festa. 15.000 spettatori assistono alla riunione su pista, dove sono invitati i più forti, da Binda a Charles Pellissier, in segno di pace dopo le scazzottature al Tour. La fa da padrone… il padrone di casa: a mani basse Guerra vince nella velocità, nell’inseguimento e a cronometro. Il giorno dopo, la domenica, a palazzo Aldegatti gran pranzo di gala. Ci sono tutti: da Giovanni Maino a Costante Girardengo, da Orio Vergani a Vittorio Varale, a Henri Desgranges. Emilio Colombo consegna a Learco il lauto incasso della sottoscrizione della “Gazzetta”.
Il 1931 la sfida continua. La Sanremo la vince Binda davanti a Guerra, non senza polemiche. Alfredo perde in casa nella Tre Valli Varesine, dove è primo Giacobbe, compagno di squadra di Learco. Guerra s’impone al Giro di Calabria. Alla vigilia del Giro del 1931 i duellanti si presentano così. Binda ha già praticamente vinto tutto: due Campionati del mondo, quattro Giri d’Italia, tre Giri di Lombardia, due Milano-Sanremo. Guerra ha un palmarès infinitamente più modesto: due tappe al Giro, tre al Tour e la maglia di campione italiano. Eppure quella che si preannuncia è una lotta tra titani.
E allora torniamo all’ingresso alla pista del Te, arrivo di quel 10 giugno 1931, prima tappa della XIX edizione del Giro. Riporta la cronaca del “Corriere della Sera”:
«Al primo giro, Binda supera i due grigi [Di Paco e Battesini] che gli stanno davanti, e si porta davanti in prima posizione. Guerra lo segue come un’ombra. All’entrata dell’ultima curva il mantovano supera il cittigliese e resiste vittoriosamente sul rettilineo al contrattacco del rivale». Learco Guerra vince e indossa la prima maglia rosa della storia del Giro d’Italia. Ma la battaglia è apertissima. Nella seconda tappa che arriva a Ravenna Guerra concede il bis. Ma nella terza paga dazio alle prime salite appenniniche e sul traguardo di Macerata accusa un distacco di 6 minuti da Binda, che arriva primo e balza in testa alla classifica.
Nella quarta tappa che giunge a Pescara il testa a testa è appassionante: allo sprint vince per un nulla Binda. All’arrivo a Roma, Binda cade a pochi chilometri dall’arrivo: si ferisce e viene scalzato in classifica generale da Mara. Il giorno dopo è costretto al ritiro.
Guerra allora si scatena: vince due tappe consecutive, a Perugia e poi a Montecatini, dove riconquista la maglia rosa. Ma nella successiva Montecatini-Genova, va in crisi sulla salita della Foce e cade in discesa, investito da altri corridori. Il freno di un’altra bicicletta lo ferisce alla schiena. Viene soccorso, si riprende ma a La Spezia, con la maglia rosa insanguinata, si ritira. A differenza della defezione di Binda, l’abbandono di Guerra suscita grande emozione tra i tifosi. Privato dalla malasorte dei duellanti tanto attesi, il Giro del 1931 viene vinto da Camusso.
Né Binda né Guerra partecipano al Tour de France. Entrambi puntano al Mondiale, in programma a Copenaghen, il 26 agosto.
La formula è inedita: una cronometro individuale di 172 km. Praticamente una maratona contro il tempo. Binda, il campione uscente, non è in forma e arriva solo sesto. Guerra stravince alla strepitosa media di 35,136 km/h e con 5’23’’ di vantaggio sul francese Le Drogo, un nome che forse oggi susciterebbe ben di più che un sospetto. Da Mantova seguono la corsa via radio. Alla trattoria Stella con campo di bocce, in Porta Pusterla, c’è anche il padre di Learco, Attilio. Corre a casa ad annunciare il trionfo e vorrebbe cambiare nome alla nipotina, nata solo da pochi giorni, il 13 agosto: «Cambiamo nome alla Carla! Chiamiamola Vittoria!». A Mantova la goliardia dei GUF inneggia in versi al trionfo del concittadino, prendendosi gioco dell’avversario:
«Lo disse Socrate
lo confermò Virgilio
che uno solo di Mantova
val cento di Cittiglio».
La strepitosa vittoria del Mondiale di Copenaghen sembra a molti un passaggio di consegne. Ma non è così. Due mesi dopo, Binda torna a vincere alla grande il Lombardia.
La rivalità si acuisce. Una rivalità, come scrive Bruno Roghi sulla “Gazzetta”, «sorda, caparbia, gelosa. Una rivalità senza parole e senza gesti, come se l’uno e l’altro fossero muniti di uno schioppo carico e si minacciassero continuamente la fucilata senza avere mai il coraggio di premere il grilletto».
1932 è l’anno del Decennale del fascismo. Ci si aspetta che al Giro si celebri la ricorrenza con un testa a testa tra i due grandi campioni. Ma, ironia della sorte, la corsa nazionale rischia di essere vinta da uno straniero. A lungo in maglia rosa è il tedesco Büse e lotta fino in fondo per la vittoria anche il belga Demuysere: per fortuna ci pensa il bergamasco Antonio Pesenti, il “mulo di Zogno”, a mettere d’accordo tutti. Guerra arriva 4°, anche se vince 6 tappe su 13. In una di queste la banda locale lo accoglie con le belligeranti note del coro «Guerra! Guerra!» della Norma di Bellini. Binda invece è solo 7°. Ma si prende la rivincita trionfando nel primo Campionato mondiale che si disputa in Italia, a Rocca di Papa. Guerra, attardato da una congestione, è 5°.
Il 1933 è di nuovo lotta all’ultimo sangue tra i due, che corrono l’uno con la maglia iridata di campione del mondo, l’altro con quella tricolore di campione d’Italia. Alla Sanremo Binda rompe una ruota a 20 km dal traguardo e Guerra ha via libera per la sua prima vittoria in Riviera. Al Giro, dopo la vittoria all’esordio, la sfortuna si accanisce contro Guerra, attardato in classifica già dalla seconda tappa. Si riprende, recupera in classifica, vince altre due tappe, prima di cadere di nuovo in volata a Roma, proprio per essersi toccato con Binda. È costretto al ritiro tra mille polemiche dei tifosi delle contrapposte fazioni. Binda conquista la maglia rosa a Foggia e la tiene fino all’arrivo di Milano: è il suo quinto Giro d’Italia. Ma è anche il suo canto del cigno. Guerra invece torna al Tour a dare spettacolo. È il leader della selezione italiana che però gli fa mancare il supporto decisivo. Da otto che erano rimangono in tre nelle tappe decisive tra Alpi e Pirenei. Nonostante questo, Guerra vince cinque tappe.
Vola a Charleville, città natale di Rimbaud, poeta «dalle suole di vento». Learco ha il vento nelle suole anche a Aix-Les-Bains e a Grenoble, quando nella discesa del Galibier rimonta un ritardo di oltre 10 minuti; poi ancora a Pau, nella massacrante tappa del Tourmalet. E infine nel gran finale sui Champs Elysées.
Guerra, come già tre anni prima, arriva secondo, dietro il francese Speicher. I baci della conturbante Joséphine Baker sono anche per lui.
Tra Binda e Guerra il duello non ha più storia nel 1934. Binda scompare dietro le quinte e Guerra trionfa. Dopo tante vittorie parziali, il Giro è un suo monologo: vince 10 tappe e finalmente è anche primo a Milano. Binda si ritira nella tappa di Napoli. Ai Mondiali di Lipsia una scorrettezza in volata del belga Kaers – non punita dai giudici – sottrae a Guerra il secondo titolo iridato. Learco si rifà vincendo il suo primo Giro di Lombardia e il suo quinto titolo di campione italiano. Nel 1935 la “Locomotiva umana” vince ancora cinque tappe al Giro ma anche il suo straordinario motore comincia a battere in testa. Mentre Binda si ritira dalle corse l’anno seguente, Guerra continua. Indossando la maglia che fu del rivale, quella della Legnano, nel 1937 vince la sua ultima tappa al Giro, la Roma-Napoli. Non poteva che andare così. Napoli, dopo Mantova, è da sempre la sua seconda patria: all’ombra del Vesuvio, accompagnato dal calore dei tifosi che da quelle parti lo idolatrano, ha ottenuto le vittorie entusiasmanti.
Lo ha scritto Mario Fossati, in questo bel ritratto parallelo dei due contrapposti campioni:
«Binda era un campionissimo che incantava i raffinati. Non era un freddo, un ingrato, un avaro come in fans di Girardengo sostenevano… Certo, con lo stile superiore delle sue imprese sapeva convincere i tecnici; certo, diceva una parola nuova; certo, mascherava lo sforzo con tanta eleganza da portare il primo pubblico femminile al ciclismo. Ma la corsa rimaneva sempre dentro di lui. Poi arrivò Guerra. Un volto aperto, i capelli nerissimi, la risata pronta, la generosità oltre ogni limite. Guerra osa perché non tramonta mai l’ora di osare. Osa per il bel gesto in sé. Binda scivola, arriva, espugna la trincea. Guerra la invade, a suo rischio, d’un balzo. Il pueblo è per Guerra».
Il secondo dopoguerra riserva al grande Learco una seconda carriera di successi da imprenditore – dà il suo nome a una fabbrica di biciclette – e da direttore sportivo. Con la Guerra-Ursus porta alla vittoria al Giro per la prima volta un campione straniero: lo svizzero Hugo Koblet nel 1950. Replicherà nel 1954 con l’outsider Carlo Clerici, altro svizzero di origini italiane. E poi ancora, con la Faema-Guerra, nel 1956 è l’artefice strategico della mitica vittoria di Gaul: nella giornata di tregenda sul Bondone, fa fermare Charly, gli fa fare un bagno in una tinozza calda, lo riveste con un cambio asciutto e lo rimette in sella. E l’Angelo della montagna conquisterà il suo primo Giro. L’accoppiata Gaul-Guerra farà il bis, tre anni dopo, nel 1959. Ma anche le Locomotive smettono di correre. Learco Guerra dà i primi segni di un improvviso cedimento – un tremore alla mano destra – quando ancora non ha sessant’anni. La diagnosi è una sentenza, per quegli anni: morbo di Parkinson. Learco Guerra si spegne a Milano il 7 febbraio 1963. Non c’è miglior finale di quanto ha scritto di lui Marco Pastonesi:
«Come un vulcano, uno tsunami, una bora. È un bisonte della strada. Come una moto, una macchina, un camion. Di più: la Locomotiva umana. Nell’immaginario popolare, se nel cognome sono rappresentati lo spirito del corridore, la strategia di corsa, la filosofia di gara, nel soprannome risuona il motore bicilindrico, si respira la polvere, si sente il vento. E Guerra indossa un paio di occhialoni alla Nuvolari, degni delle Mille Miglia».
Fonti
Renzo Dall’Ara, Locomotiva umana: Learco Guerra: l’avventura di un campione nella leggenda del ciclismo, Tre Lune Edizioni, 2002
Claudio Gregori, voce Ciclismo in Enciclopedia dello Sport Treccani, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2005.
Marco Pastonesi, Ritratto di Learco Guerra. Macchina da… Guerra, in Giro d’Italia. La grande storia. 1925-1935, La Gazzetta dello Sport, 2012