La Gand-Wevelgem è una corsa che tesse inganni. Sono poco più di ventotto i chilometri da Ypres a Wevelgem, il percorso, invece, si snoda in un budello attorcigliato che somiglia a una litania dolente. Scherpenberg, Vidaigneberg, Baneberg, Monteberg, Kemmelberg e si torna a ripetere ogni muro, senza logica e senza ordine.
Il vento oggi è un dinamitardo impazzito che imperversa da destra a sinistra, da sinistra a destra. I ventagli sono l’unica possibilità per non esserne respinti, assecondare la rabbia dell’aria, le sue sberle, per restare attaccato alla ruota che hai davanti e che sembra sempre più distante. Chi perde un metro non lo recupera più. Così il gruppo si disperde in tanti rivoli, ferito irrimediabilmente, smembrato.
Mancano ancora cento chilometri all’arrivo e davanti sono solo venti uomini a giocarsela senza ritegno. Tra di loro Wout van Aert, Matteo Trentin, Michael Matthews, Stephan Küng, Sam Bennett, Sonny Colbrelli e Giacomo Nizzolo. Procedono veloci, appaiati, quasi raggruppati, si scrutano, si controllano mentre la sabbia alzata dal vento sembra risucchiata dal cielo e le pietre stortano le bici e le bocche che in certi istanti sembrano deformarsi, il ghigno della fatica. Dietro gli inseguitori cadono nella ragnatela della menzogna del tempo, di quel minuto di distacco che sembra poco e invece è troppo: così Štybar prova a rientrare con Ballerini, così Van Avermaet e Arnaud Démare sgasano a vuoto, illudendosi ed illudendo.
Wout van Aert è un attore alla prova generale al secondo passaggio sul Kemmelberg. Chissà cosa avranno pensato quelli che gli erano a ruota, mentre il respiro faticava a salire. Chissà cosa avrà pensato Bennett ad ogni curva, ad ogni discesa, ad ogni strappo, mentre il suo stomaco sembrava ribaltarsi per gettare fuori qualcosa di indigesto. In certi momenti la verità non è ammessa, bisogna fingere e far credere agli altri che è meglio che ti temano perché in volata sei più veloce. Anche la paura può spezzare le gambe, in questo spera Sam Bennett.
Sarà un nuovo attacco di van Aert sul Kemmelberg a lacerare ogni finzione. Bennett resta in coda, perde dieci, quindici metri. La nausea si trasforma in conato di vomito, sembra una liberazione, nonostante il tremore e la debolezza. È questa la forza che gli permette di tornare in testa a tirare, come se niente fosse successo. Sta mentendo l’atleta Quick Step ma il corpo non lo inganni, le viscere sentono tutto. Sembra una Pietà quando si sfila, testa bassa, poi alta, poi di lato, sudore freddo e gambe ferme. A raccattare ossigeno chissà dove per non fermarsi e buttarsi a terra.
Ci si avvicina sempre più a Wevelgem. Van Aert parla con il compagno Van Hooydonck: a tutta, andatura alta per scongiurare attacchi. Chi prova, rimbalza. Lo sa bene Küng che è l’enigma dell’impotenza quando prova ad allungare all’ultimo chilometro come quando parte lungo, troppo lungo, ai quattrocentocinquanta metri dalla linea bianca del traguardo.
Non c’è più tempo per aspettare, le gambe scalpitano nervose. Van Aert lancia la volata a centro strada e non c’è più storia che tenga. Sembra tutto facile anche se facile non è, dopo duecentocinquanta chilometri. Nizzolo e Trentin partono dal fondo, quasi sollevano la bicicletta dai colpi che danno sui pedali, rimontano tutti, non lui che fa corsa a parte. Lui che ringrazierà il compagno di squadra, che dirà che è stata dura, durissima, perché, quando si è solo venti in gruppo, quel vento contrario devi affrontarlo a viso aperto a costo di sembrare incosciente. E poi quel «sono felice», che spesso non si ammette, che si ritiene scontato, ed invece oggi sì, come una liberazione dalla fatica. Perché la fatica rende tutto tremendamente vero, nel senso di onesto, spietato, anche crudele, se volete. Come una bicicletta, come un uomo.Foto: Vincent Kalut/PN/BettiniPhoto©2021